Guerra in Ucraina: non chiamiamola cyberwar. Il campo di battaglia coinvolge un aspetto inedito, delicato e dall’impatto tutt’altro che secondario, in una partita a scacchi digitali molto più complessa di quanto si possa percepire.
Come è stato per il tragico periodo del coronavirus, infatti, di questa guerra abbiamo una cronaca costante, forse meno percettibile rispetto alle radiocronache o telecronache affidate ai media tradizionali, ma sicuramente mai vista per gli altri conflitti, purtroppo anche oggi presenti in altre zone del mondo.
Guerra, ecco come la Russia ha perso la supremazia nella disinformazione
La cronaca social della guerra
Si tratta della cronaca social, ormai strisciante, costante, senza interruzioni, a tratti impercettibile (simile alla pubblicità occulta o peggio subliminale), ed è capace di insinuarsi nella nostra vita senza soluzioni di continuità. La battaglia oggi si vince anche affidando agli algoritmi della rilevanza dei post sui social il registro costante delle notizie, dei video, delle immagini e anche delle nostre opinioni ed emozioni, su scala globale. Ci piaccia o no, si tratta – di fatto – di un inedito fattore di “engagement” nel conflitto su scala globale.
E questa digital, o meglio, social war la sta vincendo nettamente l’Ucraina, grazie all’indubbia abilità di Volodymyr Zelens’kyj, anche grazie ad alleati inaspettati come Anonymous. Ma – attenzione – non si tratta più della tradizionale cyberwar, innescata subito, sin dall’inizio, dalla Russia con il tentativo di bloccare la rete ucraina di telecomunicazioni dal punto di vista infrastrutturale, sperando di chiudere la partita fisica e digitale in pochissimi giorni.
Ma dopo pochi giorni dal conflitto, la stessa Russia ha dovuto immaginare di uscire da Internet, ripiegando dentro se stessa per evitare il boomerang informativo e disinformativo abilmente innescato dalla controffensiva ucraina.
Cyberwar o socialwar?
Questa non è una semplice cyberwar, come l’abbiamo sempre immaginata, anche nei resoconti cinematografici. È una social war. E la social war, in realtà, si rivela più insidiosa e inaspettata e si costruisce attraverso i muri di cemento armato del consenso digitale, attraverso like, influencer, condivisioni, emozioni da far percepire, in modo da pianificare un riscatto che si va gonfiando giorno per giorno a livello globale. E se Putin si arrocca, prova a chiudere a chiave l’informazione nel suo Paese, avviando politiche ovvie di digicrazia, proponendo repressione e diffondendo qua e là le solite fake news, Zelensky, invece, spiazza, gioca abilmente con i suoi video digitali che utilizza con navigata maestria (forse derivante dal suo passato come attore), disarma quella disinformazione, affidandosi sia alle sue abilità e sia ai suoi alleati, che non sono solo gli OTT (che pur fanno la loro parte), ma sono i componenti di una community sterminata che “liberamente” (ma nel mondo dei social poco accade per caso…) condivide, deride i video fake russi e sbeffeggia l’avversario. Per carità, c’è uguale propaganda fake anche da parte dell’Ucraina, ma non è con quella che si disarciona digitalmente l’avversario oggi. Anzi, il “Fake Video showing Paris Under attack”, che per un comunicatore più tradizionalista avrebbe voluto/dovuto scuotere l’Occidente, infiamma poco il web (qualche centinaia di visualizzazioni e un paio di like sono nulla nell’oceano social), se non qualche, pur competente e consapevole, commentatore.
Di certo molto meno di un video di Zelensky pubblicato direttamente dalla sanguinosa cronaca di Kiev, sul campo, “senza censure”. E quel coraggio esibito viene condiviso da centinaia di migliaia di persone, in tutto il mondo. Ogni giorno.
La solitudine social della Russia
E così, inevitabilmente, la Russia si arrocca, appare sempre più goffa e inconcludente a livello social, il video artefatto di Zelensky diviene addirittura controproducente, si ritorce contro la propaganda russa, svelando la fragilità a livello di comunicazione digitale della Russia di oggi.
Insomma, la Russia appare sola, non scuote, non infiamma, neppure il suo popolo. La comunicazione tradizionale, alla quale aveva affidato le sue pur affilatissime armi, sta dimostrando quanto essa sia terribilmente vecchia e inadeguata in un periodo che ha dimostrato in fretta il valore e il disvalore dell’era senza confini e anazionale della sorveglianza digitale.
La morte della verità?
Non è questa una guerra della verità. Ha perfettamente ragione il Direttore Longo a ribadire che stiamo assistendo alla “morte della verità”, in un’epoca in cui i reporter non sono in guerra, ma la guerra è invece ben disegnata da video fake da smascherare e da foto e video più o meno amatoriali da dare in pasto ai social. Il terreno di conquista non è più solo fisico, ma anche multimediale, non è solo circoscritto, ma diventa globale. La bandiera da conficcare sugli incerti e instabili binari del digitale è senza confini territoriali. Su questo terreno l’Ucraina ha già vinto, relegando la Russia a vecchio impero di un mondo che non esiste più, ma non per questo possiamo pensare che sia poco pericolosa. Anzi, un cane bastonato ringhia e morde e può avere reazioni inconsulte e poco diplomatiche. E di diplomatico, in realtà, c’è stato ben poco fino ad oggi da parte dei due presidenti Zelensky e Putin.
E l’Italia?
L’Italia intanto conferma di essere uno Stato a parte, anche dal punto di vista digitale, timido, burocratico e prudente, fino all’inverosimile. Uno Stato dove Wikipedia ci mette tre settimane per liberare la pagina dedicata a questa guerra perché era in corso una discussione su come farla. Stessa guerra contro alcuni personaggi sgraditi a chi decide, come un annoiato e perfido sicario, cosa e chi può entrare sulle pagine di Wikipedia Italia, come incredibilmente capitato a Marco Camisani Calzolari, ad esempio.
Altri sicari e altre, piccole piccole, guerre digitali. Ma questa è un’altra storia tutta italiana.