“La globalizzazione è morta, lunga vita alla globalizzazione”. O se si preferisce: “morta una globalizzazione, se ne fa subito un’altra”.
Ma molto meglio ancora, per il capitalismo futurista che ci pervade, è non fermarla mai: la globalizzazione/guerra competitiva essendo vissuta come la nuova igiene del mondo, tutti vivendo di culto delle macchine, di feticismo per la velocità e per il prodotto tecnologico, tutti attivati in una azione incessante, tutti pronunciando parole in libertà e senza senso.
Da tempo – da prima del Covid-19 – molte voci si erano alzate a dichiarare morta la globalizzazione, tra guerre dei dazi, sovranismi politici, sanzioni economiche, scontro crescente tra Cina e Stati Uniti, arrivata poi anche alla guerra dei consolati (con la Russia che resta apparentemente a guardare e con un’Europa a encefalogramma piatto). Allo stesso tempo, la pandemia ci ha fatto capire che esiste pure una globalizzazione dei virus, che avevamo dimenticato, credendo che i virus fossero solo quelli che attaccano i nostri pc.
Ma prima ancora, nel 2019 era tornata sulla scena – dopo anni di oblio o di suo andamento carsico, tutti affascinati e catturati dalla realtà virtuale/neo-futurismo – la questione ambientale, aggravata dalla crisi climatica (i due processi vanno ovviamente insieme). Crisi ambientale sempre più grave e che ora dovrebbe portarci non a ripartire come prima della pandemia, ma molto diversamente da prima, perché la vera innovazione, oggi, non è puntare tutto su IA e Industria 4.0, ma sulla riconversione/trasformazione ecologica e sociale del sistema tecnico e capitalistico.
E ancora: “Per favore tassateci, tassateci, tassateci. È la scelta giusta, l’unica scelta. L’umanità è più importante dei nostri soldi”: è l’appello lanciato pochi giorni fa dai Millionaires for Humanity, un gruppo di 83 milionari, tra i quali Abigail Disney (l’erede di Walt) e il regista britannico Richard Curtis. Un appello che fa davvero riflettere su quanto la globalizzazione sia stata e sia ancora soprattutto una guerra civile dei ricchi contro il resto del mondo (il super-ricco Buffett l’aveva sintetizzava con: “la lotta di classe l’abbiamo vinta noi”).
Molti nemici (competitors), molto onore?
Questa (ultima) fase di una lunga globalizzazione non è dunque morta, ma vive incessantemente attorno e dentro di noi (ormai è una antropologia stabilizzata, una distopia realizzata): sta mutando nuovamente forma e modi di essere, vive conflitti e lotte per il riposizionamento sulla scena globale delle vecchie potenze e per il posizionamento delle nuove; ma non muta la sua norma di base, che è quella: 1) della crescente e incessante espansione e integrazione dei mercati in un mercato globale; e 2) della crescente espansione e integrazione tra sistemi tecnici nella mega-macchina o mega-fabbrica fatta oggi di rete/digitale/social. Mercato e tecnica sono infatti due sistemi che vivono del proprio incessante accrescimento (la globalizzazione economica-capitalistica e la globalizzazione della tecnica come sistema di macchine e di razionalità strumentale/calcolante-industriale) e della loro crescente integrazione, secondo una propria essenza basata sulla convergenza, ovvero per il capitalismo non possono esistere mercati isolati così come, per la tecnica non possono più esistere macchine singole (come ieri), ma tutto deve convergere, integrarsi, sussumersi oggi in una fabbrica/mercato appunto globale.
La guerra dei dazi e le guerre tecnologiche e lo scontro Usa-Cina non mutano quindi l’essenza del capitalismo e della tecnica – e della globalizzazione. E quindi, possiamo dire che oggi viviamo – andando forse verso il post-Covid – una nuova fase di quella guerra civile e ambientale dentro la globalizzazione economica e tecnica. La guerra, intesa come concorrenza è infatti nel suo Dna, è nella sua irrazionale “distruzione” (molta) “creatrice” (sempre meno in termini di ben-essere e di ben-vivere e di responsabilità sociale e ambientale).
Una storia vecchia, sempre nuova
Come non ricordare ancora una volta Marx ed Engels, che nel 1848 scrivevano: “La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. (…) Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. (…) Al posto dei vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani”. E basta sostituire tecnica e capitalismo a borghesia, per descrivere la realtà anche di oggi. E già Marcuse aveva scritto (1965): “In un simile sistema, gli individui devono spendere le loro vite nella lotta competitiva per l’esistenza, per soddisfare il bisogno di sempre maggiori prodotti del lavoro, e i prodotti del lavoro devono aumentare, perché bisogna venderli con profitto e il profitto dipende dalla crescente produttività del lavoro…”.
Vediamo allora alcune battaglie che si combattono in nome di quella guerra chiamata globalizzazione/competizione/concorrenza tecnica e capitalistica. Una guerra che da Bretton Woods (1944) – con le sue premesse nel New Deal di Roosevelt e nel pensiero di Keynes – era stata almeno regolata e controllata in nome della cooperazione globale (il vecchio Fondo monetario, la vecchia Banca Mondiale, i Round del Gatt predecessore del neoliberista Wto, la Cee/Mec, il welfare state), per poi essere travolta da liberismo e nuove tecnologie che ci hanno riportato indietro nel tempo – pur chiamandola innovazione e nuovo che avanza e che non si deve fermare – e alla guerra di tutti contro tutti. Dove la regola da apprendere e poi da applicare, vivendola in ogni momento della vita è: “It’s still day one”, secondo Jeff Bezos, cioè è sempre il primo giorno, mantra necessario a mantenere uno spirito da start-up incessante e crescente e auto-mobilitante in termini appunto di competizione (e non di cooperazione) di ciascuno con tutti gli altri, visti non come persone ma come competitors; perché, come ricordava sempre Bezos nella lettera agli azionisti dell’aprile 2017, “il secondo giorno è già la stasi, la lentezza, il declino, la morte dell’impresa e di sé nell’impresa, mentre vivere e lavorare come se fosse sempre il primo giorno è sperimentazione, innovazione, energia, velocità, dinamismo, vitalità”.
Che possiamo leggere appunto come una dichiarazione di guerra del mondo dell’impresa capitalistica ai mondi esistenziali dell’uomo, all’ambiente, alla società; ma anche come forma aggiornata di ciò che descrivevano appunto Marx ed Engels, a ulteriore dimostrazione che non siamo nella quarta rivoluzione industriale, ma nella rivoluzione industriale sempre diversa ma sempre uguale nella sua essenza.
La guerra, che passione!
Prima battaglia: la Commissione europea ha varato urgentemente urgentemente (prima del Recovery Fund) un piano contro i Paesi membri che adottano politiche fiscali aggressive – cioè sono di fatto paradisi fiscali come la frugale (sic!) Olanda (per la quale ogni euro versato all’Ue si traduce in un guadagno di 11 euro), o la verde Irlanda – nello stesso giorno in cui dal Tribunale dell’Unione europea arrivava una sentenza (che definire oscena è poco), che annullava la decisione delle Commissione Ue sui “tax ruling” irlandesi a favore di Apple e la multa da 13 miliardi di euro. Oscena perché i concetti di giustizia distributiva e di stato di diritto finiscono un’altra volta tra i morti del campo di battaglia della competizione fiscale – sempre ricordando che la stessa Europa aveva avuto perfino come suo Presidente quel Juncker per molti anni a capo di un piccolo ma potente paradiso fiscale – il Lussemburgo – che ha stretto accordi fiscali privilegiati (appunto i “tax rulings”) garantendo a 340 multinazionali, da Amazon ad Abbott, da Deutsche Bank a Pepsi Cola, di pagare meno dell’uno per cento di tasse.
Seconda battaglia: qualche giorno prima della sentenza, Huawei è stata bandita anche dal Regno Unito; e non solo non potrà partecipare alla realizzazione della rete 5G britannica, ma tutte le apparecchiature dell’azienda cinese dovranno essere rimosse dalle infrastrutture di telecomunicazioni del Paese. Ma la questione è anche e soprattutto tra Stati Uniti e Cina. Conferma Guido Santevecchi, sul “Corriere della sera”: “Huawei è diventato il simbolo dell’avanzata [cinese nel mondo]. Una corsa alla supremazia tecnologica che gli Stati Uniti hanno deciso di contrastare, dopo che Xi aveva lanciato il piano di egemonia Made in China 2020 per fare ciao ciao all’America. Intorno a Huawei c’è una spirale ideologica che sta spingendo Usa-Cina e il mondo in una Nuova Guerra fredda. Xi Jinping ha aperto troppi fronti: Hong Kong, il Mar cinese meridionale, Taiwan, il confine himalayano con India e Bhutan, i diritti umani e civili sistematicamente soppressi, anche il Covid-19”. Ma l’Occidente e soprattutto gli Usa, hanno la fedina penale pulita? Evidentemente no, visto che l’opposizione alla Cina è solo un modo per (cercare di) riaffermare l’egemonia (soprattutto tecnologica) dell’America, fatta di guerre vere ma folli e destabilizzanti (come quelle del Golfo), di guerre commerciali (si rilegga l’ormai purtroppo introvabile saggio di Victoria De Grazia, “L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo”, 2006), di guerre per la produzione degli immaginari collettivi globali, di violazioni dei diritti umani (non solo le torture in Iraq o il razzismo delle sue polizie), di sostegno alle peggiori dittature del mondo, eccetera.
Ha dichiarato nei giorni scorsi il Dipartimento di Stato americano, con la voce di Mike Pompeo: “Il mondo non consentirà a Pechino di trattare il Mar cinese meridionale come il suo impero marittimo” – dimenticando che da due secoli (la Dottrina Monroe è del 1823), gli Usa trattano l’America latina come loro cortile di casa, facendo il bello e soprattutto il cattivo tempo, tra golpe riusciti, invasioni, Piani Condor e sfruttamento delle risorse naturali.
Ma tra Cina e Stati Uniti il rapporto è di conflitto freddo, ma anche di interessi caldissimi, evidenziati da un interscambio commerciale annuale di 750 miliardi di dollari; dal fatto che Pechino detiene oltre mille miliardi di dollari di buoni del Tesoro Usa; e che l’industria statunitense ha investito circa tremila miliardi di dollari in Cina e non vuole perderli.
Molte battaglie, una sola guerra
Sono due battaglie recenti – quelle citate sopra – che sono però pezzi tra loro connessi/integrati della guerra chiamata globalizzazione dei mercati e dei capitali e delle tecnologie e dichiarata contro un lavoro dignitoso inteso come diritto dell’uomo; dove alla unificazione/integrazione dei mercati e dell’apparato tecnico (capitalismo e tecnologia si sostengono a vicenda), corrisponde (non è un paradosso, ma è perfettamente funzionale al funzionamento della stessa globalizzazione basata sulla competizione), l’esplosione delle guerre e dei sovranismi economici, che appunto non smentiscono né rinnegano la globalizzazione, ma sono una nuova tappa della stessa plurisecolare globalizzazione tecno-capitalista e che oggi si chiama colonizzazione tecnologica della vita umana e sociale (cioè il Big Data, cioè il capitalismo della sorveglianza secondo Shoshana Zuboff), da parte di un capitalismo estrattivo di valore e profitto non più solo dalle merci e dalle sole risorse naturali, ma appunto dalla vita intera, naturale e psichica, dell’uomo – e che ieri si chiamava conquista e colonizzazione e sfruttamento di territori nel mondo.
Dobbiamo meravigliarci? Se un teorico della guerra come von Clausewitz (1780-1831) scriveva che “la politica è la continuazione della guerra militare con altri mezzi e in altre forme”, così possiamo dire che fiscalità e tecnologie (e il loro controllo, finalizzato al nostro controllo e alla nostra sorveglianza e alla estrazione di profitto privato appunto dalla nostra vita, vita che è insieme “forza lavoro” e “mezzo di produzione”) sono (ma non da oggi) la continuazione della guerra militare e del colonialismo con altri mezzi e forme – perché “La guerra è un atto di forza per ridurre l’avversario al nostro volere.”
Ma molte altre sono le battaglie si stanno combattendo in quella forma di guerra che si chiama concorrenza capitalistica o globalizzazione tecnologica e finanziaria: oltre a Trump e ai dazi e contro la Cina accusata di non rispettare i diritti umani e politici (tacendo però sulla dittatura in quel membro della Nato che si chiama Turchia), abbiamo (l’elenco completo sarebbe molto più lungo) l’Europa contro i migranti; Amazon monopolistica e disruptiva del commercio di prossimità; Facebook e simili in guerra contro la privacy e i diritti di libertà individuale; il Gafam (ma non solo) come macchina sistemica di evasione e di elusione fiscale e di incessante concorrenza sleale; e su tutto, appunto la guerra di tutti contro l’ambiente, contro le future generazioni e contro la giustizia sociale e di cui ciascuno di noi – con i suoi irrazionali e insostenibili comportamenti di consumo e di competizione indotti dal sistema via pubblicità/propaganda ed economia comportamentale – è soldato al fronte nell’unica guerra rimasta dove si mobilitano ancora le masse umane, mentre le altre sono ormai combattute da mercenari e da tecnologie intelligenti – sic!). E accanto a queste, quella che Papa Francesco aveva chiamato già nel 2014 la Terza guerra mondiale: “che si combatte a pezzetti, a capitoli”, denunciando l’efferatezza delle guerre non convenzionali dove è stato raggiunto “un livello di crudeltà spaventosa” di cui spesso sono vittime civili inermi, donne e bambini, con la “tortura che è diventata un mezzo quasi ordinario”.
Una nuova Bretton Woods?
Nessuna fine della globalizzazione, dunque. Quello che è certo è che da appunto trent’anni e più il globo vive in uno stato di perenne instabilità e di disordine, di competizione e non di collaborazione/solidarietà. Purtroppo, a questo sistema e “al suo nichilismo e alla sua incessante destabilizzazione antropologica, ci siamo ormai assuefatti”, così come “al terribile veleno del suo dionisiaco furore”, che poi “la potenza pervasiva della tecnologia tende a globalizzare” – scriveva il filosofo Aldo Masullo (“Stati di nichilismo”, 2016).
Servirebbe invece una nuova Bretton Woods o qualcosa di simile a un trattato di pace. Per uscire dalla Terza guerra mondiale denunciata da Papa Francesco, fatta di fisicità dei corpi uccisi nelle guerre vere; dalla guerra contro l’ambiente e le future generazioni; e da quella fatta di annichilimento della soggettività umana e di sua crescente sussunzione e alienazione nel tecno-capitalismo – che è la sublimazione del peggiore capitalismo mai apparso sulla terra.