Il fenomeno delle “Grandi Dimissioni” non risparmia le imprese italiane: sempre più lavoratori nei settori privati decidono di dimettersi e molti di più sono i cosiddetti “intenders”, coloro che, pur non avendo dato le dimissioni hanno intenzione a breve di farlo: da una ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano emerge che il 47% dei lavoratori privati dichiara di aver cambiato lavoro nell’ultimo anno o di avere intenzione a farlo da qui a 18 mesi. Sono numeri impressionanti, proprio perché si verificano nel nostro Paese, nonostante l’alto tasso di disoccupazione, nonostante la rigidità del mercato del lavoro, nonostante il mismatch di competenze e professionalità che rende fragile l’impiegabilità di gran parte dei lavoratori e nonostante la scarsa propensione alla mobilità degli Italiani.
Ma se questa è la situazione nelle aziende private, cosa succede nel settore pubblico? La Pubblica Amministrazione italiana è immune da questa sindrome che sta occupando e preoccupando i datori di lavoro in tutto il mondo?
Circolare smart working 2022 per la PA: cosa sbaglia Brunetta
Il fenomeno delle grandi dimissioni intacca anche la logica del “posto fisso”
Ebbene la stessa ricerca del Politecnico di Milano mette in luce che quel fenomeno di disagio che sta alla radice delle grandi dimissioni nella Pubblica Amministrazione italiana è non solo presente, ma per certi versi persino più preoccupante. Innanzitutto, anche nel settore pubblico gli “intenders” non mancano: i lavoratori pubblici che si dichiarano intenzionati a cambiare lavoro sono ben il 29%, meno che nel privato, ma davvero tanti per un comparto considerato a torto o ragione dominato dalla logica del “posto fisso”.
Un disagio profondo quello dei lavoratori del settore pubblico che se per mancanza di opportunità nella stragrande maggioranza dei casi non riesce a tradursi in effettive dimissioni, non per questo è meno profondo. A dare le dimissioni nel mondo pubblico sono solo coloro che hanno in mano valide alternative, o che stanno talmente male da non poterne proprio più. Molti di più sono coloro che vorrebbero cambiare lavoro ma che, proprio per le su citate rigidità, restano, ma senza entusiasmo né motivazione. Sono persone che per necessità “vanno al lavoro”, un lavoro che sentono però non rappresentarli più.
Quanto è trascurato il malessere dei lavoratori pubblici
Certo non è raro che i lavoratori siano insoddisfatti del proprio lavoro, particolarmente nel nostro Paese: secondo Gallup i lavoratori soddisfatti del proprio lavoro che in Europa sono mediamente il 10%, in Italia sono solo il 5%. E non è affatto strano che in una situazione in cui pandemia, guerra, tensioni economiche e geopolitiche sono cause di ansia e incertezza, l’insoddisfazione possa tramutarsi in un vero e proprio malessere.
Anche su questo fronte la ricerca del Politecnico di Milano fornisce evidenze che consentono di vedere quanto il fenomeno sia rilevante nel settore pubblico: in generale soltanto il 10% dei lavoratori italiani dichiara di “stare bene” in termini di benessere fisico, sociale e psicologico. Se poi si prendono in considerazione i soli dipendenti pubblici, questa già piccola percentuale cala ed arriva solo al 4%! L’aspetto più critico è quello psicologico, dove ben l’89% dei lavoratori pubblici denuncia di trovarsi in uno stato di “malessere psicologico”.
La maggior parte dei decisori pubblici sembra faticare a comprendere questo fenomeno e la sua urgenza. Di lavoro pubblico non si parla, al più ci si illude che sia semplicemente una questione di soldi, che basti assumere nuove persone, procedere al ricambio generazionale introducendo profili con competenze avanzate da contendere al settore privato. Quanto questa visione sia limitata e illusoria lo dimostrano gli esiti non certo lusinghieri dei bandi di reclutamento per alte professionalità promossi dal Ministero della Pubblica Amministrazione anche al sud.
Dobbiamo innanzitutto interrogarci sui numeri sopra citati e comprendere cosa stia davvero accadendo: si tratta solo di un fenomeno passeggero ed è un caso che si manifesti proprio in concomitanza con l’uscita dalla emergenza sanitaria?
Alle radici del problema
La risposta è ovviamente no: il crollo del livello di benessere ed engagement dei lavoratori è lo specchio di un fenomeno che, se non innescato, è stato certamente accelerato dalla pandemia. Con la pandemia è come se le persone fossero state catapultate fuori dalla propria area di confort: il lavoro era vissuto da molti dipendenti pubblici come una pantofola logora a cui ci si era però abituati. La routine, i rapporti gerarchici, i luoghi stessi di lavoro, sclerotizzavano routine che fungevano come una sorta di anestetico alla fatica e all’insoddisfazione. L’abitudine e l’illusione di sicurezza del “posto pubblico” creavano come un muro davanti ai loro occhi. Per molti lavoratori questo muro si è sgretolato: l’ansia per la salute propria e delle proprie famiglie, l’incertezza legata alla instabilità politica ed economica hanno dimostrato quanto fragile e illusorio fosse quel muro di pretese certezze. È indubbio che alla base di questo stato malessere psicologico ci siano anche fattori contingenti: la pandemia in particolare ha sicuramente generato importanti disagi e acuito problematiche pregresse riguardanti numerosi aspetti della vita delle persone, incluso il lavoro. Ma nel settore pubblico tra le cause di malessere vanno anche annoverate una carente organizzazione del lavoro, strumenti inadeguati, formazione insufficiente, assenza di flessibilità e spazio per l’innovazione e l’imprenditorialità personale, e poi la sensazione di non vedere riconosciuti e valorizzati i propri talenti e il proprio impegno, la propria professionalità. Il pubblico impiego nel nostro Paese è spesso etichettato come fonte di inefficienza, corruzione, ricettacolo di fannulloni e opportunisti. Dopo la pandemia in particolare, dopo avere lavorato con impegno e dedizione, garantendo responsabilmente al Paese una continuità di servizi, spesso in condizioni difficilissime e nonostante endemiche carenze di risorse, i lavoratori pubblici si sono sentiti denigrati, etichettati come privilegiati e fannulloni, anche da coloro che avrebbero dovuto rappresentarli, difenderli, impegnarsi per una loro crescita economica e sociale.
La gestione dello Smart Working da parte dell’ultimo governo è stata tra le principali fonti di malessere. Spinti a lavorare da remoto, molti lavoratori durante la pandemia hanno sperimentato un nuovo modo di lavorare che ha aperto loro gli occhi. Hanno scoperto che molte delle routine a cui da sempre si sottoponevano, convinti che fossero l’unico modo di “essere al lavoro”, non avevano in realtà senso. Hanno scoperto che le code nel traffico, le lunghe riunioni in presenza, le estenuanti trasferte, gli orari cadenzati, gli uffici rumorosi, le liturgie del controllo e della burocrazia, sono spesso convenzioni o strumenti di mantenimento di privilegi, ma non generano davvero valore.
Lo smart working come speranza (cancellata) di un futuro migliore
Hanno scoperto che un modo diverso e più intelligente e sostenibile di fare le cose c’è, ed è spesso sorprendentemente efficace non solo per sé stessi, ma anche per l’amministrazione e il cittadino. Durante la pandemia, di fronte a vincoli ed emergenze, in tantissimi si sono impegnati, hanno saputo dimostrare di essere responsabili, capaci di autonomia e problem solving. E in un primo momento, proprio a fronte dei risultati ottenuti, della disponibilità e resilienza dimostrata si sono sentiti assicurare che quella sarebbe diventata la modalità ordinaria di lavorare della PA. In molti si era accesa una speranza, la speranza di un futuro lavorativo migliore, più sostenibile e dignitoso, una speranza che si è poi rilevata essere in larga parte un’illusione: il nuovo ministro ha ben presto inteso marcare un cambio di direzione e, volendo rappresentare posizioni anti-stataliste molto presenti nel Paese, limitare e imbrigliare lo Smart Working per le Pubbliche Amministrazioni, negandone i benefici e giungendo a liquidarlo come una “vacanza mascherata”.
E così, in controtendenza con quanto nel frattempo avveniva nel privato, nel pubblico impiego si è giunti ad affermare per decreto che solo il lavoro “in presenza” è la modalità ordinaria di svolgere le prestazioni, lo Smart Working è solo un’eccezione, e non è uno strumento di miglioramento delle prestazioni, ma semmai il “premio” per poche amministrazioni avanzate. In pochi mesi ad oltre la metà dei circa 1,8 milioni di lavoratori pubblici ai quali durante la pandemia era stato consentito, anzi richiesto, di lavorare da remoto, si è imposto di tornare in ufficio a lavorare “come prima”.
Ma tornare davvero al passato era impossibile: sebbene, imperfetta e forzata, anche quella forma temporanea di Smart Working aveva portato le persone a pensare, a chiedersi “perché”. C’è un modo più intelligente di svolgere le mie attività? C’è un luogo o un orario più appropriato che mi consente di generare più valore e vivere meglio? E quando poi si sono viste negate o limitate la flessibilità ed il riconoscimento professionale legato allo Smart Working le persone hanno cominciato a farsi ancora più domande, non fermandosi più ai soli aspetti, tutto sommato superficiali, del “dove” e del “quando” sia più efficace lavorare, ma cominciando ad interrogarsi anche sul “cosa” e sul “perché”.
Il disagio dei lavoratori come punto di svolta verso un nuovo lavoro pubblico
Anche nel pubblico tanti lavoratori hanno cominciato allora a chiedersi se il loro lavoro gli piace, se il loro capo li fa crescere, se la società e l’amministrazione per cui lavorano riconoscono e meritano il loro impegno. Ed ancora più nel profondo molti hanno iniziato a chiedersi se il lavoro debba per forza essere “fatica”, “travaglio”, come l’etimologia di molti termini delle lingue latine e dialettali suggerisce, se debba essere un male necessario da limitare al massimo per vivere la vera vita che è fuori, o non possa essere esso stesso “vita”, “opera”, uno dei modi fondamentali per dare un senso alla nostra vita, per avere impatto, lasciare traccia.
Comunque si valuti ciò che è avvenuto, i possibili errori di comunicazione durante e dopo la pandemia, l’errore peggiore sarebbe oggi ignorarlo, fare finta che questi due anni siano stati solo una parentesi, un “sogno”, bello o brutto, ma comunque “altro” dalla normalità. Se compreso e gestito in profondità il disagio che è alla radice di questa crisi può essere un punto di svolta, l’occasione per progettare modelli organizzativi, sistemi di welfare e retribuzione, che non siano puro anestetico al lavoro o tentativi di separare dalla vita la spiacevole parentesi del lavoro. Per fare questo occorre innanzitutto ascoltare, capire cosa chiedono davvero i lavoratori, sia quelli che danno le dimissioni, che quelli che, per scelta o necessità, decidono di restare. Se andiamo nel profondo scopriamo che la domanda fondamentale che muove i lavoratori, nel mondo pubblico come in quello privato, è una ricerca di senso, di benessere e realizzazione come persone a 360°. Coloro che vogliono dare le dimissioni in molti casi non desiderano lasciare solo un’organizzazione, un contratto, ma un sistema di relazioni non appaganti, un lavoro che non li soddisfa, una vita in cui si sentono imprigionati e che non offre loro prospettive.
Non ascoltare e comprendere questa crisi e non saperla interpretare con lungimiranza nel mondo della Pubblica Amministrazione vuol dire inevitabilmente far perdere competitività al Paese a scapito di tutti i cittadini di oggi e della prossima generazione. È una sfida che riguarda tutti. Riguarda certamente le Pubbliche Amministrazioni, che con la caduta del benessere e dell’engagement dei lavoratori rischiano di compromettere la qualità dei propri servizi e la propria attrattività. La pretesa sicurezza e solidità dei contratti pubblici rischia di rivelarsi una posizione effimera. Per competere sul mercato dei talenti le amministrazioni dovranno progettare modelli organizzativi capaci di venire incontro alle istanze delle persone, rivedere gli spazi, ripensare stili di leadership e strumenti di comunicazione, investire sullo sviluppo professionale e sul benessere dei lavoratori. Insomma, per vincere questa sfida le amministrazioni dovranno dimostrare di sapersi prendere cura delle persone e di meritare la loro fiducia e il loro impegno.
Conclusioni
La sfida riguarda anche i lavoratori pubblici. Occorre passare dal momento della consapevolezza e della voglia di evasione, alla concreta costruzione di un nuovo equilibrio di vita. Occorre recuperare energia entusiasmo e scommettere sull’impatto che lavorare nella Pubblica Amministrazione può avere sulla società e il Paese. Il disagio, il timore, l’insoddisfazione per lo status quo, devono tradursi in una determinazione a investire su sé stessi per sviluppare nuovi skill e ritrovare passione ed engagement nel proprio lavoro.
La sfida riguarda anche i Policy Maker che non possono certo restare indifferenti: piuttosto che rifugiarsi in slogan vuoti o impegnarsi in improbabili quanto dannose battaglie di retroguardia, devono avere il coraggio di promuovere una riforma del lavoro pubblico che faciliti e premi chi investe in professionalità e competenze, chi propone modelli di organizzazione del lavoro più moderni e inclusivi, chi si impegna ad offrire un lavoro sostenibile e di qualità.
Infine, un ruolo importante è quello che spetta ai Sindacati chiamati in questa fase storica a rappresentare le nuove esigenze, dando voce al cuore e alla testa, e non solo alla pancia, di tutti i lavoratori, quelli di oggi e quelli di domani. Lo devono e possono fare oggi ad ogni livello, facendosi parte propositiva nella promozione e progettazione di nuovi modelli organizzativi all’interno delle aziende pubbliche come di quelle private, così come della revisione di una normativa per molti versi obsoleta che rischia di frustrare e impedire l’evoluzione del mercato del lavoro pubblico verso modelli più sostenibili e dignitosi. Dovranno avere il coraggio di mettere in discussione vincoli rigidi relativi agli orari e ai luoghi di lavoro, di occuparsi di inclusione, di merito, di creazione e condivisione di valore. Ai sindacati spetta anche il compito di tutelare i lavoratori da nuovi rischi di sfruttamento ed emarginazione dovuti ad usi scorretti o non inclusivi della tecnologia: iperconnessione, tecnostress, assenza di investimenti sull’alfabetizzazione digitale, sono problemi che vanno compresi e affrontati, non in una logica di conflitto, ma di gioco a somma positiva, perché quella della costruzione del futuro del lavoro è una sfida che si vince o si perde assieme.