Come altre multinazionali, Facebook sembra agire in modo opportunistico a seconda della giurisdizione dove si trova ad operare, applicando standard diversi a situazioni simili.
Il caso delle elezioni in Kenia
E mentre non si sono spenti ancora gli echi delle elezioni keniane conclusesi ad agosto 2022, dove sono state sollevate critiche sulle modalità con le quali sono stati lasciati diffondere messaggi d’incitazione all’odio attraverso il social, un altro fronte si apre con diversi giudizi nei confronti della multinazionale.
In relazione alle elezioni keniane, in base a quanto sostenuto da Global Witness (una ONG che si occupa tra l’altro del rispetto dei diritti umani, con sedi a Washington e Londra), il colosso digitale avrebbe consentito la diffusione di ben 20 messaggi di propaganda elettorale che contenevano parole d’odio e incitamento alla violenza, tanto da portare l’organo di vigilanza (NCIC – National Cohesion and Integration Commission) a minacciare la sospensione del social (fonte OpenDemocracy 12 agosto 2023).
Minaccia poi non concretizzatasi grazie all’intervento del governo keniano che ha evitato che i social e più in generale internet fossero sospesi – come eppure è accaduto in passato in questa nazione – durante il periodo di campagna elettorale al fine di assicurare un più ampio dibattito democratico.
La NCIC ha comunque chiesto al colosso dei social di aumentare il numero dei moderatori in grado di valutare i contenuti, impiegando anche persone in grado di comprendere le varie lingue e dialetti nazionali. Tema questo delle lingue e dei dialetti che pone in Africa serie criticità, considerando che in molte nazioni vi sono numerose etnie con lingue e culture differenti (si pensi ad esempio all’Etiopia che ha circa 70 etnie e il Camerun che ne ha circa 230).
Come monitorare i contenuti social in modo efficace
Si pone quindi il tema di come potere monitorare i contenuti dei social in modo efficace per potere evitare e reprimere abusi. Il tema delle lingue e dei contenuti peraltro si pone peraltro anche per quanto concerne il training degli strumenti di intelligenza artificiale programmati e costruiti fondamentalmente sulla lingua inglese e apre ad altre importanti criticità.
I tre fronti giudiziari aperti in Kenya contro Meta
Tornando ai casi che stanno coinvolgendo in maniera più o meno diretta Facebook, vi sono tre fronti giudiziari aperti in Kenya.
Al momento risultano tre giudizi pendenti nei confronti di Meta, di cui due in comune con il global outsourcer SAMA (avente sede anch’esso in California).
Due dei giudizi si riferiscono a contestazioni di carattere retributivo e di cessazioni dei rapporti di lavoro, che a detta dei lavoratori keniani sarebbero riferite ai bassissimi salari ad essi riconosciuti e alla mancata assistenza di carattere psicologico a persone che sono costrette a vedere l’inenarrabile (stupri, violenze, suicidi e quanto di più orrendo l’animo umano possa perpetrare) al fine di evitarne la divulgazione sul social.
Sempre in base a quanto sostenuto dei lavoratori, al tentativo di elevare le proprie richieste salariali e di organizzarsi sindacalmente, essi sarebbero stati licenziati.
Ovviamente le accuse sono rigettate al mittente quanto al contenuto, ma anche nella forma. I lavoratori non sarebbero infatti stati licenziati, ma semplicemente i loro contratti non sarebbero stati rinnovati alla scadenza.
Un’ulteriore causa riguarda la sola Meta, che non avrebbe bloccato messaggi d’odio nei confronti di un etiope, originario della tormentata regione del Tigrai, in cui sarebbero stati fornite anche informazioni idonee a individuarne la posizione e che sono stati seguiti dall’uccisione del medesimo.
Come si difendono le multinazionali?
Senza considerare nel dettaglio le argomentazioni processuali, è utile riportare alcuni degli argomenti utilizzati dalla multinazionale per difendersi: argomenti spesso utilizzati anche dagli altri giganti tech e che dovrebbero invitarci a riflettere molto su quanto sta avvenendo nel mondo nell’ambito della tecnologia.
Ecco le argomentazioni generalmente utilizzate.
Salari infimi per non turbare il mercato del lavoro
I salari sarebbero tenuti bassi per non creare distorsioni nel mercato del lavoro, quindi in un’ottica di rispetto delle realtà locali: argomento questo che però non tiene ogni qualvolta la manodopera specializzata voglia essere distolta dai competitor locali, in tal caso infatti le multinazionali non si creano problemi a rilanci inarrivabili.
Difetto di giurisdizione
Le big tech sostengono di non avere sedi nelle giurisdizioni in cui i giudizi sono pendenti, sostenendo tra l’altro l’estraneità dei rapporti vista la presenza degli outsourcer.
Mancato rinnovo dei contratti scaduti e non licenziamenti
Come sopra descritto, sono utilizzati contratti di breve durata, che non vengono rinnovati. Non si tratterebbe quindi di licenziamenti ma di mancati rinnovi per diverse esigenze operative.
Quale che sia la bontà di tali argomentazioni, saranno le corti locali a deciderlo, perché il punto fermo è che nei giudizi pendenti le corti keniane hanno affermato la propria giurisdizione.
Ed è forse questa la vera novità: in un mondo globalizzato, i paesi che fanno parte del Non Occidente iniziano a pretendere di potere dire la propria a prescindere da dove si trovi il potente di turno.
Conclusioni
Mentre in Europa discutiamo dei controlli di filiera e molte speranze sono riposte nella Supply Chain Directive, il cui scopo però apparirebbe più focalizzato sui prodotti che sui servizi, il mondo prende coscienza sempre più degli aspetti negativi della globalizzazione, almeno per quanto concerne lo sfruttamento degli esseri umani.
L’allungamento delle filiere produttive, l’outsourcing nei più disparati luoghi della terra, una volta favoleggiato con la necessità di ridurre i crescenti costi del lavoro nei paesi occidentali, appaiono mostrare il proprio limite e la cruda verità: ci si spostava (e ci si sposta ancora) dove le legislazioni, anzi l’assenza di legislazioni, consentivano (e consentono) l’esclusione delle tutele o la loro riduzione in termini minimi. Una sorta di moderna schiavitù della cui crudezza la pubblica opinione si rende conto solo quando tragedia si verifica (fosse il collasso di un edificio adibito a produzione industriale, il crollo di una miniera e i tanti casi di avvelenamenti industriali, per i quali non occorre andare in Cina per osservarne gli effetti, almeno per noi italiani).
In aggiunta abbiamo scoperto in alcuni casi che la miopia della scelta delle nuove forme di sfruttamento, lontane dal giardino di casa nostra, ha comportato il travaso di tecnologia, di fatto depauperando il nostro know how in nome di un facile e rapido guadagno, salvo poi scoprire che il paese che ci accoglieva a braccia aperte, non è poi così tanto amico come pensavamo.
Non tutto però è negativo.
La globalizzazione ha portato infatti anche a una nuova coscienza universale, dove come si dice spesso le notizie volano in un momento in quel che chiamiamo il villaggio globale.
Ciò dovrebbe spingerci a nuove prese di coscienza e a promuovere più strette relazioni umane. In questo l’Unione Europea rappresenta un esempio virtuoso ma bisogna estendere gli ambiti di applicazione e gli strumenti di tutela eliminando i giochi di scatole cinesi che separano coloro che lucrano dalle responsabilità che ne conseguono nello sfruttamento delle risorse umane e naturali.
È necessaria una presa di coscienza che affronti il tema dei diritti umani a tutti i livelli, da quelli più meramente materiali a quelli più elevati come la tutela della privacy e allo sfruttamento delle potenzialità offerte dall’intelligenza artificiale per evitare di scoprirci presto vittime di quel sistema di cui – in parte – abbiamo noi stessi goduto.