Le grandi crisi accelerano le tendenze già in atto, come la storia ci insegna. E l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, con le successive pesanti sanzioni adottate dai Paesi occidentali, sembrano avere tutte le potenzialità per diventare – nel bene o nel male – un potente acceleratore dei cambiamenti negli assetti politici ed economici mondiali in corso ormai da tempo: con un ruolo estremamente importante, attivo e passivo, del mondo digitale in generale e del mondo Internet.
Le macro conseguenze che possiamo aspettarci dalla crisi
Le analisi sui più diversi scenari che – escludendo le ipotesi più terrificanti – potrebbero verificarsi su scala globale nel futuro prossimo e meno prossimo, tipicamente congiunturali alcuni e di natura maggiormente strutturale altri, hanno riempito in questi ultimi giorni le pagine dei più qualificati giornali internazionali e sono state al centro dei dibattiti e delle discussioni sui media.
La guerra mette in crisi la supply chain dei chip: prospettive e soluzioni
In questo articolo, senza particolari pretese di originalità, mi soffermerò brevemente su due macro conseguenze (in una certa misura interconnesse fra loro) in cui credo molto:
- l’accelerazione del processo di deglobalizzazione: della politica e della società, dell’economia e della finanza, degli scambi e degli strumenti di pagamento, delle imprese, delle filiere digitali e di Internet in particolare;
- l’accelerazione del potenziamento del mondo crypto, con la formazione di subsistemi a elevato grado di autonomia e di opacità, come risposta all’aumento di trasparenza e di riduzione della privacy di cui la digitalizzazione e la natura globale di Internet apparivano essere portatrici e come strumento per portare avanti operazioni che per le più diverse ragioni non si vuole vengano alla luce (dagli scambi commerciali proibiti dalle sanzioni, all’occultamento di operazioni ai fini ad esempio fiscali, al pagamento dei riscatti a fronte dei cyberattacchi).
Con una precisazione: che la globalizzazione ha comportato anche molte conseguenze negative, per cui un suo temperamento presenta in diversi casi aspetti positivi (di cui non parlerò però in questo articolo); che la nascita delle cryptovalute via blockchain non ha avuto solo conseguenze negative, ma ha aperto la strada ad applicazioni anche interessanti (nemmeno di esse parlerò) e sta portando tra l’altro allo sviluppo di monete digitali gestite dalle banche centrali.
Nulla sarà come prima
Questa è una guerra diversa dalle altre che hanno caratterizzato l’ultimo secolo. Uno dei motivi è che il digitale vi svolge un ruolo inedito.
- Su un piano della sicurezza informatica: i cyber attacchi russi, come anche la reazione degli anonymous, l’hanno resa la più significativa guerra ibrida “europea”. Il subitaneo intervento dell’Agenzia per la cybersecurity nazionale – qui al suo primo importante banco di prova – conferma la rilevanza di questa dimensione. Prevista, evocata da anni dagli esperti e ora manifesta in tutto il suo peso.
- Su un piano mediatico: la guerra mette a nudo anche il peso delle big tech, chiamate a contrastare disinformazione, propaganda ma anche a danneggiare gli interessi dei media russi. Anche loro, loro malgrado, resi strumento dell’Occidente nella guerra. Sarà inevitabile d’ora in avanti la loro responsabilizzazione – accelerando una tendenza normativa internazionale – come anche la balcanizzazione della rete, perché i Paesi non occidentali vedranno sempre più ormai le big tech (almeno Google e Facebook) come pedine dei propri avversari geo-politici.
- Su un piano macro economico: la globalizzazione si scopre – già dopo il covid e ora di più – nella massima fragilità. Anche il settore tech è colpito (a partire dai chip) dalla rottura delle supply chain che passano dalla Russia. Ed è solo l’inizio.
Nulla sarà più come prima, perché la guerra pare accelerare tendenze – deglobalizzazione, peso delle big tech – che già si facevano strada da una decina di anni.
Per questo motivo arriva oggi, agli iscritti alla newsletter di Agendadigitale.eu, una newsletter speciale per aiutare il lettore alla comprensione di questi grandi mutamenti.
Alessandro Longo
L’accelerazione del processo di deglobalizzazione
Innanzitutto, uno sguardo alla storia. Il processo di globalizzazione prende le mosse negli anni ’80 dalle politiche di liberalizzazione e privatizzazione poste in atto da Reagan e Thatcher negli Usa e nel Regno Unito, dalla liberalizzazione degli scambi internazionali lanciata con l’Uruguay Round nella seconda metà degli anni ’80 e concretizzatasi con la nascita del WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) nel 1995, con la caduta del Muro di Berlino nel 1989 e la dissoluzione dell’Unione Sovietica (alla base dell’invasione di questi giorni) due anni dopo, con l’entrata infine della Cina nel WTO nel 2001.
Gli Stati Uniti – seppur con opposizioni locali ed episodi tragici come quello delle Twin Towers – sono il Paese guida in questo processo e il dollaro è la moneta di scambio universalmente accettata.
L’enorme crescita dell’economia cinese
È una situazione che non dura però molti anni, perché l’enorme crescita dell’economia cinese – che la porta a eguagliare il PIL statunitense a parità di potere di acquisto a metà dello scorso decennio e la porterà presumibilmente a eguagliarlo a prezzi correnti nella seconda metà di questo decennio – accresce le ambizioni politiche della Cina stessa, alimentando un confronto fra le due potenze, che le spinge a un crescente disaccoppiamento sul piano economico, con la messa in crisi delle complesse e articolate supply chain che nel frattempo si erano create.
Perché l’invasione dell’Ucraina accelera il processo di deglobalizzazione
Perché l’invasione dell’Ucraina accelera questo processo? Ipersemplificando, perché le pesanti sanzioni contro la Russia spingono Mosca sempre più (con un processo iniziato nel 2014 con l’invasione della Crimea) nelle braccia della Cina e l’applicazione delle sanzioni stesse – che impediscono ad esempio alle imprese cinesi che producono microchip utilizzando brevetti statunitensi di venderli alla Russia pena la messa al bando e il blocco dell’accesso alle supply chain – rischia di creare ulteriori frizioni e di spingere sempre più la Cina a investire pesantemente per crearsi una industria autonoma.
E di converso gli Stati Uniti, che hanno i brevetti ma che hanno delegato il manufacturing a imprese taiwanesi o sudcoreane, stanno cercando di ricrearsi in casa anche la capacità produttiva. Ancora ipersemplificando, perché l’uso del controllo sulle transazioni in dollari applicato con le sanzioni alla Russia spingerà ulteriormente alla ricerca di strumenti di pagamento alternativi, incluse le monete nazionali digitali (di cui sia Cina che Russia sperimentalmente già dispongono) o addirittura le cryptovalute.
Dalle big oil alle big tech: è la fine delle imprese globali?
La deglobalizzazione delle economie comporta come naturale conseguenza l’estinzione delle imprese globali. È un fenomeno che si era già verificato nel passato con le big oil, ridimensionate nell’estensione delle loro attività e nei loro (un tempo elevatissimi) poteri dal controllo assunto dagli stati petroliferi e dalle imprese (come la Saudi Aramco) di proprietà statale. Un fenomeno che si sta verificando con le big tech – solo Apple e Microsoft lo possono essere considerate ancora e solo con l’accettazione di forti compromessi con la Cina – ma che non è legato solo al confronto US-Cina. Meta-Facebook e Alphabet-Google (quale proprietaria di YouTube) si sono trovate in questi giorni ad affrontare spinte contrastanti relativamente alle notizie che fanno o non fanno circolare, mettendo in luce la difficoltà di operare in Paesi diversi con interessi fortemente contrastanti.
“Ukraine War Tests the Power of Tech Giants – Google, Meta caught between demands from Ukraine, Russia, the European Union and the U.S.”, titolava un suo recente articolo The New Times, aggiungendo “These companies want all the benefits of monopolizing the world’s communications with none of the responsibility of getting swept up in geopolitics and having to choose sides.” E non è un problema solamente delle imprese che hanno a che fare con la comunicazione: Amazon è ad esempio bandito sia dalla Cina sia dalla Russia, ma è oggetto di provvedimenti limitativi anche in molte altre del mondo, dall’India che ne ha impedito la vendita nel suo marketplace di prodotti propri all’UE che ha inserito Amazon stessa fra i gatekeeper cui applicare regole ad hoc.
Il potenziamento del mondo “crypto”
Ancora The New York Times: “Russia Could Use Cryptocurrency to Blunt the Force of U.S. Sanctions: Russian companies have many cryptocurrency tools at their disposal to evade sanctions, including a so-called digital ruble and ransomware”, con un richiamo all’interno a quanto attualmente accade nei due Paesi colpiti dalle sanzioni più dure, l’Iran e la Corea del Nord, che comunque riescono almeno in parte a bypassare i vincoli all’import di prodotti di rilevanza determinante per i loro armamenti e per la loro industria in generale.
E il Financial Times “Toyota: cyber-attack lames lean manufacturing exemplar – Carmaker’s just-in-time system highlights Japanese businesses’ vulnerability to growing threat”.
Con la messa in luce di un sospetto, per un episodio che potrebbe verificarsi in moltissime altre situazioni in Europa e negli US: “A cyber attack on a supplier shut down operations at all Toyota’s [14] plants in Japan on Tuesday. Senior officials fear the ransomware hack was a reprisal against Japan for imposing tough sanctions on Russia.”
La spinta politica va a sommarsi a quella proveniente – in occidente – soprattutto dal mondo finanziario e agli sforzi in atto a livello di ricerca tecnologica e investimenti per costruire il cosiddetto Web3, che andrebbe a sostituire all’Internet quale quello attuale, concepito come unitario (anche se disarticolato poi dalle crescenti differenze nelle regole imposte dai diversi Paesi/aree), un insieme di reti a elevato grado di autonomia e di autogestione. Con una ulteriore ricaduta, come vantano i suoi sostenitori, sul potere delle big tech.