Una recente sentenza del Corte federale australiana ha ritenuto Google responsabile per non aver rimosso dei video diffamatori e contenenti incitamento all’odio caricati su YouTube, dopo la richiesta esplicita dell’interessato.
Un tema rilevante alla luce anche delle nuove regole europee (Digital Markets Act) che vanno verso una maggiore responsabilità delle big tech per i propri contenuti.
La sentenza diffamazione di Google e il caso
L’articolazione australiana di Google è stata condannata a pagare un risarcimento per l’equivalente di circa mezzo milione di dollari al John Barilaro, politico australiano di origini italiane.
Barilaro aveva chiesto la rimozione di alcuni video caricati su YouTube in cui si accusava senza prove Barilaro di essere corrotto e apostrofandolo variamente per l’origine italiana.
Barilaro, peraltro, ha ricevuto anche messaggi aggressivi sui social e di persona.
Per questo, dopo aver richiesto la rimozione dei video, senza ottenere risposta ha citato in giudizio Google, società che dal 2006 controlla la piattaforma YouTube.
Diffamazione, in Tribunale per ottenere de-indicizzazione e danni da Google
La Corte federale australiana ha ritenuto che Google fosse responsabile dei danni patiti da Barilaro a fronte di svariati argomenti.
- In primo luogo, non ha fatto nulla per limitare la diffusione dei video, visualizzati da centinaia di migliaia di utenti, con le conseguenti entrate pubblicitarie.
- In secondo luogo, la Corte ha verificato che nonostante i video violassero le policies contro l’incitamento all’odio, Google non si è adoperata in alcun modo per limitare la diffusione dei contenuti, anche esplicitamente razzisti.
- Da ultimo, ha pesato un orientamento giurisprudenziale australiano – scaturito in una proposta di legge non ancora approvata dal parlamento australiano – per cui i social media sono responsabili dei commenti degli utenti ai contenuti dei materiali postati.
Barilaro, per parte sua, ha salutato la sentenza con soddisfazione, quasi si fosse trattato di Davide contro Golia, mentre Google non ha commentato e, pare, “quasi” non si sia difesa in giudizio.
E’ un precedente?
La risposta corretta a questa domanda è, ovviamente, “dipende”.
Di certo lo è in Australia, dove le autorità hanno una politica molto restrittiva nei confronti dei social media in generale.
L’idea che le piattaforme siano responsabili per i commenti degli utenti ai post non è un’idea nuova, ma non ha trovato accoglimento nelle giurisprudenze USA ed europee, salvo ipotesi residuali.
David Rolph, esperto di diritto dei media presso l’Università di Sydney, ha dichiarato che il caso Barilaro è la prima volta che in Australia YouTube, in quanto piattaforma, viene ritenuto responsabile dei contenuti di un utente.
Ma ciò che accadrà in seguito è incerto perché i tribunali australiani non hanno necessariamente la giurisdizione per eseguire sentenze contro società con sede negli Stati Uniti.
“Sicuramente negli Stati Uniti, dove hanno sede queste società, le leggi sulla diffamazione sono diverse”, ha dichiarato Rolph al Guardian Australia.
Vero è che dopo alcuni contenziosi, certamente dannosi dal punto di vista pubblicitario, sono state adottate policies sempre più stringenti per i contenuti di incitamento all’odio, razzismo etc.
Alcuni commentatori hanno affermato che la sentenza della Corte federale australiana non sembra destinata ad essere un precedente negli USA, specie perché relativa ad un politico: negli Usa, il diritto di critica verso i politici è molto esteso.
In Italia, è verosimile invece che una responsabilità del provider potrebbe essere ravvisata, ma solo perché i video violavano proprio le policies contro la divulgazione di contenuti d’odio ed in ragione del contenuto razzista di alcune parti dei video.
Responsabilità civile e non penale: nel 2021 il Tribunale di Milano ha escluso la responsabilità penale dei dirigenti italiano di YouTube per il suicidio di un ragazzo quattordicenne avvenuto in seguito alla visione di materiali che mostravano la blackout challenge nel 2018.
Conclusioni
Sentenza interessante, non un precedente destinato a diventare una pietra miliare.
Piuttosto uno dei tanti tasselli che, stratificandosi, portano giudici, parlamenti e piattaforme a valutare e rivalutare le “regole d’ingaggio” nei social network.
La violazione delle policies interne da parte del provider, comunque, è sintomo di fatto da cui può astrattamente derivare una responsabilità risarcitoria, dato che le stesse policies hanno maglie piuttosto larghe o, in alcuni casi, troppo strette, perché l’algoritmo non è perfettamente settato o perché l’AI non ha ancora appreso perfettamente come e quando operare in autonomia.
Interessante la “via australiana” che vorrebbe i provider sempre responsabili per i comenti degli utenti ai post (oltre che per i post stessi): evidentemente nel Continente australe non temono ripercussioni sull’economia online, preferendo una tutela più forte della reputazione e dell’immagine personale dell’utente ad una maggior flessibilità di mercato.