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Gli algoritmi stanno appiattendo la cultura: i rischi che corriamo



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Dall’osservazione dei pianisti negli aeroporti, una riflessione sull’influenza dei social sulla cultura. “Filterworld” di Kyle Chayka esplora come gli algoritmi appiattiscano la diversità culturale, privilegiando contenuti che massimizzano l’engagement a scapito dell’autenticità. Questo processo minaccia la creatività, sostituendo valori culturali profondi con consumi superficiali e prevedibili

Pubblicato il 22 mag 2024

Davide Bennato

professore di Sociologia dei media digitali all’Università di Catania



piano

In questi giorni sono stato in giro in Italia per promuovere il mio ultimo libro, e questa cosa mi ha portato ad attraversare diversi aeroporti. Come ormai sanno bene i frequent flyer, negli aeroporti sempre più spesso sono presenti dei pianoforti, un modo diverso per aspettare il proprio volo e per intrattenere – e intrattenersi – in attesa della partenza.

Matthew Lee trova un piano all'aeroporto di Catania 🔥🔥🔥 2022

L’influenza dei social media sul consumo culturale

La tipologia di persone che si cimentano con questi strumenti è la più varia, da giovanissimi studenti di musica che riproducono arpeggi, a persone abituate a suonare a orecchio che provano a cimentarsi con pezzi pop molto famosi, fino a musicisti dotati di una tecnica pianistica superiore alla media. Uno di questi mi ha colpito molto. All’aeroporto di Catania Fontanarossa, si è messo a suonare un’accurata selezione dei brani per pianoforte – o adattati – riconoscibili perché virali su Tiktok come “Oh No” di Capone, “Stay” di Justin Bieber e The Kid Laroi, fino all’immancabile “Experience” di Ludovico Einaudi, performance che ha goduto di un applauso scrosciante. Non ha avuto la stessa fortuna il pianista successivo che ha preferito cimentarsi con “Someone like you” di Adele, forse più sofisticato ma che ha incontrato meno il favore del pubblico.

Alla luce di questo piccolo aneddoto personale, mi sono trovato a riflettere su una questione meno teorica di quello che sembra: quanto il nostro consumo culturale viene plasmato dai social media? Poiché i contenuti dei social sono prodotti dai sistemi di filtraggio automatico, quanto incidono gli algoritmi sulla cultura contemporanea?

Il libro “Filterworld”: come gli algoritmi plasmano la cultura

A questa domanda ha provato a rispondere un recente libro “Filterworld. Come gli algoritmi hanno appiattito la cultura” di Kyle Chayka (ROI Edizioni, Milano, 2024, ed. or. 2024), columnist del New Yorker specializzato in Internet e cultura digitale che con questo suo libro ha sviluppato un’accurata argomentazione su come l’industria culturale contemporanea – sia dal lato della produzione che dal lato del consumo – sia sempre più in mano alle pratiche algoritmiche delle piattaforme di fruizione più o meno specializzate: da Netflix a Spotify ma anche Tiktok.

L’argomentazione sostenuta da Chayka è nel titolo del libro. Secondo l’autore per esprimere la condizione della cultura contemporanea possiamo usare la metafora del filterworld, termine coniato in assonanza con i filter algoritm ovvero gli algoritmi di filtraggio dei contenuti, secondo cui lasciando ai sistemi automatizzati la possibilità di profilare i gusti dei singoli utenti sulla base dei data point che essi lasciano sulle piattaforme digitali, si ha come conseguenza una proposta culturale il cui unico scopo è soddisfare le aspettative del singolo utente e del pubblico di massa, creando così un consumo culturale solo all’apparenza nuovo e innovativo, ma in realtà banale e prevedibile in quanto eccessivamente acquiescente ai gusti del consumatore.

Gli algoritmi e l’appiattimento della diversità culturale

In pratica si migliorano le qualità dell’engagement, a scapito di diversità e autenticità.

Questa è una conseguenza nefasta, in quanto porta la produzione culturale a soddisfare le esigenze di prevedibilità richieste dalla circolazione dei contenti in internet e dall’esigenza a trasformarsi in contenuti virali (banali, tormentoni, prevedibili: ognuno scelga il proprio termine negativo preferito). Creatività, innovatività e genuinità vengono sostituite da una classe di nuovi “valori” culturali algoritmici ovvero facilità di consumo, rapidità di circolazione, successo di mercato.

Il problema del rapporto fra industria culturale e creatività è un lungo dibattito nella sociologia dei processi culturali, che si può riassumere nella seguente domanda: com’è possibile salvaguardare la creatività culturale quando la necessità della cultura è quella di essere un prodotto, ovvero compatibile con le esigenze di mercato?

Il ruolo dei gatekeeper nel settore culturale

La soluzione classica a questa domanda è stata data negli anni ’70 da Paul M. Hirsch, secondo cui il sistema dell’industria culturale funziona come un processo gestito da diversi gatekeeper – per esempio ne caso dell’editoria è formato da case editrici, editor, recensori, festival – i quali decidono cosa debba considerarsi per prodotto culturale e in base a tali valori esercitano delle scelte che portano al successo – o meno – di una proposta culturale (Hirsch 1972, 2000). Similmente per Chayka potremmo dire che i gatekeeper tradizionali sono sostituiti dai nuovi: piattaforme, algoritmi, dati. Con una profonda differenza: il circuito di selezione dei prodotti culturali basati sulle scelte di un sistema di professionisti consentiva – seppur con difficoltà – una certa innovatività culturale, cosa molto più complicata per un sistema artificiale che è chiamato a valutare cosa vada bene per un individuo – o una pubblico specifico – sulla base dei consumi culturali fatti precedentemente.

L’impatto sociale degli algoritmi sul consumo culturale

Il problema dell’impatto degli algoritmi è ancora più evidente dal punto di vista sociale. Il riferimento sociologico classico – citato nel libro – è Pierre Bourdieu. Secondo il sociologo francese – semplificando di molto il suo ragionamento – possiamo considerare il consumo culturale come un equilibrio fra due componenti che sono l’habitus e il gusto.

L’habitus consiste nei consumi culturali ereditati a livello familiare e frutto della classe sociale di appartenenza. Così definito l’habitus fa parte del capitale culturale, ovvero quella forma di capitale che viene accumulata (anche) tramite l’educazione e che assieme al capitale economico (disponibilità di denaro) e capitale sociale (disponibilità di relazioni) orientano l’agire sociale dell’individuo e le sue opportunità.

Il gusto invece è la componente soggettiva del consumo culturale, ovvero il frutto delle scelte e della crescita culturale dell’individuo che prendono le forme di strategie di distinzione sociale e si cristallizzano negli stili di vita (Bourdieu 1979). In questo meccanismo gli algoritmi si inseriscono interferendo con questo processo: infatti se l’equilibrio fra habitus – componente sociale del consumo culturale – e gusto – componente individuale – definisce le scelte fra i prodotti culturali, gli algoritmi appiattendo le differenze rendono le strategie di distinzione sociale basate sul capitale culturale praticamente inutili.

La ricerca di esperienze culturali autentiche per contrastare il “Filterworld”

Non c’è più alcuna differenza sociale fra chi consuma musica classica perché è vissuto in una famiglia di melomani e chi conosce Ludovico Einaudi perché è diventato un motivetto virale su Tiktok. Si potrebbe obiettare che entrambi comunque contribuiscono a diffondere la conoscenza culturale. Il problema è che se conosci Ludovico Einaudi perché in casa si ascoltava musica classica ti permette di avere un orizzonte e una consapevolezza culturale più ampia rispetto a chi ne è venuto a conoscenza tramite un video di Tiktok.

Questi effetti di Filterworld possono essere mitigati ricercando attivamente esperienze culturali autentiche e diversificate, sfidando i propri schemi di consumo e sviluppando un gusto più indipendente e personale. È fondamentale riconoscere e resistere l’influenza omogeneizzante degli algoritmi per preservare la diversità e la profondità della cultura.

La teoria del “Technopoly”: tecnologia come cultura dominante

Nonostante assente dai riferimenti del libro, il ragionamento di Kyle Chayka fa risuonare un’argomentazione celeberrima del rapporto fra tecnologia e cultura, ovvero la riflessione di Neil Postman. Secondo il grande studioso americano, gli strumenti tecnologici non sono integrati nella cultura, ma puntano a diventare essi stessi cultura (Postman 1992). Questa argomentazione – detta technopoly – fa si che ogni forma culturale sia sottomessa ad una forma di totalitarismo tecnocratico che pretende che qualsiasi aspetto della vita culturale sia sottomesso alle esigenze della tecnologia. Postman quando scrive queste pagine pensa prevalentemente alla televisione, ma il suo ragionamento non solo resta valido in quest’epoca di algoritmi e piattaforme, ma se si vuole diventa ancora più radicale.

Il capitalismo e la mercificazione della cultura nel contesto digitale

Se volessimo continuare il gioco dei riferimenti mancanti del volume di Chayka, i veri convitati di pietra sono Max Horkheimer e Theodor Adorno e la loro seminale riflessione su cultura e capitalismo. Secondo i teorici della Scuola di Fancoforte, l’applicazione delle regole della produzione industriale ai beni culturali ha fatto sì che la cultura perdesse la componente critica e innovativa e diventasse semplicemente una merce sottoposta alle logiche del capitalismo che la vogliono facilmente consumabile e di facile produzione. Questo meccanismo ha fatto nascere l’ideologia della cultura come puro intrattenimento il cui unico scopo è occupare il tempo libero dalla produzione capitalistica e annichilire la capacità di porre domande allo status quo contemporaneo (Horkheimer, Adorno 1947). Così come delineati nel libro, gli algoritmi radicalizzano questa situazione, poiché il loro obiettivo principe è quello di tenere incollati gli utenti dentro le piattaforme – attraverso l’intrattenimento – e catturare l’attenzione delle persone così da somministrare il giusto messaggio pubblicitario – attraverso il profiling.

Conclusioni

La prossima volta che sentiremo un pianista cimentarsi con Ludovico Einaudi in un non-luogo come la sala d’attesa di un aeroporto, oppure se sbirciando il cellulare di uno sconosciuto alla fermata del bus lo vedremo intrattenersi con un clip preso da La grande bellezza di Paolo Sorrentino, forse non saremo più così tranquilli che siano effettivamente consumatori di cultura, ma solo vittime di algoritmi di massificazione.

Bibliografia

Bourdieu, P. (1979), La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna, 2001

Hirsch, P. M. (1972), Processing fads and fashions: An organization-set analysis of cultural industry systems, “American Journal of Sociology”, 77, 639–659.

Hirsch, P. M. (2000), Cultural industries revisited, “Organization science”, 11(3), 356-361.

Horkheimer, M., Adorno, Th. W. (1947), Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1966.

Postman N. (1992), Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.

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