Il caso Spotify, nata dall’accusa a un podcast di diffondere fake news sui vaccini, ha riaperto il dibattito sullo strapotere delle piattaforme digitali, che operano spesso in assenza di responsabilità e trasparenza delle regole.
“L’estrema concentrazione del mondo digitale”, commenta Juan Carlos de Martin “dà alle piattaforme un potere esorbitante, ovvero, il potere di rendere digitalmente visibili o invisibili persone, leader politici, artisti eccetera”.
Il potere delle piattaforme digitali in assenza di regole
Le piattaforme sembrano sovrani assoluti e neanche illuminati. “È un potere enorme”, continua Juan Carlos de Martin, (professore del Politecnico di Torino e co-fondatore del Centro Nexa su Internet e Società) “che possono usare non solo di loro iniziativa, ma anche a causa di pressioni di governi, di forze politiche o di campagne di opinione.
Stando così le cose le controversie, gli scandali e le censure – vere o presunte – non potranno che aumentare di numero perché non vedo come sia possibile evitarle.
L’unica vera soluzione a mio avviso sarebbe una radicale decentralizzazione della scena digitale, da ottenersi con un insieme di interventi, tra cui vigorosi interventi antitrust, interoperabilità obbligatoria, condivisione di dati e, almeno per quei servizi che costituiscono evidenti beni pubblici, interventi diretti dello Stato”.
Il caso Spotify
Il podcast con maggiori ascolti su Spotify negli Stati Uniti era The Joe Rogan Experience, condotto dall’americano Joe Rogan, già autore di controversi podcast complottasti, in cui esprimeva scetticismo sui vaccini e pubblicizzava cure alternative screditate.
Il cantautore canadese Neil Young ha prima criticato la piattaforma perché offriva ospitalità al podcast antivaccinista di Joe Rogan, quindi è passato dalle parole ai fatti. Ha chiesto la rimozione della propria musica dalla piattaforma di streaming svedese: su Spotify “possono avere Rogan o Young. Non entrambi”.
Già in passato 270 tra medici ed esperti di sanità avevano inviato una lettera a Spotify contro Rogan definito “un pericolo per la salute pubblica”.
Sulle orme di Young, anche la cantautrice canadese Joni Mitchell ha chiesto la rimozione delle proprie canzoni, seguita da David Crosby, Graham Nash e Stephen Still.
Alla fine Rogan ha dovuto cedere alla pressione mediatica e tornare sui suoi passi, promettendo posizione più equilibrate in futuro.
Ma a provocare la marcia indietro è stato il crollo in Borsa (la piattaforma di streaming musicale ha bruciato il 25% di valore in poche ore), e non una decisione responsabile da parte di un editore di fronte alle reazioni di protesta scatenate da consumatori, podcaster, dipendenti eccetera.
Il dibattito sul ruolo delle piattaforme digitali
Tutto è nato da una disputa sulle fake news, ma naturalmente il caso Spotify apre il più ampio dibattito sulla responsabilità delle piattaforme nella diffusione dei contenuti digitali.
Finora il dibattito sul ruolo delle piattaforme, su censura, libertà d’espressione, responsabilità e trasparenza delle regole è stato associato a Facebook, social media e siti di condivisione come YouTube, ma ovviamente riguarda tutte le piattaforme nate per il content sharing.
Acquisendo startup e piccole società attive nei podcast, Spotify sta emergendo come una società di media responsabile di ciò di cui diventa distributore.
Da piattaforma tecnologica a prescindere dai contenuti ospitati, Spotify si sta trasformando in publisher: un editore a tutti gli effetti, spiega il Wall Street Journal. E Daniel Ek che, pur non essendo d’accordo con tanti pareri espressi su Spotify e pur avendo rimosso 20 mila episodi di podcast sul virus durante la pandemia, aveva detto che “Crediamo che l’ascolto sia tutto”, è dovuto correre ai ripari, preannunciando nuove iniziative per limitare e contrastare fake news, contenuti ingannevoli se non pericolosi per gli ascoltatori.
Piattaforme digitali e creator: non sono più neutrali
Spotify si è trovata a dover gestire una controversia in uno scenario che nell’ultimo decennio è diventato familiare. Quanto accaduto a Spotify è già avvenuto su Facebook con Alex Jones, su Twitter con Donald Trump, su YouTube con PewDiePie, su Netflix con Dave Chappelle. Ora è il turno della piattaforma digitale di streaming musicale con Joe Rogan, con la differenza che Spotify ha sborsato 100 milioni di dollari per avere l’esclusiva di “The Joe Rogan experience” nel 2020 per guidare la crescita della propria divisione dedicata ai podcast.
Anche a causa della strategia aggressiva con cui Spotify ha promosso lo show di Rogan nella sua app, ora la piattaforma di streaming ha più responsabilità di altri player.
Il business model di Spotify
Inoltre Spotify ha un modello di business diverso da YouTube e social media.
Quando qualcosa non va su queste piattaforme, scendono in campo gruppi a favore dei diritti digitali, promuovono un boicottaggio, un hashtag diventa di tendenza su Twitter, e quindi gli inserzionisti minacciano di ritirare le campagne pubblicitarie e i dipendenti di lasciare il lavoro. A quel punto, il re è nudo: se gli inserzionisti non sono d’accordo con le decisioni di moderazione dei contenuti, posso infliggere un danno finanziario alle aziende (anche se nessuno sa quanto il boicottaggio rappresenti una reale minaccia).
Invece Spotify ha un business model basato sulla sottoscrizione: e quindi se Spotify paga il content creator e se Rogan guadagna tanti abbonati, vanta un potere contrattuale maggiore di due cantanti come Nel Young e Joni Mitchell le cui hit risalgono al 1976. Fra l’altro due cantanti che hanno conosciuto la polio, e il terrore che causava la malattia prima dell’arrivo del vaccino. L’addio di Neil Young da Spotify gli avrebbe causato un danno intorno ai 300 mila dollari all’anno.
Spotify e la neutralità delle piattaforme digitali
Però Spotify è fatta di hit e di star e ha 180 milioni di abbonati. Una pop star come Taylor Swift avrebbe potuto mettere Rogan a KO con un solo tweet. In generale, sono le etichette musicali, e non i cantanti, a detenere i diritti di streaming.
Inoltre, se le piattaforme, sempre più affamate di crescita, pagano direttamente podcaster e creator per i loro contenuti che fanno audience, il loro lavoro diventa affine a quello delle stazioni radio e canali Tv: non sono più neutrali, ma si assumono maggiori responsabilità.
Anche i rapporti fra aziende e utenti stanno cambiando. Osservando dozzine di contraccolpi, gli utenti hanno imparato che con una sufficiente pressione sulle piattaforme, una Big tech onnipotente può arrivare a fare ogni cosa, anche l’inimmaginabile. Le regole delle piattaforme appaiono improvvisate e caotiche, non più monolitiche.
Tutti i discorsi di Spotify ed altre piattaforme sulla libertà d’espressione, contro le censure, di Spotify alla fine si sono infranti. Anche le promesse di nuove opzioni per promuovere informazione di più alta qualità contro la disinformazione hanno dimostrato che le piattaforme digitali devono scegliere fra la popolarità di creator controversi e la responsabilità di abilitare comportamenti pericolosi.
Le piattaforme digitali professano alti principi salvo tornare sui loro passi purché la base degli utenti ponga fine all’indignazione, alle minacce di boicottaggio.
Infine piattaforme come Spotify sono vulnerabili. La piattaforma svedese ha un valore di capitalizzazione di appena 37 miliardi di dollari, 70 volte meno di Apple e 40 volte meno di Amazon, due Big Tech che offrono pacchetti in streaming in bundle con serie Tv e film, gaming eccetera.
E, sebbene Young e Mitchell non siano più star di serie A, la loro partenza minerebbe alle fondamenta il claim di Spotify di offrire “tutta la musica di cui avete bisogno”. Senza contare che Apple e Amazon hanno subito promosso le due star degli anni ’70 sui social media, per dimostrare la loro professionalità nel gestire grandi star di oggi e del passato.
Spotify deve investire nella moderazione dei contenuti, trasparenza e linee guida
Spotify ha pubblicato le sue regole dopo che è esploso il caso Rogan. Apple ha linee guida per i podcast, ma per la musica ha solo una guida di stile. Amazon ancora meno.
Inoltre, mentre i social media pubblicano report sulla trasparenza con regolarità, per elencare quanti contenuti rimuovono ogni trimestre, le piattaforme di streaming tacciono. Anche Spotify è muta su questo argomento: ha solo ammesso di aver cancellato 20 mila podcast che disinformavano sul Covide-19 da inizio pandemia.
Facebook conta 15 mila moderatori di contenuti digitali. Nessuno sa quanti moderatori siano invece a libro paga delle piattaforme di audio streaming.
Man mano che le piattaforme ospitano i contenuti generati dagli utenti (Ugc), dovranno aumentare l’attività di moderazione, per non diventare “punti ciechi” afferma Evelyn Doueck della Harvard Law School.
Le piattaforme come Spotify avranno bisogno soprattutto di moderatori umani, perché l’automatizzazione dei processi con l’intelligenza artificiale (AI), come fanno Facebook ed altri, sono meno applicabili all’audio rispetto a testi, immagini o video.
Il dispotismo digitale e la desensibilizzazione pubblica verso gli eccessi di potere
La richiesta del cantautore canadese Neil Young di far rimuovere la propria musica dal Spotify, da cui ricava il 60% degli introiti da streaming, non riguarda solo la disinformazione, la censura e la libertà d’espressione, ma interroga su un tema molto più ampio che riguarda il ruolo delle piattaforme digitali oggi, fra responsabilità e trasparenza delle regole. E soprattutto accende un faro sul potere delle piattaforme.
“C’è una linea comune negli eventi dei tempi in cui viviamo”, spiega Mario Morcellini (professore ordinario in Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi, Roma1), “ed è quella della desensibilizzazione pubblica verso gli eccessi di potere di alcuni soggetti come i grandi potentati digitali.
E noi dobbiamo domandarci perché ciò succede, dal momento che la desensibilizzazione è un problema serio: aumenta la forza di chi esercita un potere assoluto e lascia a tutti gli altri la percezione che i problemi di principio, di coscienza sono ormai ferrivecchi culturali, residui del ‘900.
Ma non solo non è così, mai c’è stata nella storia degli uomini una dominazione così assoluta: ci sono stati tanti tentativi e tante infrastrutture inventate dagli uomini per aumentare il loro potere di disposizione della realtà (significa muovere le persone come pedine di una scacchiera…).
Invece nel passato abbiamo saputo prendere le misure a questi fenomeni di eccesso ideologico, di pressione indebita sulla coscienza degli individui, di un lavorio incessante per cambiare le idee e i comportamenti degli uomini. Nel passato abbiamo saputo prendere le misure a questi fenomeni di eccesso di potere, una formula prevista dalle nostre legislazioni che si misura anche con conflitti di potere”.
Il potere seduttivo delle piattaforme digitali
“Invece nel tempo moderno”, continua Mario Morcellini, “la maggioranza degli uomini appare non irretita, bensì sedotta dalla bellezza delle tecnologie e dal loro potere letteralmente seducente. Di fronte a queste tecnologie sexy, gli uomini perdono una parte di capacità critica, quella che dovrebbero potenziare la scuola, la famiglia, la cultura acquisita. Servirebbero meccanismi di precauzione verso il dispotismo digitale, invece passiamo la maggior parte del tempo della nostra vita fra le braccia del mondo digitale, una potenza ‘mobilitatrice di bisogni insoddisfatti’. Le forme di comunicazione e socializzazione precedenti non hanno saputo soddisfare ed intercettare questi bisogni”.
C’è anche un problema metodologico: “Da questo punto di vista, c’è anche un limite negli studi: noi studiosi non sappiamo fino in fondo le ragioni per cui il digitale riesce a farci cambiare quasi natura, facendoci perdere l’esercizio critico e la messa in discussione del sistema dominante. Non sappiamo fino in fondo dove si incisti nelle persone il potere suasivo della comunicazione digitale. Quello che invece osserviamo è un’omologazione anche dell’area critica della società (che c’è sempre). Anzi, alcuni di noi ritengono che il digitale sia più versato nel dissenso che nel consenso, ma anche l’area critica della società non si è svegliata, non batte colpi, non dichiara la propria discontinuità, anche quando magari la pratica, contro il dispotismo delle piattaforme digitali”.
Il silenzio degli intellettuali
“Perfino l’ascesa di Berlusconi alla Presidenza del Consiglio”, prosegue il professore di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi, “ha risvegliato l’area critica: la gente è scesa in piazza, c’è stato un fiorire di studi e articoli contro l’eccesso di poteri del padrone delle televisioni (che all’epoca parevano invincibili), il rischio di manipolazioni eccetera; ma oggi gli intellettuali tacciono contro l’eccesso di potere delle piattaforme digitali (il cui potere di manipolazione è infinitamente superiore a quello della televisione). Intellettuali, ricercatori universitari, i Parlamenti, tutti elementi che dovrebbero mettere in sicurezza l’autonomia del progetto di società e comunicazione compatibili con la democrazia, non sembrano avere la forza di reagire contro i sovrani assoluti dei tempi di oggi.
La stessa ricerca universitaria, in particolare la sociologia, sembra oggi funzionare più da ufficio stampa della modernità digitale che da fortino critico. E non penso che la sociologia sia solo sempre esercizio critico, ma non deve diventare un modo acquiescente di leggere e interpretare le tecnologie digitali“.
Sul Metaverso, i sociologi hanno pronunciato frasi dal tono encomiastico che neanche gli uffici stampa di Meta avrebbero potuto coniare…”.
La crisi delle democrazie e la sudditanza digitale
“Tutto ciò ci interroga sui motivi per cui le democrazie siano in crisi”, mette in guardia Mario Morcellini, “noi non riusciamo a reagire contro attacchi che non riusciamo proprio a misurarne la definizione e la profondità; le democrazie deperiscono perché non capiscono come l’eccesso di potere comunicativo riduca gli spazi di azione della politica e alla lunga della cultura (ammesso che fra politica e cultura non ci sia una simbiosi quasi naturale…).
I giovani sono ormai immersi nel digitale: chi ha più cultura riesce a gestire ordinatamente sia i saperi che il digitale regala che i saperi che estrae dalla cultura digitale; ma gli indigenti, privi di dispositivo / bagaglio culturale protettivo, rischiano di diventare non protagonisti del digitale, bensì sudditi.
L’incognita delle più giovani generazioni
Del resto, studi, sebbene non definitivi ma attenti, ci dicono che i bambini hanno a che fare con il digitale nella fascia d’età 3-6 anni, in maniera massiccia e incontrollata, a causa di ‘genitori’ che si comportano da adolescenti che si limitano a guardare le abilità manuali dei propri figli.
Ma nessuno sa che impatto abbiamo i dispositivi digitali su questi bambini che arrivano a scuola avendo assorbito atmosfere – conoscenze – valori solo su ciò che trovano (magari senza neanche comprenderne appieno i contenuti) sui tablet e in rete, dunque, nessuno sa che potere avranno questi dispositivi sui bambini in un momento in cui la memoria è in formazione (la memoria si forma col tempo e con l’esperienza) e l’intelligenza reattiva è quella di un bambino in formazione (quello che chiamavamo infans, non titolare di strumenti di comunicazione appropriati).
Su un bambino, non ancora in grado di esprimersi, cosa può fare di lui un fantasmagorico dispositivo digitale che non ha attivato alcun principio di precauzione, ma adatta la propria linguistica e cosmologia all’età dello sviluppo? Tutti questi dubbi non trovano ospitalità nel nostro mondo culturale. Infine, dobbiamo domandarci se siamo ancora intellettuali se non ci poniamo problemi come questi…”, conclude Mario Morcellini.