A più di 30 anni dal crollo del muro di Berlino, che ha segnato la fine del mondo diviso a blocchi e una fase nuova della globalizzazione economica e finanziaria, stiamo vivendo un succedersi di shock attraverso cui la cosiddetta “geopolitica” viene ridisegnata: non tanto in termini di confini geografici tra gli Stati (anche se le recenti iniziative aggressive di Putin in Georgia, Crimea e Donbass stanno turbando vecchi e nuovi equilibri nello scacchiere dell’Europa orientale), quanto di distribuzione dei poteri politici, economici, tecnologici e militari fra le grandi aree del mondo.
L’interdipendenza fra democrazie e autocrazie
Come ha ricordato The Economist del 19-25 marzo usando cifre del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, oggi le “autocrazie” nel loro insieme pesano il 31% sul Pil mondiale, una quota più che raddoppiata dalla fine della guerra fredda. Le medesime autocrazie pesano assai di più (70%) sulla popolazione mondiale e al loro interno due terzi risiedono nelle “autocrazie elettive” (come India, Turchia, Egitto) e un terzo nelle “autocrazie chiuse” (come Cina e Vietnam”). L’interdipendenza fra democrazie e autocrazie ha continuato a crescere nel tempo.
Un terzo delle importazioni delle democrazie dall’esterno dei propri confini proviene dalle autocrazie. Un terzo degli investimenti esteri diretti mondiali origina dalle democrazie e nel 2018-20 le autocrazie ne hanno assorbito più della metà. Il peso delle autocrazie sul valore di borsa delle imprese quotate nel mondo è cresciuto dal 3% nel 1989 all’attuale 30%. La quota delle autocrazie sulla domanda mondiale di brevetti è salita dal 5% al 60%, dominata dalla Cina. La crescita esplosiva del reddito della Cina stimolata dalle riforme di Deng Xiaoping è stata rafforzata dal suo ingresso nella WTO nel 2001, che ha contribuito a rafforzare la partecipazione di larga parte delle economie dell’Asia orientale allo sviluppo globale di esportazioni e importazioni multilaterali.
Gli effetti dell’affermarsi delle catene globali del valore
Diversi shock recenti – dal disastro nucleare di Fukushima del 2011 alle sanzioni commerciali imposte da Trump e relative ritorsioni, dalla pandemia alla guerra in Ucraina – hanno seriamente turbato l’assetto della produzione e degli scambi commerciali mondiali, che ha visto nei precedenti decenni crescere le cosiddette “catene globali del valore”, riflesso della riallocazione delle produzioni manifatturiere verso paesi emergenti a basso costo di manodopera e materie prime e conseguente moltiplicarsi dei traffici da/verso paesi maggiormente sviluppati.
L’affermarsi delle catene globali del valore ha rappresentato una delle principali spiegazioni del “moltiplicatore del commercio estero”, per cui fino agli anni 2000 la crescita del Pil mondiale è stata accompagnata da una crescita circa doppia degli scambi mondiali. In conseguenza degli shock e del rallentamento nella crescita del Pil mondiale, particolarmente segnato dalla crisi finanziaria originata dal mercato immobiliare americano del 2007-08 (crisi dei mutui “subprime”) e dal crollo dalla banca Lehman, si è assistito al progressivo accorciarsi delle medesime catene con (limitati) fenomeni di “reshoring” di produzioni precedentemente decentrate all’estero. Il rapporto fra i due tassi di crescita (scambi commerciali e Pil) si è così riavvicinato a 1:1. Il tasso di crescita degli scambi commerciali mondiali si è più che dimezzato dal 7,5% registrato fino al 2009 al 3,5% nel successivo decennio.
Verso una globalizzazione “selettiva”?
A un generale ripensamento circa le virtù delle catene globali del valore stanno certamente sospingendo i ricordati shock geo-politici che hanno accresciuto l’incertezza sul quadro politico internazionale e provocato parziali paralisi e intasamenti nel traffico marittimo delle merci (emblematiche le cronache dai più importanti porti di smistamento delle grandi navi container cinesi, asiatici e americani). È fiorita una letteratura manageriale sul passaggio dalle consolidate tecniche del “just-in-time” (che tendono a minimizzare le scorte di magazzino a parità di vendite finali) a un approccio ancora più flessibile del “just-in-case”.
Carlos Tavares, CEO della italo-franco-olandese-americana Stellantis nata dalla fusione fra PSA e FCA, prevede che il mercato dei chip (semiconduttori) diventerà nel tempo meno globale e più locale. Si tratta di un mercato da 640 miliardi di dollari nel 2022 che viaggia verso 1000 miliardi nel 2030, e tocca diversi paesi, fra cui si suddividono più di 500 operazioni richieste per lavorare i diversi strati in silicio del cosiddetto “wafer”. Gianmarco Ottaviano su LaVoce.info del 22 marzo ha suggerito il termine di “globalizzazione selettiva” che deriverà da una riconfigurazione degli scambi globali secondo gruppi integrati di paesi affini, in competizione anche al proprio interno.
A un accorciamento meditato delle catene internazionali di fornitura stanno sospingendo le strategie di riduzione dell’incertezza. Vengono rivisti criticamente i vantaggi della ricerca del fornitore al minor costo assoluto sul mercato globale, confrontati con i rischi di inaffidabilità delle consegne e con i maggiori costi di trasporto e logistica. Molti settori sono colpiti dai citati ritardi di consegna che bloccano le catene di fornitura. In alcuni settori si rivaluta l’importanza dei vantaggi di prossimità geografica del fornitore, quando l’evoluzione tecnologica e l’ampliamento della gamma offerta di prodotto impongono una sistematica “customizzazione” del prodotto finale per adattarsi a precise esigenze del cliente: come avviene in produzioni estremamente differenziate e tecnologicamente sofisticate nell’alta moda ma sempre più spesso in settori come meccanica fine, elettronica, chimica e farmaceutica.
L’Europa e la ricerca di una maggiore “autonomia strategica”
Un recente rapporto della Commissione europea (“Strategic dependencies and capacities”, 5 maggio 2021) identifica 137 su 5000 gruppi di prodotti importati (come diversi semiconduttori, alcuni principi attivi farmaceutici, diverse terre rare) in cui l’Europa ha un singolo fornitore dominante e ritiene difficile trovare un fornitore alternativo. Quasi il 60% di questi prodotti sono beni intermedi, materiali e componenti.
La crescente specializzazione delle produzioni, in nome delle economie di scala e di una capillare divisione internazionale del lavoro, ha cominciato a sollevare l’attenzione dei governi sui rischi di dipendenza dell’economia nazionale dall’importazione proveniente da paesi geograficamente, storicamente e politicamente lontani. Si affaccia, anche in Europa, la ricerca di una maggiore “autonomia strategica”, intesa come rimozione dei rischi di freni e ostacoli alla produzione ed esportazione nazionale attribuibili alla mancata autosufficienza del paese. Si alimentano sentimenti popolari (populisti?) di paura o almeno diffidenza fino a mettere in dubbio la sicurezza nazionale. All’argomento della sicurezza nazionale fanno tradizionale ricorso proposte di introduzione di dazi e altre barriere commerciali, come si è visto sotto il governo Trump.
In conclusione, parafrasando Mark Twain, la de-globalizzazione o addirittura la fine della globalizzazione con il rientro delle catene globali del valore sono notizie largamente esagerate. Ma mai come oggi i governi sono chiamati a “governare la globalizzazione” nell’interesse nazionale in un mondo dinamico, aperto e inevitabilmente interdipendente.