La “legge sulla sicurezza nazionale”, imposta unilateralmente dal governo cinese a Hong Kong il 30 giugno scorso, preoccupa molto le piattaforme digitali come Facebook e Google e probabilmente deve preoccupare anche noi.
- Secondo l’articolo 43 della legge i fornitori di servizi Internet sono obbligati a soddisfare le richieste di informazioni provenienti dalle autorità a prescindere dalla presenza o meno di un ordine del Tribunale; le forze di polizia stabiliscono cosa censurare, eliminare o condividere nel web.
- Sempre il dipartimento di polizia sarà responsabile della supervisione dei casi di sicurezza nazionale e potrà procedere anche alla confisca o al sequestro dei server ubicati a Hong Kong che memorizzano dati, mentre per quelli siti al di fuori del territorio cinese, avranno la possibilità e l’autonomia di imporre agli ISP specifici vincoli che rendano non accessibili quei siti web ritenuti pericolosi. Chi non si adegua potrà essere sanzionato o anche tratto in arresto.
Le principali web company, per le quali Hong Kong rappresenta una delle piazze più importanti e redditizie, stanno valutando i dettami della legge, sospendendo, al momento qualsiasi richiesta di dati, in attesa di esaminarla meglio.
Le preoccupazioni delle piattaforme digitali, così come i timori della popolazione locale e le accuse mosse dagli attori internazionali di numerosi governi nei confronti della Cina, non sono peregrine e gli effetti si manifestano con assoluta evidenza, anche sul piano delle relazioni internazionali e gli equilibri dell’economia digitale.
La legge cinese sulla salvaguardia della sicurezza nazionale
Va considerato che il provvedimento, approvato all’unanimità dal Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, e fortemente caldeggiato dal Presidente XI Jinping, impone forti limitazioni alle libertà democratiche e svuota di ogni significato il principio “un Paese, due sistemi” che dal 1997 ha caratterizzato il particolare regime di autonomia riconosciuto, con il compromesso passato alla storia come “passaggio di consegne”, alla regione di Hong Kong e che la rese una delle divisioni amministrative provinciali (SAR) con il più alto grado di “autodeterminazione” in Cina.
Ciò malgrado documenti ufficiali e la stampa cinese, dichiarino che l’intento di Pechino sia al contrario proprio quello di preservare l’ordine e il rispetto del principio “un Paese, due sistemi”.
Affermazioni e rassicurazioni piuttosto difficili da intendere che lasciano, in realtà, intravedere ampi spazi per una lettura più vicina ad un concetto del tipo “Un paese, un sistema” a sua volta espressione del disegno del Presidente XI che vede Hong Kong quale asse portante di un hub finanziario ed economico globale a guida centrale e fulcro degli equilibri del commercio mondiale.
La legge, la cui base giuridica sfrutta una lettura opportunistica dell’articolo 18 della Basic Law di Hong Kong, è finalizzata a reprimere con rigore estremo ogni atto considerato come minaccia alla sicurezza nazionale. Consente all’intelligence cinese di operare indisturbata e con pieni poteri sull’intero territorio ogni qualvolta si sospettino reati di secessione, sovversione, terrorismo o collusione con un paese straniero a danno della stabilità interna. Le pene vanno dai tre anni all’ergastolo, a seconda della gravità dell’illecito e del grado di coinvolgimento.
Per altro, le interpretazioni della legge sono vaghe – il che la rende ancora più pericolosa – dato che è un “mai visto prima” sul piano giuridico. Fatto sta che nel dubbio molti utenti sono già corsi a cancellare post (e account) social, temendo ritorsioni ex post per opinioni che fino a poco tempo fa erano accettabilissime ad Hong Kong.
Annullando definitivamente i privilegi che fino ad oggi hanno regolato, almeno sulla carta, i rapporti tra Pechino ed Hong Kong, la legge insomma demolisce quei vantaggi che potevano consentire a “the Island side”, pur tra molteplici contraddizioni, di erigersi al ruolo di bastione della libertà di espressione e degli spazi di libertà civili rispetto al resto della Cina, paragonabili solo a quelli riconosciuti a Macao, l’altra regione autonoma a statuto speciale situata sulla costa sud della Cina continentale.
Le reazioni delle piattaforme tecnologiche
Gli effetti si fanno sentire anche sul fronte digitale. Ed era più che prevedibile.
Stando al Report Digital 2020 di We Are Social, Hong Kong è leader nelle connessioni di telefonia mobile e vanta fino al 91% di penetrazione di Internet, ponendosi tra i primi a livello globale.
Il numero di utenti di social media è aumentato di 224 mila (+ 4,0%) tra aprile 2019 e gennaio 2020 con una penetrazione del 78% a gennaio 2020.
Ai numeri contenuti nel Report, significativi di quanto possa valere Hong Kong per la Silicon Valley, se ne aggiunge uno altrettanto ragguardevole.
Sono già vigenti, infatti, le norme di attuazione per l’articolo 43 della legge sulla salvaguardia della sicurezza nazionale.
Oltre a perquisizioni, raccolta di prove e restrizioni della libertà degli indagati, risaltano le misure relative alla gestione dei contenuti online, in base alle quali, oltre a quanto già visto in precedenza, i gestori delle aziende tecnologiche non collaborative e che si rifiutano di consegnare i dati sugli utenti coinvolti in indagini sui crimini di sicurezza nazionale, senza addurre motivazioni tecniche convincenti, rischiano l’arresto oltre che pesanti sanzioni.
Le applicazioni di messaggistica anche se con crittografia end-to-end potrebbero dover condividere metadati con le autorità cinesi.
Gli ISP, ricorrendone i presupposti, in quanto processori di dati, dovranno riferire su coloro che stanno utilizzando VPN.
Un
Controllo dunque pervasivo e invadente, ben delineato nelle Norme attuative dell’Articolo 43, pubblicate il 6 luglio dal nuovo Comitato per la salvaguardia della sicurezza nazionale di Hong Kong.
WhatsApp, Telegram, WeChat, Tik Tok, ma anche Facebook – per il quale Hong Kong è la regione da cui trae le maggiori fonti di reddito al di fuori degli Stati Uniti – e Twitter, Google, Zoom – che però non molto tempo fa si rese complice della censura su Tienanmen a semplice richiesta “della Cina”- oltre a LinkedIn di Microsoft: pare che tutte, per ora, “sospenderanno” qualsiasi richiesta di dati da parte delle forze dell’ordine al fine di poter esaminare il fumoso contenuto della Legge e i confini della sorveglianza digitale da questa imposti.
“Stiamo sospendendo la revisione delle richieste del governo per i dati degli utenti da Hong Kong in attesa di un’ulteriore valutazione della legge sulla sicurezza nazionale, compresa la dovuta diligenza formale in materia di diritti umani e consultazioni con esperti internazionali in materia di diritti umani”, riporta una nota di Facebook.
“Twitter esercita la dovuta diligenza per rispettare le leggi locali nelle giurisdizioni di tutto il mondo e rivede debitamente tutti i processi legali”, ha affermato Dorsey che poi ha aggiunto “La nostra politica è sempre quella di stare dalla parte della libertà di espressione, se del caso e entro i parametri della legge”.
Fa eccezione Tik Tok, di proprietà del colosso cinese Internet ByteDance e di Zhang Yiming, uno degli uomini più ricchi della Cina che, tanto risoluta quanto intimorita ed esposta, annuncia il ritiro della sua app dagli store di Hong Kong e informa gli utenti attivi dell’imminente blocco delle funzionalità dell’app. È molto probabile che al suo posto ByteDance incrementerà l’uso della corrispondente app cinese Douyin certamente più aderente alle prerogative del regime.
Apple e Amazon Web Services preferiscono utilizzare il termine “valutare” piuttosto che “sospendere” ma, di fatto, si prendono del tempo al pari degli altri per “elaborare il contenuto prescrittivo” della provvedimento sulla sicurezza nazionale.
Una pausa di riflessione che però le autorità cinesi non considerano, dal canto, loro sospensiva dell’applicazione degli obblighi normativi e delle responsabilità in caso di non conformità.
Intanto Signal, l’apprezzata app di messaggistica con crittografia end to end creata dall’ex capo della sicurezza di Twitter, Moxie Marlinspike e il cui codice sorgente è open source, si porta in cima alla classifica dei download degli app store (almeno fino a quando non verrà bloccata, come peraltro già avvenuto in Egitto, Oman, Qatar e Emirati Arabi Uniti).
Altri utenti optano per l’auto-censura se non direttamente l’auto-eliminanazione dai social media, ponendosi probabilmente in direzione di quanto auspicato dalle autorità di Hong Kong.
I più performanti si rivolgono alle VPN “senza log” confidando nelle potenzialità della crittografia e nella mancanza di dati personali coinvolti nelle registrazione al servizio digitale e affidandosi a browser Web in modo anonimo.
Mentre inesorabili, sul fronte opposto, alcuni organi dirigenti cinesi, tra cui l’Ufficio di sicurezza nazionale, stabiliscono i propri uffici in un hotel di Hong Kong vicino al parco centrale della città, un tempo sede di proteste democratiche e ora avamposto di Zheng Yanxiong nominato dal PCC a capo dell’agenzia per la salvaguardia della sicurezza nazionale con possibilità di esercitare giurisdizione esclusiva in determinate circostanze.
I riflessi internazionali del provvedimento sulla sicurezza
Come intuibile, le reazioni degli attori internazionali sono state negative.
“È la fine di Hong Kong come il mondo l’ha conosciuta finora” – ha scritto in un post su Twitter l’attivista Joshua Wong poche ore prima di annunciare le sue dimissioni dal movimento Demosisto.
Le parole del giovane attivista non alludono solo alle preoccupazione per cui ogni forma di pensiero riconducibile a quella che lui stesso definisce la “guerra infinita” di Hong Kong, come ogni manifestazione di opposizione antigovernativa, rischiano di essere considerate alla stregua di una “minaccia alla sicurezza nazionale”, ma anche agli evidenti e pesanti effetti sul fronte delle relazioni internazionali.
Non sbaglia. Il clima dei rapporti si complica e si irrigidisce.
Con la Nato – che, per il tramite del segretario generale, Jens Stoltenberg, dichiara senza mezzi termini quanto la Cina si riveli distante dai fondamentali valori di democrazia, libertà e stato di diritto –
Con il Giappone – che definisce “un atto deplorevole” la legge oltre che penalizzante per gli importanti rapporti economici con la ex colonia britannica e per gli scambi commerciali tra i due Paesi –
Con Taiwan – che come preannunciato dalla Presidentessa Tsai Ing-wen, darà asilo ai cittadini di Hong Kong attraverso un neoistituito ufficio per assistere e accogliere i rifugiati.
Con l’UE – che a livello di Parlamento e Commissione sta ancora sta elaborando una risposta coordinata su Hong Kong che, tuttavia, sin d’ora si preannuncia piuttosto tiepida –
Con gli USA – dove il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha annunciato l’interruzione dell’export di materiale bellico verso Hong Kong e ulteriori restrizione tecnologiche, oltre al congelamento dello speciale status vantato dall’ex colonia britannica nei rapporti bilaterali con gli Stati Uniti. La Camera dei rappresentanti avrebbe inoltre già presentato un disegno di legge per penalizzare quegli istituti finanziari che penseranno di poter fare affari con funzionari cinesi che implementano la nuova legge.
E con la Gran Bretagna – dove Boris Johnson ritenendo la legge una “chiara e severa infrazione della dichiarazione congiunta sino-britannica in quanto vìola l’autonomia della regione ed è in conflitto con la Legge Fondamentale di Hong Kong”, ha reiterato ufficialmente la posizione già espressa da Londra: “se Pechino non dovesse fermarsi sulla discussa legge per la sicurezza nazionale, il Regno Unito è pronto a offrire una cittadinanza agevolata a quasi tre milioni di residenti a Hong Kong (su sette milioni complessivi) che già hanno diritto al passaporto britannico.”
Pechino, dal canto suo, non sembra essere né sorpresa, né disposta a fare passi indietro, forte della sua fitta schiera di sostenitori molti dei quali partner della Belt and Road Initiative cinese, oltre a Cuba e alla silente e al momento non particolarmente ostile India.
Fonte Immagine: Axios
Il declino di Hong Kong
Quello che è ormai evidente è che Hong Kong sta affrontando un drammatico declino, anche economico-finanziario. Chiara espressione del fallimento del governo della Regione nel mantenere la sua autonomia sotto la pressione della Cina.
La rigida Legge sulla sicurezza nazionale, in tal senso è esemplare.
E costituisce la pesante cornice di un contrasto politico, di portata globale, dove la revoca dello statuto speciale da parte degli Usa, le proteste, gli scontri e gli arresti, rappresentano i colpi bassi che demoliscono i privilegi di cui Hong Kong ha potuto beneficiare distinguendosi dal resto della Cina continentale.
Libertà di espressione, elezioni governative locali e un apparato giudiziario autonomo, simbolo della particolare identità di Hong Kong, sono i temi di cui si anima l’acceso dibattito seguito all’introduzione della Legge.
Contrasti cruciali che vedono contrapporsi: da una parte l’atteggiamento accomodante di alcuni leader locali e dirigenti del PCC nominati a capo di agenzie di intelligence dai poteri illimitati; dall’altra le voci di protesta degli attivisti di spicco tra i quali, oltre a Joshua Wong e Agnes Chow, entrambi fondatori dirigenti del partito politico Demosisto, anche l’ex presidente dell’associazione studentesca Althea Suen insieme ad altri politici e parlamentari pro-indipendenza animati dal malcontento sociale. Questi, a più riprese, già fermati, incriminati per “assemblea illegale” e poi rilasciati.
Per Hong Kong e i suoi 7,5 milioni di residenti “in preda al panico” tanto più si rivela come un’insidiosa spada di Damocle a presidio delle mire autoritarie, di monitoraggio e di sorveglianza pubblica perseguite dal Paese del Dragone.
“Il fatto che le autorità cinesi abbiano ora approvato questa legge senza che il popolo di Hong Kong potesse essere in grado di esaminarla ti dice molto sulle loro intenzioni. Il loro obiettivo è governare Hong Kong attraverso la paura da questo punto in poi”, ha dichiarato Joshua Rosenzweig a capo del team cinese di Amnesty International al New York Times.
Ma la gara di forza tra manifestanti e Cina, “ha definitivamente superato gli argini del contrasto politico interno” al punto da travolgere anche le aziende tech occidentali, i cui servizi digitali, già aspramente assediati dai vincoli severi prescritti dalla Cybersecurity Law del 2016, entrata in vigore a fine 2018, come dal rigore imposto dal “Great Firewall”, subiscono una repentina svolta ulteriormente impositiva e difficilmente conciliabile con i caratteri primari richiesti dai diritti umani oltre che con i rispettivi interessi economici.
Conclusioni
Uno sguardo d’insieme del livello di complessità del provvedimento consente di apprenderne gli aspetti più problematici e preoccupanti, oltre che l’estrema severità dello stesso.
A cominciare dalle ambiguità e dalla vaghezza che caratterizzano gli illeciti introdotti, molti dei quali di natura penale. La poca chiarezza inevitabilmente favorirà l’interpretazione libera dei magistrati, che in occasione dei processi per i reati contemplati dalla nuova legge saranno peraltro direttamente nominati da Pechino.
Ciò, unitamente ai poteri illimitati attribuiti all’Ufficio di sicurezza nazionale e al dipartimento di polizia, alla possibilità che i processi siano tenuti senza giuria e al grave indebolimento del potere delle corti indipendenti di Hong Kong, contribuirà non poco ad incrementare l’ingerenza sempre maggiore del governo centrale sull’ex colonia britannica.
Il tutto è peraltro amplificato dalla portata extra-territoriale del provvedimento.
Non da meno il tenore dell‘art 43 della Legge, la principale causa dei turbamenti che stanno investendo i CdA delle piattaforme digitali. E nei confronti dei quali, come sempre, il tempo dirà se a prevalere sarà la rettitudine o il denaro. Non a caso Hong Kong rappresenta la settima area commerciale del mondo e Pechino ne ha già ampiamente intuito le ulteriori potenzialità ed il ruolo strategico.