La decisione di Google, che ha revocato le proprie licenze Android al produttore cinese Huawei, in adempimento all’ordine esecutivo del Presidente Trump, è solo la punta dell’iceberg per l’azienda di Shenzen, che potrebbe presto trovarsi senza chip (Intel, Qualcomm, AMD), senza sistema operativo per i suoi personal computer (Microsoft) e senza commesse negli Stati Uniti.
Ma la sensazione condivisa dagli esperti è che siamo alle prime schermaglie di una sorta di “guerra fredda tecnologica” (come definita da molti) ad ampio raggio. E, come per tutte le guerre, i danni rischiano di essere da entrambe le parti.
Intanto, ricordiamo che la controparte qui non è semplicemente Huawei, ma la Cina, contro cui già pesano i nuovi dazi USA. E che, per restare in campo tecnologico, adesso rivela il suo tallone d’Achille: la dipendenza da chip americani per le proprie industrie. Chip che stanno diventando indisponibili per effetto della guerra commerciale.
D’altra parte, la mossa presto ritorcersi contro Google e gli USA, portando alla creazione di un sistema operativo “made in China” e allontanando sempre di più il già isolato (dietro storico firewall internet e iper protezionistico) mercato tecnologico cinese dal resto del mondo. I massimi esponenti del governo cinese hanno inoltre già evocato la possibilità di una ritorsione chiudendo i bocchettoni alla fornitura di “terre rare” all’Occidente, quel gruppo di 17 elementi chimici di cui la Cina abbonda e che sono fondamentali per molti dispositivi tecnologici (come gli stessi smartphone).
Una industria tecnologica strangolata da una parte dalla carenza di chip e dall’altra di terre rare è destinata a soffocare. E a portare a danni economici (e di posti di lavoro) da entrambe le parti della barricata. Già: proprio come in una guerra.
Cosa vuol dire essere nella “blacklist”
Va esaminato innanzitutto il perché si sia arrivati ad una simile decisione.
Tutto inizia con un fenomeno giuridico difficile da comprendere per noi europei, ovvero l’enorme estensione delle conseguenze previste dall’ordinamento americano come conseguenza all’inserimento di un soggetto in una “blacklist”.
Il fatto è che l’inserimento di un cittadino, di un’azienda o di una nazione in una “blacklist” statunitense, infatti, comporta pesanti conseguenze per chiunque faccia affari con quel cittadino, quell’azienda o quella nazione.
Un esempio lampante di questo fenomeno si è visto negli scorsi mondiali di calcio, con il difensore Rafael Marquez, in forza alla nazionale messicana, che era stato inserito nella blacklist americana del Ministero del Tesoro (in quanto una società da lui partecipata era sospettata di aver riciclato denaro sporco). Le paradossali conseguenze di questo suo inserimento nella blacklist si sono viste in campo e fuori, con il giocatore che non poteva indossare le maglie da allenamento dei compagni (sponsorizzate da un’azienda americana), che non poteva essere nominato uomo partita (riconoscimento “brandizzato” Budweiser) e che non poteva nemmeno essere pagato (tramite i canali standard utilizzati dalla FIFA) per la propria partecipazione.
Alla luce dello sfortunato esempio di Rafael Marquez possiamo già intravedere le nefaste conseguenze per il business di Huawei negli Usa, ma non solo.
Anche i problemi di Huawei nascono infatti, a loro volta, da una blacklist statunitense, quella che impone sanzioni all’Iran (creata in forza dell’International Emergency Economic Powers Act – IEEPA) e pone severe restrizioni non solo alle compagnie statunitensi che fanno affari con l’Iran, ma anche alle compagnie straniere che fanno affari con l’Iran, se queste vogliono commerciare anche con gli Stati Uniti.
Secondo gli Stati Uniti Huawei avrebbe commerciato con aziende iraniane ed avrebbe nascosto questa circostanza per poter fare affari anche negli Stati Uniti, per questo motivo lo scorso dicembre è stata arrestata a Vancouver Meng Wanzhou, figlia del fondatore di Huawei nonché C.F.O. dell’azienda creata dal padre.
L’ordine esecutivo del 15 maggio
A seguito di questo avvenimento, che ha ulteriormente compromesso i delicati rapporti fra Stati Uniti e Cina, arriva direttamente dalla Presidenza degli Stati Uniti un nuovo colpo alla compagnia cinese, che ad oggi è il secondo produttore di smartphone del mondo dietro a Samsung.
A dire il vero, l’ordine esecutivo diramato da Trump non fa alcun riferimento a Huawei o alla Cina, ma parla genericamente dei rischi che comporta una divulgazione non regolamentata delle tecnologie americane e delle intromissioni straniere nelle infrastrutture tecnologiche americane.
Il destinatario del messaggio è però chiaro ed infatti, quello stesso giorno, il Dipartimento del Commercio Usa ha inserito Huawei e 68 delle sue “affiliate” nella lista delle cosiddette “Entities of National Security Concern”, facendo leva sulla presunta violazione dell’embargo con l’Iran da parte della compagnia cinese, con la conseguenza che:
“The sale or transfer of American technology to a company or person on the Entity List requires a license issued by the Bureau of Industry and Security, and a license may be denied if the sale or transfer would harm U.S. national security or foreign policy interests. The listing will be effective when published in the Federal Register.”
Nessuno può quindi vendere o trasferire tecnologie USA a Huawei senza un’apposita autorizzazione.
Il 20 maggio il Dipartimento di Commercio dirama una limitata eccezione al bando, in vigore fino al 19 agosto, per consentire il funzionamento degli smartphone Huawei fino a quando i provider telefonici statunitensi non decideranno come intervenire e il funzionamento delle reti Huawei fino a quando
Le complicate relazioni di Huawei con gli Stati Uniti iniziano quindi con una blacklist (quella che include l’Iran) e finiscono con una blacklist, che stavolta coinvolge direttamente la compagnia cinese.
Le conseguenze del bando
Che cosa vuol dire in termini pratici l’inserimento nella lista delle “Entities of National Security Concern” per Huawei?
Di fatto le conseguenze comportano non solo la chiusura del mercato statunitense per Huawei, ma il fatto che questa non potrà più ricevere commesse né ottenere forniture da società statunitensi.
La portata del bando va però oltre e comporta usualmente la diffidenza di altre compagnie (non statunitensi) nel commerciare con l’azienda in blacklist, per il timore di essere inclusi nella lista degli “affiliati” del colosso cinese.
In un settore estremamente interconnesso come quello tecnologico si tratta di una scelta di impatto esiziale che potrebbe mettere in ginocchio Huawei… o potrebbe spingerla a cercare nuove soluzioni in Cina, dove di fatto tutte le componenti hardware sono prodotte e quindi facilmente accessibili, e dove da tempo si sente la necessità di un software globale che sia sinocentrico.
L’iniziativa di Google
La prima compagnia americana a portare conseguenze tangibili al bando è stata Google, che ha in Huawei uno dei suoi partner strategici più importanti ma che, suo malgrado, ha dovuto adeguarsi alle decisioni governative.
Google ha quindi sospeso le licenze del proprio sistema operativo Android in favore di Huawei.
Per capire di cosa stiamo parlando bisogna aver presente che Android nasce come progetto open source (Android Open Source Project), che chiunque può liberamente utilizzare e/o sviluppare senza pagare fee a Google. Questa licenza non può quindi essere incisa dal bando.
Google però di solito vende il software Android in bundle con il proprio pacchetto di applicazioni, che comprende l’essenziale Play Store che, con oltre 3.3 milioni di applicazioni disponibili, è il più grande canale di distribuzione per applicativi smartphone, nonché le ulteriori applicazioni proprietarie Google Maps, Youtube, etc..
Queste “versioni” del software Android, concesse su licenza, non potranno più essere utilizzate da Huawei.
La fetta principale del mercato smartphone Huawei non verrà però toccata da questa evoluzione, in Cina, infatti, le distribuzioni Google in uso sono tutte nella loro versione AOSP. Nella Repubblica Popolare, infatti, i servizi Google non sono disponibili e per questo motivo i produttori cinesi hanno sviluppato, sulla versione “base” Android, degli store proprietari o di terze parti (prima fra tutte Tencent, che con MyApp copre il 25% del mercato delle app Android nel paese).
Con il bando invece Google rinuncia ad una significativa fetta di guadagni, non potendo più vendere le proprie licenze ad uno dei suoi partner principali.
Le conseguenze per gli utenti
Le conseguenze per gli utenti Huawei non dovrebbero essere così incisive, almeno nel breve periodo.
Le unità già pronte per la vendita degli smartphone Huawei verranno infatti proposte con la suite Google completa e i telefoni in uso agli utenti continueranno a funzionare come hanno sempre fatto.
Maggiori problemi potrebbero sorgere nel caso in cui il bando dovesse protrarsi per lungo tempo, con Huawei che sarebbe chiamata al difficile compito di ottimizzare, senza il supporto Google su cui finora ha sempre fatto affidamento, i propri dispositivi alle nuove release di Android.
Rimane un’incognita anche il destino delle varie applicazioni Huawei inserite nel Play Store di Google, specie quando l’azienda vorrà aggiornarle alla release successiva.
È chiaro che il problema più grave, per Huawei, sarà decidere che software inserire sui modelli ancora da produrre, se puntare sulla release open source di Android o su un software proprietario, due soluzioni che finora non hanno dato buoni frutti.
L’azienda stava lavorando ad un ambizioso progetto di smartphone pieghevole, che ha visto impegnate fianco a fianco Huawei e Google per l’ottimizzazione del software a questa innovativa categoria di dispositivi, non è chiaro ora cosa succederà al dispositivo che, come gli altri modelli in corso di realizzazione, era progettato per ospitare la versione “completa” di Android.
Gli Usa e la gestione della guerra commerciale con la Cina
Se nel breve periodo la scelta statunitense potrebbe mettere in seria difficoltà Huawei, non è detto però che a lungo termine una simile decisione non possa avere ripercussioni positive per il colosso cinese e per la Cina che, come detto, non vede l’ora di ottenere un software che rinunci anche al di fuori della Repubblica Popolare ai servizi a pagamento di Google.
Questa inedita iniziativa del governo degli Stati Uniti potrebbe quindi essere un ulteriore tassello verso l’isolamento tecnologico della Cina, che finora ha confinato un quinto della popolazione mondiale in una realtà senza Google, Youtube, Facebook, Twitter e, di recente, anche Wikipedia; e che presto potrebbe rinunciare anche ad Android e forse (se la Cina dovesse decidere di ripagare gli americani con la stessa moneta) ad IOS.
Non resta che auspicare che presto arrivi una riconciliazione, augurandoci che l’America ottenga, in cambio del “cessate il fuoco”, una normalizzazione informatica della Repubblica Popolare, che incrini almeno in parte il Grande Firewall che la separa dal resto del mondo e che continua a drogare il web cinese di anacronistiche censure.
Il problema è che gli Stati Uniti non sembrano avere le idee chiare su come gestire la guerra commerciale con la Cina, caratterizzata finora da ostentati atti di forza senza un filo conduttore né un apparente progetto a lungo termine.
Dal canto suo anche il gigante asiatico è sembrato finora disorientato dalle iniziative americane e incapace di reagire con decisione, preferendo isolarsi sempre di più dai partner occidentali, che guarda con sempre maggior diffidenza.
Una soluzione, quindi, potrebbe non essere così vicina come si augurano in molti, specie l’Europa, relegata al ruolo di spettatore in questo scontro fra superpotenze e colossi del web che la vede ai margini del mercato, trovandosi a subire le conseguenze di decisioni prese sull’asse del Pacifico.
La peggiore guerra fredda
Di fondo, questa nuova guerra fredda potrebbe avere danni più gravi rispetto a quella precedente, almeno sotto il profilo economico-commerciale (di quello militare per fortuna è presto parlare).
Perché siamo ormai in una economia molto interconnessa (e complessa) e la Cina è da decenni parte integrante, come dimostra – nell’ambito tecnologico – l’interdipendenza reciproca per import-export di chip e terre rare (scambio su cui si regge sia la possibilità di produrre tecnologia sia la sussistenza di aziende che la vendono; chip americani ad aziende cinesi e smartphone o reti cinesi all’Occidente).
La speranza – proprio come in tutte le guerre – è che la ragione alla fine tra le parti prevarrà, per il bene reciproco. E di tutti noi che vi assistiamo impotenti.