Il caso che vede contrapposti l’imprenditrice e influencer Chiara Ferragni e il marito, il rapper Fedez, contro i politici che osteggiano il voto in aula del DDL Zan, il disegno di legge contro l’omotransfobia, ha fatto salire agli onori della cronaca il ruolo in piena evoluzione degli influencer non solo nella società, ma anche nell’economia.
Che belli i musei con Chiara Ferragni e su TikTok: ecco perché
Chiara Ferragni è un’imprenditrice, nota sui social media per il suo account Instagram da 24,2 milioni di follower (erano 21 milioni a fine ottobre 2020), che in passato ha abbracciato la causa di Black Lives Matter e oggi il ruolo delle donne nel mondo imprenditoriale. La sua ascesa è iniziata all’epoca della blogosfera, quando postava i suoi outfit sul suo blog “The Blonde Salad”, per poi acquisire popolarità seguendo l’onda crescente dei social media, prima con un account su Facebook, poi su Instagram e TikTok. Solo un anno fa gli Uffizi hanno misurato l’effetto influencer di Ferragni, dopo che l’imprenditrice, invitata nel 2017 a tenere una lezione ad Harvard, ha pubblicato le Stories e i post con il suo selfie davanti alla Venere del Botticelli, scatenando l’indignazione dei benpensanti. Il direttore degli Uffizi, il rigoroso tedesco Eike Schmidt, che l’ha anche accompagnata nel ruolo insolito di illustre guida, parlò di un autentico boom di visitatori in Galleria. Un rialzo del 24% rispetto al fine settimana precedente, di cui +27% di giovani. Segno che, come i brand del fashion già sanno da anni (e che misurano in termine di vendite di capi d’abbigliamento, borse e accessori), il virtuale tracima nel reale.
L’influencer economy raccoglie audience e denaro vero. E ciò crea vera competizione fra i creator. Neanche celebrity come Chiara Ferragni possono riposarsi sugli allori, ma devono continuamente inventare nuove opportunità di business, rimanendo al tempo stesso sulla breccia con le loro prese di posizione mediatiche. Anchartiere in questo contesto va dunque letta la contrapposizione dei Ferragnez (la coppia Ferragni-Fedez) contro i politici che non vogliono approvare il DDL Zan così com’è. Perché, nel mondo dei social, chi si ferma sembra perduto.
Il ruolo sociale degli influencer
Il ruolo sociale degli influencer sta evolvendo, mentre aumenta, in modo corrispondente, il grado di responsabilità sociale che essi assumono e interpretano, e ciò a causa di due fattori: il primo è generazionale, e ha a che fare con la maggiore sensibilità ai temi sociali dei più giovani (sia creator che pubblico); il secondo s’intreccia con le dinamiche di engagement online che, attorno ai temi sensibili, come quello della body positivity o dei diritti delle minoranze (il tema della diversity), ha visto negli ultimi anni crescere cluster di affinità di utenti e (ri)posizionarsi tematicamente gli influencer.
Oggi noi vediamo soprattutto il lato mediatico di queste dinamiche e le narrazioni che i media costruiscono a tal proposito, come quella dei Ferragnez contro i politici. Ma questa è solo la punta dell’iceberg di una più generalizzata sensibilità verso temi sociali che gli influencer mostrano di percepire e che sono capaci di restituire dandogli una forma e un linguaggio pubblico che le audience connesse possono abbracciare e condividere, farlo proprio e rigiocare in ambito identitario all’interno delle proprie reti.
Il caso del DDL Zan
Con l’inasprirsi del dibattito parlamentare sul DDL Zan, non ci troviamo solo di fronte a prese di posizione di alcune celebrità del mondo web, ma – come ha osservato l’analista della rete Vincenzo Cosenza – siamo di fronte ad “un sentire diffuso, seppur minoritario, che coinvolge anche influencer con audience meno ampie”.
Perché, in effetti, i micro e meso influencer hanno a che fare con pubblici sicuramente più di nicchia rispetto alle celebrity “à la Ferragni”, ma hanno audience più motivate, focalizzate e spesso più connesse, capaci quindi di propagare le sensibilità tematiche non solo come un’onda improvvisa e che si spegne (come un trending topic), ma che continua a propagarsi come una marea che può crescere invadendo anche territori meno visibili al grande pubblico, ai politici e ai giornalisti.
Nel caso del DDL Zan sono stati contati 12mila post di influencer nei primi sei mesi dell’anno, che avrebbero raggiunto 5 milioni di persone. Il messaggio diventa più penetrante, come se pullulasse un reticolo di tendenze persistenti che poi si affermano come tema imprescindibile.
Questi meccanismi sono sempre stati presenti online, ma forse oggi la capacità degli influencer si intreccia con gli interessi economici delle piattaforme che, in ottica neoliberale, sfruttano la capacità di attivare e riferirsi alle sensibilità sociali come uno strumento di crescita.
La professoressa Flavia Marzano, esperta di open source, ma anche di partecipazione democratica, interpellata da chi scrive, ha dichiarato: “In democrazia chiunque ha diritto di esprimere le proprie opinioni sia chi ha più ascolto, sia chi non è ascoltato. Il problema non è degli influencer, ma degli ‘influenced’ che devono imparare a decidere sulla base dei dati e non delle opinioni altrui. Ciò non toglie che chi ha più ascolto ha maggiore responsabilità nella comunicazione delle proprie opinioni e questo non vale solo per gli influencer, ma anche per i politici e i giornalisti”.
Influencer economy
Il giro economico degli influencer si tocca con mano. L’influencer economy fattura tanto e le startup del settore, come Combo, hanno risvegliato l’interesse nei social media da parte dei venture capitalist. Si definiscono creators quelle persone che sanno cogliere le tendenze, dallo street wear all’universo del lusso, e costruire audience online, capitalizzando i numeri da capogiro dei propri follower. Anche i big della Silicon Valley vedono nei creators una vena della miniera d’oro della rete: la prossima grande onda da surfare per fare soldi.
La creator economy, che fornisce strumenti digitali agli influencer e li aiuta a promuovere il loro business, facendo aumentare il giro d’affari, è ancora in parte inesplorata. Per una Chiara Ferragni che entra nel board di Tod’s, provocando subito un rialzo del 14% del titolo, c’è tutta un’economia che può ancora emergere. Eccola in cifre: SignalFire stima che 50 milioni di persone nel mondo si considerano creatori di contenuti, mentre secondo il sito The Information le aziende di venture capital hanno investito 2 miliardi di dollari nelle 50 startup creator-centriche solo quest’anno.
Ciò che ai benpensanti sembra un business frivolo, fondato sulla vanità, viene legittimato dall’interesse febbrile dei venture capitalist molto di più di un fenomeno effimero giovanile, fatto di balletti, chat e gag esilaranti.
Content creator e venture capitalist della Silicon Valley
La Silicon Valley non è tanto interessata a investire direttamente, quanto invece a vendere gli strumenti digitali e piattaforme utili ai nano e micro influencer per emergere ed entrare nella cerchia di macro influencer e delle celebrity (come Ferragni). In questo contesto, la startup Pietra ha ricevuto un investimento di 15 milioni di dollari, mentre ha ottenuto 16 milioni di dollari PearPop, piattaforma dedicata ai creatori capaci di monetizzare le collaboration e le interazioni social; Stir, la piattaforma che aiuta i creator a gestire come si fanno i soldi, è stata valutata da Andreessen Horowitz, uno dei pionieri del venture, alla soglia dei 100 milioni di dollari, mentre supera quota 4 miliardi di dollari Clubhouse, il social audio ad invito (5.3 milioni di download solo nelle prime due settimane di giugno, dopo il debutto a maggio dell’app Android), che Spotify cerca di sfidare con Greenroom, frutto dell’acquisizione di Locker Room.
I social media degli esordi erano piattaforme per ritrovare vecchi amici e farsene di nuovi, invece le nuove piattaforme sono un trampolino di lancio.
I servizi in abbonamento OnlyFans e Patreon, dove i fan pagano i creator per accedere a contenuti premium, hanno aiutato gli investitori a intuire le potenzialità del business di realizzare tool per creator, anche se, ormai, esistono più startup focalizzate su questi strumenti di quanti siano i veri Content creator.
In conclusione
Un ruolo crescente, una influenza più forte sul dibattito pubblico (public discorse dicono negli Usa), quindi; ma anche una crescente micro (macro?) economia correlata. La crescita dell’importanza degli influencer si connette strettamente alla crescita non solo dei media digitali e ma anche della rilevanza e business delle nuove piattaforme. Non sappiamo come il fenomeno evolverà; ma ciò che è certo è che le aziende digitali sono già pronte a catalizzarlo per tramutarlo in soldi.