Una sentenza italiana in tema hate speech ci dà un’opportunità per approfondire quanto sia diversa la normativa in materia in Europa, Italia e Stati Uniti. Ancora troppo frammentata nonostante questo tema sia, per forza di cose grazie a internet, per sua natura globale.
La sentenza: lo scorso 10 febbraio il Tribunale di Roma ha condannato in primo grado 25 persone alla pena della reclusione compresa fra il massimo di tre anni e dieci mesi e il minimo di un anno per i reati di istigazione all’odio razziale e di diffamazione aggravata commessi fra gli anni 2009 e 2012 attraverso la piattaforma dei suprematisti bianchi denominata Stormfront.
Questa decisione, la cui motivazione è stata depositata il 14 luglio 2020 per le note ragioni emergenziali, si pone in linea di continuità con la sentenza della Corte di Cassazione del 16 febbraio 2016 (n. 34713/2016, Prima Sez. Penale), che aveva inflitto agli allora quattro imputati, promotori della sezione italiana del medesimo sito web Stormfront, pene variabili fra due anni e sei mesi e due anni e due mesi.
Le differenze in tema hate speech tra Usa e UE
Il tema dell’hate speech e più specificamente quello dell’odio razziale, evidenziano una stridente diversità fra le scelte di campo operate dal sistema giuridico dell’Unione Europea rispetto a quello del Nord America.
Usa e discorsi d’odio
In particolare, la linea seguita dalla giurisprudenza statunitense e convalidata dalla Suprema Corte U.S.A., fa rientrare nel Primo Emendamento della Carta Costituzionale i discorsi e le opinioni espresse su temi di interesse pubblico, anche questi siano offensivi o persino oltraggiosi, purché essi non eccedano il “limite della decenza, tanto da essere considerati come atroci e del tutto intollerabili in una comunità civile” (Harris vs. Jones – 1977 e Snyder v. Phelps – 2011). A tale stregua, il sito Stormfront.org, il cui accesso risulta da tempo prevenuto dal motore di ricerca “Google” in Italia, in Francia e in Germania, dal 1990 (salva una breve interruzione di circa un mese nel 2017) conduce tuttora liberamente negli Stati Uniti le proprie campagne antisemite e negazioniste, avallando i principi neonazisti e revisionisti espressi dai propri membri.
Questa piattaforma si è resa interprete negli anni della visione del suo leader, l’ex wizard del Ku-Klux-Klan, Stephen Donald “Don” Black di cui si è occupato ampiamente anche il processo penale oggetto del giudicato del tribunale di Roma sopra ricordato. Nel considerare quale debba essere il limite della tolleranza di un paese nei confronti della libertà di pensiero, non possiamo non considerare che nel proporre agli oltre trecentomila iscritti i rivoltanti disvalori del libro di William Luther Pierce “I Diari di Turner”, il sito web Stormfront ha annoverato fra le sue fila estremisti del calibro di Richard Andrew Poplawski, responsabile dell’assassinio di tre poliziotti in Pennsylvania nel 2009, di Anders Behring Breivik, autore delle due stragi di Oslo e di Utoya che, nel luglio del 2011, hanno condotto alla morte settantasette persone, nonché di Jason Todd Ready, omicida nel 2012 di quattro persone prima di sopprimersi.
La gravità dei fatti che legano i “pensieri” di Stormfront alle “azioni” di alcuni dei suoi seguaci imporrebbe, anche da parte dei nostri alleati d’Oltreoceano, una rigida applicazione dei principi della “Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale”, firmata a New York il 4 gennaio 1969.
Questo trattato obbliga infatti gli Stati aderenti a introdurre norme volte a vietare la propaganda razziale e a rendere impossibile la stessa esistenza di organizzazioni i cui obiettivi si fondino sulla discriminazione o sulla supremazia razziale (Art. 2 lett. d). Va peraltro soggiunto che gli Stati Uniti, uno dei 27 paesi firmatari della convenzione, in sede della loro ratifica hanno introdotto la riserva che consente a uno Stato firmatario di non assumere obblighi che si pongano oltre il limite di quanto stabilito dalla propria carta costituzionale e, quindi, anche a quello previsto del Primo Emendamento: gli USA non sarebbero quindi vincolati ad impedire la persistente presenza del sito web Stormfront nel proprio territorio.
Unione europea
Nel contesto dell’Unione Europea l’atteggiamento nei confronti dell’hate speech è apparso del tutto diverso da quello statunitense che abbiamo sopra tratteggiato, ad iniziare dal contenuto della Raccomandazione R (97) 20 del Consiglio d’Europa la quale, riportandosi alla Dichiarazione di Vienna del 1993 sul tema, ha fissato alcuni principi cui gli Stati Membri debbono adeguarsi, nel creare le proprie normative amministrative, civili e penali in materia, allo scopo di impedire il risorgere di razzismo, xenofobia e antisemitismo. Tali disposizioni sono state concepite allo scopo di contemperare il diritto alla libertà di espressione, costituzionalmente garantito, alle esigenze di rispetto della dignità umana, così come previsto dall’art. 10 della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo.
In sintonia con questi assiomi, la Convenzione di Budapest del 28 gennaio 2003, nel suo Protocollo Addizionale, vieta la disseminazione di materiale razzista e xenofobico per il tramite della rete, imponendo comunque agli Stati Membri l’adozione di misure efficaci, ove gli stessi non intendessero adottare la strada delle sanzioni penali. Queste ultime sono l’oggetto precipuo della Decisione Quadro 2008/913/GAI del Consiglio dell’UE in data 6 dicembre 2008, attraverso la quale sono stati dichiarati punibili penalmente – per mezzo di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive – determinati comportamenti intenzionali che includono l’apologia, la negazione o la minimizzazione dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, oltre che di quelli volti alla discriminazione di razza, sesso o religione.
Italia e hate speech
In questo contesto il legislatore italiano ha fatto la propria parte introducendo le norme della Legge Mancino (Legge 13 ottobre 1975, n. 654), il cui Art. 3 è stato successivamente modificato con il decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, recante: “Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa”.
E’ proprio questa la disposizione che ha trovato applicazione nel caso giudiziario Stormfront di cui ci siamo qui occupati e forse è giunto il tempo di pensare ad una vera armonizzazione globale di questo segmento così cruciale dei rapporti umani, in aderenza ai valori di non discriminazione che sono la base fondante dell’odierna società.
È uno di quei casi – come per la privacy e la tassazione – in cui differenze normative, in un ambito ormai super globalizzato dalla rete, possono creare disservizi alla tutela di diritti.