Economia e sostenibilità

Guerra in Ucraina: le conseguenze sulle catene globali del valore

Crisi umanitaria, alimentare, delle materie prime: la guerra in Ucraina ha fatto ritornare nel dibattito internazionale il tema della corrosione della globalizzazione. La fragilità del mondo post-pandemico, come funzionano le catene globali del valore, le mosse di Usa e Cina

Pubblicato il 30 Giu 2022

Rachele Sessa

Fondazione Ergo

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La decisione di Vladimir Putin di invadere l’Ucraina ha avuto serie conseguenze innanzitutto per l’economia della Russia. La Banca economica per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS) si aspetta che l’economia russa si riduca del 10% quest’anno. E anche se dovesse maturare a breve un “cessate il fuoco”, la BERS pensa che le sanzioni non saranno abolite e provocheranno danni pesanti all’economia di Mosca per i prossimi anni.

Ma la guerra, è ormai chiaro, avrà effetti profondi a livello globale. Su questo tema fra gli economisti sono emersi diversi orientamenti.

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La corrosione della globalizzazione e le conseguenze sulle supply chain

Larry Fink, CEO e fondatore di BlackRock, ha recentemente scritto nella sua lettera agli azionisti che la guerra in Ucraina, in aggiunta ai cambiamenti della catena di approvvigionamento legati alla pandemia, ha posto fine agli ultimi tre decenni di globalizzazione. La guerra, ha scritto, segna “un punto di svolta nell’ordine mondiale della geopolitica, delle tendenze macroeconomiche e dei mercati dei capitali”.

Questo cambiamento si intravede da circa un decennio. Con la guerra russo-ucraina torna con prepotenza nel dibattito geopolitico il tema della “corrosione” della globalizzazione. In due tra i pezzi più interessanti dalla stampa estera, “The end of globalisation” e l’intervista a Pinelopi Goldberg, emergono diversi punti:

  • Polarizzazione globale: a molti sembra probabile che l’economia mondiale si dividerà in blocchi – uno orientato verso la Cina e uno attorno agli Stati Uniti, con l’Unione Europea come partner principale, ma non interamente inserito in quest’ultimo campo. La tesi di fondo è che i due poli economici globali tenderanno a isolarsi e quindi a diminuire l’influenza dell’altro.
  • Per difendere la globalizzazione, i paesi democratici nel mondo dovrebbero varare un accordo mondiale fra di loro per mantenere aperta la concorrenza.
  • Senza globalizzazione ci sarebbe minor innovazione, minor tecnologia e sarà più difficile la transazione energetica. L’invasione e le sanzioni accelereranno la corrosione della globalizzazione già in atto, un processo che avrà ampi impatti. Con una minore interconnessione economica, il mondo vedrà una crescita tendenziale inferiore e una minore innovazione.
  • Le conseguenze sulle catene di approvvigionamento: guerra e pandemia stanno creando una serie di colli di bottiglia che potrebbero essere aggirati modificando e diversificando le supply chain. Secondo questa scuola di pensiero le multinazionali, con l’incoraggiamento dei vari governi, si “assicureranno” costruendo catene di approvvigionamento ridondanti in luoghi più sicuri. Come ogni forma di assicurazione, questa proteggerà da alcuni rischi al ribasso, ma sarà un costo diretto che non produrrà ritorni economici immediati.
  • Diversificare le catene del valore. Il Fmi, in uno dei capitoli del World Economic Outlook, si schiera con coloro che non ritengono finita la globalizzazione e mette in evidenza la necessità di diversificare le catene di approvvigionamento per migliorare la resilienza.

Gli effetti sulla sostenibilità alimentare

La guerra in Ucraina, oltre ad aver generato una crisi umanitaria senza pari, ha dato quindi un altro contraccolpo alle catene globali del valore già stressate dalla recente pandemia.

La guerra ha infatti portato il gas ed il petrolio ai massimi, generando costi esorbitanti per le aziende e le conseguenti rivolte degli autotrasportatori. A questo si aggiunge anche l’aumento di prezzo delle materie prime agricole (grano, mais, cereali) che legano l’Italia e più in generale l’Europa alla Russia e soprattutto all’Ucraina (anche definita granaio d’Europa).

La sostenibilità della filiera alimentare vacilla: il mix micidiale lo crea non solo l’effetto dell’import da quei paesi delle materie prime, ma la globalizzazione della filiera fatta di import, costi di trasformazione, costi di trasporto. Tutte variabili in affanno. L’Italia è il più grande esportatore di pasta al mondo e l’incertezza su tutti questi fronti genera forte preoccupazione per il comparto alimentare.

Le conseguenze sull’automotive

Le case automobilistiche europee si affrettano a sostituire le parti ucraine come i cablaggi. Infatti, l’invasione russa dell’Ucraina ha interrotto la produzione di cablaggi e i veicoli non possono essere costruiti senza di loro.

Il Gruppo Volkswagen e BMW sono tra le case automobilistiche che si affannano per trovare fonti alternative di parti vitali prodotte in Ucraina, causa incertezza degli approvvigionamenti.

La caccia a nuove forniture è l’ultima sfida per un’industria automobilistica già sconvolta dall’impennata dei prezzi dei metalli e dell’energia, dalle catene di approvvigionamento intrappolate dalla pandemia e dalla carenza di chip semiconduttori.

I combattimenti in Ucraina hanno ora interrotto la produzione di cablaggi, che raggruppano fino a 5 km (3,1 miglia) di cavi in ​​un’auto media.

Audi, ha affermato che l’intero gruppo sta lavorando per convincere i principali fornitori a trasferire la loro produzione di cablaggi ucraini in altri stabilimenti o trovare fornitori alternativi. Quella ricerca include l’Europa orientale, il Nord Africa, il Messico e “forse” la Cina, ha affermato.

La crisi su neon e palladio nella produzione dei chip

L’invasione in Ucraina potrebbe peggiorare ancora di più la crisi dei chip: il neon è un gas che viene utilizzato per i laser che “scrivono” sui wafer di silicio da cui vengono prodotti i microprocessori. È un sottoprodotto della lavorazione dell’acciaio.

Quasi la metà del neon mondiale per semiconduttori viene dalla Russia e dall’Ucraina, mentre circa un terzo del palladio mondiale proviene dalla Russia. Secondo la società di consulenza TechCet, specializzata sui materiali elettronici, neon, palladio e C4F6 sono infatti tre materiali cruciali per i microchip, anzi “vitali” per la lavorazione dei semiconduttori.

La fragilità del mondo post-pandemico

La guerra russa dopo la pandemia ha ulteriormente messo in crisi un sistema che già era in sofferenza. Il paragrafo del saggio “Perché le fabbriche fanno bene all’Italia”, edito da Rubbettino, aiuta a fare il quadro della situazione pre-pandemia.

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Il meccanismo degli scambi internazionali costruito negli ultimi venti anni si è dimostrato instabile, non ha eliminato alcune fragilità dell’economia mondiale e della globalizzazione che si sono dimostrate più vulnerabili di quanto si potesse ipotizzare.

Insomma, il mondo che esce già dalla pandemia “non è piatto” o perlomeno è assai meno pianeggiante di quanto si pensasse.

Il fenomeno è emerso in tutta la sua evidenza prima all’inizio dell’esplosione della pandemia, con il lockdown cinese che ha causato la rottura degli ingranaggi di intere filiere in America, Italia, Francia e Germania, poi, a distanza di un anno, con il caso della porta container Ever Given incagliatasi nel canale di Suez, che ha provocato il blocco temporaneo del 12% del commercio mondiale.

Come funzionano le catene globali del valore

Il sistema di dipendenza sul quale sono state costruite dall’inizio degli anni ’90 le catene globali del valore si fonda su un principio semplice e incisivo: massimizzare l’efficienza.

In parole povere le aziende hanno cercato di specializzarsi e di concentrare le diverse competenze nelle aree in grado di offrire economie di scala. Tuttavia, la ricerca incessante dell’efficienza ha determinato un calo verticale delle scorte (facendo prevalere il meccanismo “just in time”) e una crescita esponenziale dei rischi dovuti a possibili strozzature degli approvvigionamenti e delle catene logistiche.

Per avere un’idea della ramificazione del fenomeno, basti ricordare qui che l’iPhone si affida alla rete di produzione di Apple, presente in 49 paesi, e che Pfizer conta su oltre 5.000 fornitori nel mondo per la produzione di vaccini.

Immagine

Una buona immagine che rappresenta cosa sia un prodotto realizzato da una GCV la offre il World Development Report 2020 (World Bank Group) con la scomposizione della provenienza dei componenti di una bici elettrica assemblata in uno stabilimento di Shangai in Cina.

Il 60% dei suoi elementi arriva da paesi esteri e sono coinvolti ben 13 paesi da tutte le parti del mondo.

Durante la pandemia, è successo che le produzioni di dispositivi individuali di protezione sono state messe sotto pressione. Un prodotto complesso come i ventilatori, ad esempio, ha comportato la riorganizzazione di intere filiere visto che la Cina si è trovata nelle condizioni di non poterne produrre di più pervia delle difficoltà di approvvigionamento normalmente garantito da aziende svizzere.

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E, dallo stesso report, una mappa globale mostra che sono pochissimi i paesi non coinvolti nelle CGV (Groenlandia e Africa Sub-sahariana). I diversi colori rappresentano le modalità con la quale i Paesi partecipano alle CGV: blu coloro che partecipano con prodotti manufatturieri, le sfumature di arancio invece attraverso l’agricoltura.

La fragilità della globalizzazione è proprio questa: aver creato catene di fornitura intercontinentali o lunghe che hanno concentrato alcune produzioni anche strategiche in pochi luoghi specializzati eliminando al tempo stesso le scorte di riserva.

Come evidenzia l’Economist[1], “tale dipendenza diventa particolarmente pericolosa quando la geopolitica diventa sempre più conflittuale. Il decadimento delle regole del commercio internazionale rende i paesi più cauti nel fare affidamento gli uni sugli altri”. Man mano che la competizione tra America e Cina si intensifica, cresce la minaccia di embarghi o persino di conflitti militari.

Non è tutta colpa della pandemia. All’inizio della crisi sanitaria in Europa e in particolare in Italia ci si è accorti della carenza di dispositivi di sicurezza necessari per proteggersi dal virus (mancavano mascherine!) poiché la globalizzazione aveva spostato quelle produzioni a basso valore aggiunto nei paesi a basso costo del lavoro. Ma il tema dell’interdipendenza a senso unico delle filiere globali è riemerso prepotentemente non appena la pandemia si è indebolita.

Quando è stato il momento di far ripartire le produzioni di automobili la carenza di semiconduttori, ormai un quasi monopolio (molto meno flessibile del previsto) di Taiwan e Sud Corea, ha costretto molte aziende automobilistiche a lunghe pause di produzione negli stabilimenti in tutto il mondo.

Due esempi come molti altri che si potrebbero fare per arrivare al nocciolo della questione.

L’accorciamento delle catene globali del valore

Ragionando in termini di politica industriale, le mascherine e i semiconduttori diventano una metafora che pone più quesiti: 1) è necessario abbattere i rischi e la dipendenza da altri Paesi accorciando la catena degli scambi internazionali? 2) Come? Localizzando diversamente (ad esempio, in Europa?) alcune produzioni anche a basso valore aggiunto? 3) Va ridotta il più possibile la dipendenza da un monopolista come la Cina? 4) Questo significherebbe indebolire nel lungo periodo le ragioni del mercato aperto e dal libero scambio?

Per questo, continua l’Economist “Mentre combattono la pandemia e affrontano le crescenti tensioni geopolitiche, i governi di tutto il mondo stanno passando dalla ricerca dell’efficienza a un nuovo mantra di resilienza e fiducia in sé stessi.”

Intorno alla risposta si contrappongono due filoni di pensiero.

Il primo si fonda sull’idea che la crisi della globalizzazione ha posto le basi per l’accorciamento delle catene globali del valore: lo sintetizza l’editoriale del Sole24Ore[2] in cui mette in evidenza la riorganizzazione in corso delle catene globali del valore per i settori della difesa, dell’automotive e dei beni durevoli.

In questi settori, infatti, si assiste ad un accorciamento delle filiere e parallelamente a un loro inspessimento, con meno attori coinvolti, ma più strutturati e vicini, controllabili e meno esposti a rischi. L’obiettivo politico, prima che economico, è produrre componenti considerati strategici all’interno dei confini dell’Europa.

Quindi, le grandi catene del valore sarebbero destinate a diventare più “locali”, delegando meno ai paesi terzi e organizzando produzioni parallele.

Questo “fenomeno” non è nuovo: è solo venuto a galla con molta rapidità nell’ultimo anno e mezzo, ma si tratta di un processo già in atto, poiché la tendenza alla riduzione della distanza media degli scambi a livello mondiale è monitorata da tempo.

Le mosse di Cina e America

Mentre il resto del mondo sta imparando a convivere con il virus, la Cina si attiene alle vecchie armi anti-Covid: il governo chiude intere città da Shanghai a Shenzhen al primo segno di un focolaio. Gli economisti stimano che la politica di tolleranza zero del paese inciderà per circa il 3% sulla sua crescita economica mensile finché durerà.

Ormai l’abbiamo imparato: ciò che accade in Cina non rimane un fatto isolato in Cina. I dati più recenti mostrano per il primo trimestre 2022 una crescita più lenta sullo stesso periodo del 2021 del settore manifatturiero cinese, vero architrave del Pil di Pechino.

E se ancora più fabbriche finissero per sospendere l’attività, la produzione potrebbe finire per bloccarsi del tutto, con l’effetto particolarmente critico di far salire ancora di più i prezzi nei mercati occidentali a causa di una offerta insufficiente.

I primi effetti sono già visibili. I dati delle settimane scorse relativamente ai prezzi al consumo negli Stati Uniti hanno mostrato un aumento nel mese scorso come mai negli ultimi 40 anni. Questo è stato il primo rapporto sull’inflazione a prendere in considerazione sia l’invasione russa dell’Ucraina, che ha portato i prezzi dell’energia a livelli vertiginosi, sia l’ultima ondata di blocchi in Cina, che ha messo a dura prova le catene di approvvigionamento.

Quindi, ovviamente, il governo degli Stati Uniti aveva anticipato il rapporto avvertendo che il dato sarebbe stato “straordinariamente elevato”. I prezzi al consumo negli Stati Uniti segnano a marzo +8,5% (7,9% a febbraio) – il più grande incremento dal dicembre 1981.

Ne consegue che se la Cina si trova a lottare con le misure anti-Covid, gli Stati Uniti avanzano senza sosta con azioni che mirano a rendere più resilienti le catene globali del valore.

Il Senato ha approvato un disegno di legge di 52 miliardi di dollari per aumentare la produzione di microchip negli Stati Uniti visto che la persistente carenza di chip ha rallentato la produzione nell’industria automobilistica, costringendo la maggior parte dei costruttori a ridurre la produzione.

Secondo tema del dibattito che vede direttamente coinvolto il presidente Joe Biden, è quello di inserire i metalli delle batterie come litio, nichel, grafite, cobalto e manganese all’elenco che potrebbe aiutare le società minerarie ad accedere a 750 milioni di dollari nell’ambito del fondo Titolo III del Defense Production Act con l’obiettivo di incoraggiare la produzione interna di minerali strategici per i veicoli elettrici o a idrogeno.

La strategia industriale per le supply chain di Biden

Un anno fa, il presidente Biden firmava l’ordine esecutivo 14017 che definiva la volontà di azioni del suo governo di rafforzare la resilienza delle catene di approvvigionamento critiche degli Stati Uniti.

Un obiettivo da raggiungere con azioni finalizzate alla ripresa della forza manifatturiera e industriale americana creando una Task Force in grado di affrontare le diverse sfide.

Durante il primo anno in carica del presidente Biden, l’economia ha aggiunto 367.000 posti di lavoro nel settore manifatturiero – il massimo in quasi 30 anni – la produzione come quota del prodotto interno lordo (PIL) degli Stati Uniti è tornata ai livelli pre-pandemia e le aziende hanno annunciato nuovi importanti investimenti in America.

I porti americani hanno anche spostato una quantità record di merci – escluse le automobili – che sono aumentate del 5% nel 2021 rispetto all’anno precedente. I progressi compiuti nella ricostruzione delle catene di approvvigionamento americane hanno contribuito alla crescita dell’occupazione più rapida della storia e a una ripresa più rapida di qualsiasi altro paese del G7.

Tra le azioni:

  • rafforzare la forza lavoro portuale e migliorare l’efficienza delle strutture nei porti a livello nazionale,
  • generare nuove partnership di filiera tra l’industria automobilistica e quella dei semiconduttori,
  • rivitalizzare e generare investimenti e fiducia verso le imprese – aziende americane hanno annunciato investimenti per quasi 200 miliardi di dollari per la produzione di semiconduttori, veicoli elettrici e batterie negli Stati Uniti,
  • rafforzare le esportazioni manifatturiere statunitensi, con focus su prodotti vantaggiosi per l’ambiente, per le piccole imprese e per la trasformazione, inclusi semiconduttori, prodotti biotecnologici e biomedici, energia rinnovabile e accumulo di energia,
  • migliorare la leadership tecnologica di piccoli e grandi produttori per costruire una maggiore resilienza a lungo termine e competitività globale, comprese le innovazioni nella produzione,
  • ampliare la lavorazione domestica delle terre rare; rafforzare la scorta di difesa nazionale; aggiornare i regolamenti minerari per garantire pratiche sostenibili e responsabili,
  • istituire quattro hub regionali per l’idrogeno pulito e supportare la catena di approvvigionamento dei materiali delle batterie dei veicoli elettrici.

Un piano importante ed aggressivo, che purtroppo non vede ancora l’Europa impegnata adeguatamente a garantirsi ad esempio una sovranità tecnologica – ma che vede muovere i primi passi, tramite ad esempio gli IPCEI o azioni di player internazionali che decidono di investire in Europa.

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Note

  1. The Economist, “Message in a bottleneck – Global supply chains are still a source of strength, not weakness”, 31 marzo 2021
  2. Paolo Bricco, “Dazi e virus, globalizzazione in ritirata”, 4 novembre 2020

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