La guerra in Ucraina è un fatto che ha colpito l’opinione pubblica, monopolizzando l’agenda setting dei tradizionali istituti di informazione quali telegiornali e testate giornalistiche.
Questo non può stupire, se si considerano i diversi fattori di notiziabilità dell’evento: tra gli altri, la portata del fenomeno, la vicinanza con il nostro paese, la caratteristica di novità rispetto all’assenza di conflitti internazionali sul terreno europeo negli ultimi trent’anni.
Guerra, il ruolo centrale di TikTok per informazione e fake news
Guerra, la parola agli influencer
Di conseguenza, la notizia della guerra si è diffusa dappertutto, spostandosi dai professionisti dell’informazione ai professionisti dei nuovi media. Ha fatto molto discutere che il mondo degli influencer si sia improvvisamente occupato di temi geopolitici, e nello specifico che abbia preso parola a proposito della guerra in Ucraina.
Con influencer si intende una figura che per professione riveste il ruolo di comunicatore e che sponsorizza attraverso la creazione di contenuti digitali diverse tipologie di prodotti e servizi. La particolarità, intuitivamente, è quella di influenzare le opinioni delle persone per indurle all’acquisto. Alcune definizioni tecniche identificano questo ruolo come “social media opinion leader”, riprendendo alcune tradizionali teorie comunicative sul ruolo degli opinion leader (cfr. Turcotte et al., 2015); si è scelto in questa sede di mantenere il termine che ha avuto fortuna nel discorso pubblico.
Alcuni influencer – tra cui Cristina Fogazzi, in arte @estetistacinica, quasi un milione di follower – hanno rivendicato il loro diritto a esprimere il proprio disagio a proposito della guerra attraverso i propri canali personali. Ricostruendo la posizione espressa nelle sue stories, tra un ombretto e l’altro ci sono delle persone: anche gli influencer, come ogni cittadino o cittadina europei, sono coinvolti e sconvolti dallo scoppio di questa guerra.
Da dove emerge questa controversia? Anni di convergence culture (Jenkins 2006) ci hanno abituato a costanti traduzioni e passaggi da un ambito culturale all’altro, facendo diventare la presa di parola pubblica un atto linguistico comune, quasi inflazionato. Un tempo, tuttavia, l’opinione privata di un commerciante – per quanto in rilievo – non aveva la stessa rilevanza pubblica che hanno oggi le opinioni degli influencer. Certo, gli interessi dei più facoltosi hanno sempre avuto un certo peso all’interno delle questioni politiche, ma raramente si trattava di opinioni private elevate a posizioni pubbliche. Si trattava se mai di posizioni squisitamente politiche, tradotte all’interno di sistemi di relazioni specifici.
La cultura partecipativa di cui parla Jenkins si è diffusa all’interno della velocissima moltiplicazione e diffusione dei media digitali, sfociando in quello che è stato definito un vero e proprio overload informativo (Ciracì 2020). La ri-condivisione, il commento e il frammento della propria vita privata sono diventati parte di uno stile comunicativo condiviso e socialmente accettato.
Sfruttare il proprio capitale relazionale per sensibilizzare su un tema terribile come una guerra è sicuramente un atto lodevole: il nostro obiettivo non è infatti quello di fare processi alle intenzioni. Ruolo della semiotica però, che è lo strumento di chi scrive, è quello di esercitare uno sguardo analitico sui processi comunicativi e operare una critica culturale (Eco 1975).
Per questo motivo si vuole problematizzare il passaggio di informazioni da un ambito prettamente informativo – quello dei telegiornali, della cronaca – a uno commerciale, con diversi obiettivi.
Il primo è quello di rilevare dei possibili problemi di stampo strategico nella comunicazione degli stessi influencer; il secondo è quello di riflettere su una categoria, quella della legittimità che può aiutare a orientarsi all’interno dell’era della comunicazione digitale e delle sue libertà di espressione.
Chi parla (di guerra)?
Il primo punto che si vuole sollevare è di coerenza rispetto alla propria voice: parlare di guerra tra una storia e l’altra nelle quali si cerca di sponsorizzare o vendere un prodotto può lasciare il fianco scoperto a critiche, prima fra tutte quella di stare strumentalizzando argomenti con un forte peso morale al fine di aumentare i propri profitti.
Si tratta dei fenomeni di -washing (Sobande 2019): nel momento in cui un tema di rilevanza sociale o identitaria rispetto ad alcuni gruppi diventa un trending topic, chi si occupa di promozione commerciale di articoli che poco hanno a che vedere con queste cause può venire accusato di ipocrisia e strumentalizzazione. Come spiega la sociologa Francesca Sobande, l’attenzione dei brand per le cause sociali ha una ragione prettamente legata ai processi di targettizzazione online per orientare le inserzioni sponsorizzate all’interno delle piattaforme social.
Un’altra critica che viene mossa agli influencer è quella di slacktivism: negli ultimi dieci anni con questo termine si sono indicate tutte le pratiche di attivismo online che supportano cause sociali o politiche, senza però comportare un vero sforzo o impegno nella risoluzione del problema sollevato. La caratteristica di questo fenomeno è data dal fatto che, appoggiandosi alla gratificazione istantanea tipica del funzionamento dei social media, danno un’alta impressione di coinvolgimento senza incidere in maniera sostanziale sul reale.
Se si considerano però casi di come quello ricordato da Stefano Feltri su Domani[1] a proposito della succitata Cristina Fogazzi, la quale fa parte di un network di influencer che ha facilitato l’elezione di un candidato alle ultime elezioni amministrative del comune di Milano, o il caso della campagna commerciale dell’ultimo album di Fedez, appare immediatamente evidente come gli effetti della comunicazione degli influencer siano tutt’altro che non incidenti sulla realtà e sulla politica.
Non si può neanche mancare di sottolineare come Volodymyr Zelenskyy, protagonista della crisi Ucraina, sia diventato primo ministro proprio cavalcando la propria fama e il proprio apprezzamento mediatico.
Chi ascolta? (A proposito di rumore informativo)
Un altro problema riguarda invece il rumore informativo (Wardle, Derakshain 2017) che accompagna eventi totalizzanti come la guerra: ogni post a proposito del tema aumenta la quantità di informazioni circolanti sull’argomento, rendendo meno intelligibile e più caotica la visione d’insieme sul fenomeno.
Certamente un fatto come l’invasione russa in Ucraina riguarda tutti gli utenti del web. Ma è strategicamente efficace che tutti prendano la parola in merito? Oppure nel condividere una bandiera gialla e blu su Instagram, stiamo facendo leva sullo stesso meccanismo di auto-gratificazione alla base dello slacktivism? Qual è l’effetto a lungo termine della sovraesposizione a determinate informazioni?
L’eccesso di rumore genera caos: e information disorder (ibid.) è proprio una delle definizioni che la Comunità Europea ha cercato di promuovere all’interno del dibattito pubblico per superare i limiti del discorso sulle “fake news”, e cercare di diffondere la consapevolezza che i problemi del sistema mediale dipendano da sue caratteristiche strutturali.
Un modo originale di interpretare le echo chambers (Quattrociocchi Vicini 2016), così come la proliferazione digitale delle teorie del complotto, è proprio quello di considerarle antidoti non solo alla complessità del reale, ma anche al corrispettivo rumore informativo dovuto alla moltiplicazione, frammentazione e privatizzazione di visioni del mondo che il web 2.0 ha portato con sé.
Un’analisi semiotica delle interfacce delle piattaforme social (Polidoro 2018; Cosenza 2014) ci può aiutare a capire che uno dei problemi alla base della circolazione delle informazioni on line è la costante call to action che le piattaforme predispongono. All’interno di un ecosistema (Granata 2015) mediale molto complesso, noi utenti abitiamo uno spazio che ci esorta costantemente a prendere parola.
E questo, oltre a dipendere da motivi legati al design di questi specifici media, dipende anche da necessità strettamente legate all’economia delle piattaforme digitali. Influencer e testate giornalistiche, da questo punto di vista dipendono dalla stessa necessità di pubblicare quotidianamente contenuti – per fidelizzare il proprio pubblico e mantenersi competitivi sul mercato.
Publish or perish, l’adagio che in ambito accademico identifica l’alta competitività della ricerca, può benissimo essere adattato al contesto dei social media: post or perish. Le conseguenze, a livello di qualità dei prodotti, sono le stesse.
Che fare?
Non è un caso che nell’affrontare un tema come quello della presa di posizione da parte degli influencer sulla guerra siano emersi in più occasioni riferimenti alla disinformazione. E non certo perché le loro posizioni siano false. È perché le dinamiche della circolazione delle informazioni nello spazio digitale – foucaultianamente, il regime discorsivo (Foucault 1970) in cui viviamo – seguono delle linee precise.
Nell’analizzare i fenomeni della disinformazione, Lorusso (2020) suggerisce di utilizzare, piuttosto che la categoria della verità quella di legittimità. La verità, in virtù della sua assolutezza, è poco utile nel descrivere i processi comunicativi dell’era digitale.
Si può dire che un’opinione non è vera? Se le informazioni in proprio possesso sono ritenute vere, e si agisce in sincerità, si può essere ritenuti responsabili di dire il falso?
La legittimità invece, ci permette di mettere a fuoco il contesto in cui avvengono i processi comunicativi, piuttosto che considerarli veri o falsi. Sposta la rilevanza dalla correttezza delle informazioni alla loro adeguatezza al contesto e dipendenza da una serie di norme.
Permette inoltre di valutare efficacemente le opinioni: “questa opinione è legittima?” apre possibilità di indagine sulle fonti, sulla pertinenza politica, sulla coerenza rispetto ad altre posizioni espresse in precedenza.
Ritornando quindi ai problemi di coerenza e rumore nel caso che stiamo analizzando, si può introdurre l’ultimo tema legato al binomio ‘influencer e guerra’. La categoria di legittimità fa emergere una delle questioni più spinose nella regolazione dei fenomeni di disordine informativo: all’interno dei social media, chi ha il diritto di parlare di cosa?
È corretto permettere che un consenso costruito attraverso dinamiche commerciali e di marketing sfoci nella legittimità politica? Il problema non è nuovo; tuttavia, esso si dà, ogni giorno, con modalità e forme sempre nuove.
Il succitato articolo di Feltri si chiude con una proposta di regolazione dello spazio comunicativo digitale, per evitare gli abusi da parte dei suddetti influencer, dotati di un potere informativo molto elevato. I rischi di una posizione fortemente regolativa sulla diffusione delle informazioni online sono altissimi, e sono gli stessi di chi vuole silenziare con la forza le posizioni ritenute assurde nel dibattito sui vaccini. Una società civile non si può permettere di censurare delle posizioni solo perché ritenute illegittime da una parte della popolazione. Senza contare che, per cercare di colpire dei potenti, questo tipo di manovra rischierebbe di esporre le vittime delle disuguaglianze sociali a enormi rischi di repressione.
Allo stesso tempo però, la proposta della regolazione mette in campo la questione dello spazio digitale, dell’ecosistema mediale come qualcosa di pubblico o di privato. Se consideriamo la nostra presa di parola in rete come qualcosa di prevalentemente privato, allora possiamo permetterci di pubblicare ciò che vogliamo sul nostro profilo, anche senza preoccuparci delle conseguenze. Se invece si considera l’ecosistema mediale come qualcosa di pubblico, allora viene introdotto un fattore di responsabilità rispetto a ciò che si dice in rete.
Conclusioni
Fogazzi ha ragione quando sostiene che tra un ombretto e l’altro ci sono delle persone, e ha ogni diritto di difendere la loro libertà di espressione. Ciò che questo genere di controversie fa emergere tuttavia è la legittimità e la responsabilità degli attori privati all’interno del discorso pubblico.
Se il meccanismo di visibilità e pubblicazione costante di contenuti commerciali è ciò che ha conferito loro la legittimità di esprimersi, allora emerge una responsabilità verso quel pubblico che ha conferito loro questa legittimità.
Responsabilità che giornalisti e giornaliste conoscono molto bene: da Francesca Mannocchi a Valerio Nicolosi, fino a Cecilia Sala e Francesco Costa, Instagram pullula di professionisti dell’informazione che cercano di risolvere la contraddizione che sussiste tra la complessità del reale e la semplicità richiesta dalla comunicazione online.
Di fronte quindi alle problematiche generate dall’espressione irriflessa del nostro disagio online, potrebbe essere una buona pratica tenere in considerazione lo stato di inquinamento dell’ecosistema (Wardle, Derakshain op. cit.) e agire di conseguenza.
Bibliografia
Ciraci, F. 2020 “Per una teoria critica del digitale: fake-news e post verità alla luce della logica della verosimiglianza” in Quaderni di filosofia a cura di Ciracì F, Fedriga R, Marras C. Mimesis, Milano-Udine.
Cosenza, G.
2014 Semiotica dei nuovi media, Laterza, Roma-Bari.
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Granata, P.
2015 Ecologia dei media, Franco Angeli, Milano.
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2006 Convergence culture: where old and new media collide, New York, New York University Press,
Lorusso, A.M.
2020 “Between Truth, Legitimacy, and Legality in the Post-truth Era” in International Journal for the Semiotics of Law – Revue internationale de Sémiotique juridique, volume 33, 1005–1017 (2020). https://doi.org/10.1007/s11196-020-09752-3.
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2016 Misinformation. Guida alla società dell’informazione e della credulità, FrancoAngeli, Milano.
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2019 “Woke-washing: “intersectional” femvertising and branding “woke” bravery”, European Journal of Marketing, vol. 54 n. 11, pp. 2723-2745.
Turcotte et al.,
2015 “News Recommendations from Social Media Opinion Leaders: Effects on Media Trust and Information Seeking” in Journal of Computer mediated communication, 20, pp. 520–535.
Wardle, C.; Derakhshan, H.
2017 “How did the news go ‘fake’? When the media went social” The Guardian, https://www.theguardian.com/commentisfree/2017/nov/10/fake-news-social-media-current-affairs-approval.
- https://www.editorialedomani.it/fatti/influencer-e-politica-servono-regole-per-i-conflitti-di-interessi-di-quelli-come-fedez-buj9irbp ↑