SCENARI

Guerra alle fake news, troppe deleghe a Facebook: a rischio il pluralismo informativo

Beni giuridici primari messi a repentaglio dall’impennata di disinformazione dovuta all’emergenza Covid-19. E’ il momento per i governi di affrontare direttamente il tema allestendo sistemi di controllo pubblico-privati. Senza lasciare le contromisure in mano alle piattaforme online

Pubblicato il 13 Mag 2020

Matteo Monti

dottore di ricerca in diritto pubblico comparato

fakenews

In un mondo digitale affetto da infodemia e information disorder, le fake news rappresentano un problema sistemico da non sottovalutare. Analizziamo come, in tempi di Covonavirus, il fenomeno rischi di impattare non solo la tenuta democratica, ma anche la salute pubblica e le relazioni fra Stati.

Rapporto Agcom su fake news e Covid-19

L’effetto della disinformazione online viene amplificato dall’isolamento anti-contagio e dall’incremento degli accessi ai social networks, spiega il Rapporto dell’Osservatorio Agcom sulla disinformazione – speciale Coronavirus che evidenzia come “l’attenzione attribuita dalle fonti di disinformazione (siti web, pagine e account social) al coronavirus rimane elevata, pur attestandosi nel giorno medio su valori inferiori rispetto a quelli registrati tra il 10 e il 20 marzo”. Secondo l’Agcom una notizia su 20 è ascrivibile alla categoria della disinformazione.

In questo senso, quello che non è chiaro nel rapporto è la metodologia usata per ascrivere una notizia alla categoria della disinformazione, ma si immagina che essa corrisponda a  quella classicamente usata dall’Agcom, volta ad individuare la disinformazione come le informazioni fattualmente false in tutto o in parte.

Secondo un modello di analisi testuale delle notizie sul coronavirus diffuse dai siti di disinformazione (c.d. topicmodeling), le principali narrazioni di disinformazione nel primo periodo (fino al 20 febbraio) si sono concentrate sul rischio e sulla sua gestione da parte del governo italiano dell’arrivo del virus e su come si è sviluppata ed è stata gestita l’epidemia in Cina, mentre nel secondo periodo analizzato (dal 21 febbraio) le attenzioni si sono concentrate sull’impatto del virus sulla vita lavorativa e quotidiana e sull’azione del governo.

Fra le principali notizie false possono essere ricordate quelle più ricorrenti: ovvero quelle sulla creazione del virus stesso, ma soprattutto quelle sulla sua correlazione con il 5G, che hanno anche determinato atti vandalici contro le antenne, o quelle sulle fantomatiche cure o strumenti di prevenzione contro la contrazione del Covid19 (argento colloidale, miraclemineral, aglio o vitamina c) che potrebbero ingenerare false sicurezze e determinare comportamenti imprudenti che mettano a rischio la salute individuale e collettiva.

Le misure intraprese dagli Stati

Il problema fake news per la prima volta riguarda beni giuridici la cui l’importanza risulta evidente anche al grande pubblico, fra cui il diritto alla vita, la salute pubblica e la tenuta democratica dei sistemi in periodi emergenziali. Si tratta di beni giuridici di primaria importanza, che possono essere seriamente messi in pericolo dai comportamenti di soggetti in buona fede (dis)orientati dalla disinformazione. Ma anche il rapporto con l’Unione Europea, o meglio la sua percezione da parte dell’opinione pubblica, è stato compromesso dall’ampia diffusione di fake news.

Oltre alle fake news sopra elencate i rapporti e gli studi sembrano infatti dimostrare un aumento esponenziale del numero di fake news anti UeIn questo senso, la commissaria Ue per innovazione, ricerca e istruzione Mariya Gabriel ha recentemente avvisato del pericolo di una distorsione dell’opinione pubblica da parte di agenti esterni all’Unione, incentivando sia la creazione di task force nazionali, sia lo sviluppo di ulteriori strumenti da parte delle piattaforme digitali per favorire la visibilità di notizie autentiche.

In questo senso, l’azione europea sembrerebbe concentrarsi ancora sugli strumenti sviluppati dal Code of practice on disinformation, non privo di criticità circa l’eccessivo potere che delega alle piattaforme, e dall’Action plan against disinformation, da ultimo, a quanto si apprende, oggetto di analisi da parte dell’European court of auditors.

In Italia, si è assistito invece alla presentazione della proposta (sviluppata da un esponente dell’attuale maggioranza parlamentare) di affidare all’Agcom alcuni dei compiti di contrasto alla disinformazione online, in particolare la possibilità di segnalare e chiedere la rimozione delle fake news dalla Rete e dalle piattaforme, mediante segnalazione ai gestori delle stesse.

Negli altri paesi europei, a parte lo sviluppo di task force o i mezzi ordinari di contrasto al fenomeno, come il NetzDG tedesco, non appare – a notizia di chi scrive – essere stata emanata o sviluppata nessuna nuova iniziativa degna di nota.

Il ruolo della stampa nelle emergenze

In questo senso va anche ricordato che, soprattutto in periodi emergenziali e di compressione delle libertà fondamentali, il ruolo della stampa, come cane da guardia delle democrazie, emerge con ancora più importanza. Con molta cautela vanno, infatti, vagliate le proposte che in tempi straordinari possono essere fatte per limitare la libertà di informazione e regolare i nuovi media. Festinare nocet, dicevano i latini (come nuoce l’indugiare). E in materie così delicate come quelle relative alla pietra angolare della democrazia, ossia la libertà di espressione, gli interventi vanno ponderati con attenzione, dati i rischi di censura e chilling effect e l’impatto che essi possono avere sul circuito democratico. Attualmente, dunque, non si può che constatare come la principale azione contro le fake news online sia svolta dalle piattaforme digitali stesse.

Soluzioni messe in campo dalle piattaforme

In assenza di report specifici e affidandosi alle fonti giornalistiche, si può rilevare come, concentrandosi sul maggior social network in Italia, Facebook abbia intrapreso una serie di azioni per contrastare la diffusione di disinformazione sul coronavirus.

Secondo gli organi di stampa questo sarebbe avvenuto con la rimozione di contenuti non solo falsi ma anche pericolosi per sé o per altri; la segnalazione sul social, mediante l’apposizione di una specifica targhetta, di altri contenuti verificati come falsi e una riduzione della visibilità degli stessi nel Newsfeed, con contestuale aumento della visibilità – anche mediante suggerimenti nella propria “Bacheca” – dei siti del Ministero della salute e dell’Oms. In aggiunta sembra sia stato introdotto una sorta di “avviso”, volto a segnalare l’avvenuta interazione con una fake news, nel Newfeed degli utenti che abbiano apposto like o comunque condiviso una bufala. Tutte queste procedure avvengono con la collaborazione di agenzie terze di fact-checking.

Malgrado gli effetti positivi che indubbiamente queste campagne stanno avendo, anche se sicuramente possono esserne migliorati gli strumenti, non si può non rilevare che questi processi rischiano di creare e legittimare ex post una privatizzazione della censura, che consegni nelle mani di un privato la regolazione (anche) dell’informazione sulle piattaforme online.

Da questo punto di vista le varie misure descritte presentano problematicità:

  • la rimozione di contenuti falsi (e pericolosi) è senz’altro una pratica necessaria in molti casi, vista la viralità che essi possono raggiungere, tuttavia delegare senza il controllo di un’autorità pubblica (giudici o authorites) questi poteri a un attore privato in campi delicati come quelli della libertà di informazione può comportare gravi rischi per il discorso pubblico. Chi garantisce che non vengano rimossi anche contenuti informativi partitici o addirittura contenuti politici? Posto che sui contenuti proprio dei politici, al contrario, Facebook ha scelto la via della non interferenza, rinunciando al fact checking.
  • La segnalazione dei contenuti inaffidabili verificati sembra aver dato un buon risultato, in quanto secondo le fonti giornalistiche il 95% degli utenti avvisati dei contenuti segnalati come falsi non li legge. Il problema di questo meccanismo già previsto dalla fact-checking partnership è quello della lentezza di azione. Come riportato infatti «Secondo Avaaz le contromisure usate fino a oggi da Facebook non sono state abbastanza efficaci: “Possono trascorrere fino a 22 giorni prima che l’azienda pubblichi le rettifiche per le notizie false sul coronavirus. Il 41% delle storie analizzate è rimasto sulla piattaforma senza nessun avvertimento. Facebook non ha ancora applicato le etichette di segnalazione sul 68% dei contenuti in lingua italiana, contro il 29% dei contenuti in lingua inglese”». In questo senso, come già rilevato, la lentezza e la conseguente poca efficacia dello strumento, oltre che il problema della terzietà dei soggetti deputati al fact-checking, non possono che far sorgere qualche dubbio sulla tutela del pluralismo e della corretta informazione.
  • La riduzione della visibilità di determinati contenuti e il favor per altri, evidenzia, invece, il carattere editoriale di queste scelte e non può che sollevare problematiche in relazione al pluralismo informativo. Non possono che tornare alla mente le accuse mosse a Facebook negli Stati Uniti relative ad un algoritmo costruito per sfavorire le notizie dei media conservatori. Anche in questo caso appare quindi necessario un controllo esterno o perlomeno una possibilità di contestazione davanti ad autorità pubbliche di queste policies di favor.
  • Per quanto riguarda la rettifica atipica che compare in Newsfeed per chi abbia interagito con bufale – anche se nelle ricostruzioni giornalistiche non ne risulta chiarissimo il funzionamento – serve rilevare che essa risponde a una logica efficace se svolta con tempistiche rapide, ma sconta le stesse problematiche sopradette di imparzialità e terzietà nel controllo del contenuto che si definisce falso.

Lo stato di diritto online e corretta informazione

Le considerazioni sopra esposte partono da un assunto preciso: oggi i social networks, come Facebook, considerata la diffusione che hanno e il ruolo che assumono nel dibattito pubblico, sia nel campo dell’informazione che in quello della politica, non possono rimanere padroni di decidere cosa si possa vedere o meno in questa piazza virtuale, salvo non affrontare il rischio di rimuovere determinate posizioni politiche da uno strumento che appare sempre più importante e rilevante in una democrazia. I costituzionalisti si sono interrogati su come dovrebbero essere intesi questi nuovi mezzi di comunicazione/piazze virtuali: il dilemma definitorio e concettuale è forse il grande punto di domanda che necessita di una risposta.

A parere di chi scrive, anche a seguito delle nuove iniziative sviluppate da Facebook – in ottemperanza al Code of practice on disinformation – non si può non rilevare come ormai il social network compia scelte editoriali “simili” a quelle compiute da televisioni e giornali, con la differenza che in un regime di monopolio di fatto, come quello in cui agisce Facebook, la tutela del pluralismo interno deve essere garantita.

E, allora, tornando al tema della disinformazione ci si potrebbe chiedere, in linea con quanto scritto qualche anno fa da Giovanni Pitruzzella, perché non sviluppare un sistema pubblico-privato di controllo della disinformazione che non deleghi i poteri a soggetti privati, ma integri nei processi sopra descritti una authority, come ad esempio l’AgCom, che già vigila, rispetto a varie tematiche, sul mondo dei mass media?

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