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Che belli i musei con Chiara Ferragni e su TikTok: ecco perché

I social e il digitale non possono sostituire l’intera complessità dell’ecosistema museale, ma consentono di sperimentare un differente linguaggio, veloce, semplice e diretto per fare arrivare i propri contenuti ad un pubblico nuovo. Usarli non è peccato, senza dimenticare che sono le persone che sostengono la cultura

Pubblicato il 27 Lug 2020

Fabio Fornasari

architetto, museologo e Membro ICOM

cultura digitale tour virtuali

Dicono tanto, a chi vuole ascoltare con mente libera, i due recenti episodi che coinvolgono la Galleria degli Uffizi con i video di TikTok e le immagini di Chiara Ferragni.

C’è bisogno che se ne parli, che si parli di museo e c’è bisogno che il pubblico non riprenda a frequentare sono le spiagge ma anche i musei, gli scavi archeologici. Per il tacere delle sale dedicate a qualsiasi forma di spettacolo.

Ce n’è bisogno in relazione a chi ci lavora, o ci lavorava, al suo interno e al suo intorno. Come altri settori della nostra società i musei soffrono insieme a chi ne è coinvolto.

Questo dovremmo ricordarlo sempre: i musei non sono solo spazi ma luoghi dove differenti comunità si incrociano, si incontrano e capita pure che si scontrino su come viene veicolata l’esperienza dei suoi spazi e delle sue collezioni.

C’è chi ci lavora all’interno, chi ci ha lavorato e ora non ne ha più occasione e ci sono i visitatori e chi partecipa ai laboratori al suo interno. Tutte queste comunità abitano l’ecosistema museo composto delle sue varie manifestazioni materiali e immateriali, reali e virtuali, cartacee e digitali.

I musei nell’era dei social

Con i due casi citati parliamo dell’uso dei social, espressione di una cultura digitale che si allarga anche attraverso l’esperienza dei suoi strumenti.

In questo senso c’è una ricerca in corso che per molti non sempre è espressione di una programmazione o di un piano di comunicazione coordinato, progettato e condiviso da tutti gli organi del museo ma che coglie la palla al balzo, che sperimenta e su questo fa comunque esperienza. Esperienza per chi la pratica e chi poi la discute in rete, su altri social. Ne facciamo esperienza tutti osservando le reazioni che come un fiume in piena fanno scorrere valutazioni che esprimono opinioni e chiariscono i significati, esaminano le motivazioni e affrontano le incoerenze. Ad impegnarsi sono le nostre abilità linguistico-espressive e sociali.

Anche così cresce una cultura digitale che dalle sue origini si dichiara impegnata anche sul fronte dell’auto-apprendimento, dell’auto-correzione e che ridiscute le sue regole di continuo per tendere, si spera, ad una certa idea di qualità (sempre meglio esplicitare questo). È importante non correre il rischio di sostituire all’élite della conservazione museale una nuova élite della comunicazione che non accetta il dialogo.

Il coraggio di essere popolari

“Serve coraggio per innovare anche nella comunicazione”. Lo dice Emilio Casalini in un post condivisibile sulla sua pagina di Facebook.

Lo sappiamo quanto è importante che i musei abbiano comunità dentro e fuori i propri spazi, dentro e fuori gli spazi in rete, nel digitale.

Che sia capace di utilizzare diversi linguaggi per arrivare ai diversi tipi di pubblico che col tempo possono fare di una semplice curiosità un’occasione di crescite attraverso un percorso di studio, anche fuori dai percorsi accademici.

Da un paio di giorni non si parla d’altro: Chiara Ferragni agli Uffizi.

Una catena di eventi: un suo motivo per essere lì, il suo stupore manifesto esposto su Instagram, l’occasione raccolta dal museo postato sul medesimo social e lo “scandalo” che fa infiammare il caso, che lo rende pubblico.

Non entro sulla qualità della comunicazione degli uffici di Eike Schmidt ma sull’opportunità di cogliere l’occasione, che ritengo corretta. Questo gli ha permesso di fare parlare degli uffizi per due volte in un mese, di essere popolari. Essere popolari significa anche essere accessibili a chi non frequenta i Musei “Templi della Cultura”.

TikTok: Come può renderci intelligenti?

Prima del caso Ferragni in presenza davanti alle opere che diventa social, c’è stato lo “scandalo degli Uffizi” su TikTok che ha sollevato feroci critiche al direttore Eike Schmidt.

Per scelta del suo direttore i capolavori della Galleria sono stati utilizzati come influencer per catturare l’attenzioni delle più giovani generazioni che usano questa piattaforma.

Un aspetto importante per il digitale è comprendere che le regole di come usare e di cosa  fare del digitale non si esauriscono con il rispetto delle policy di chi ha sviluppato le piattaforme ma che c’è una dimensione social che riscrive i comportamenti associati alle piattaforme. La fortuna e la sfortuna di una piattaforma è direttamente legata non al solo rispetto delle intenzioni dei progettisti e degli editori ma che possa diventare popolare per milioni di persone e che questi possano assumere comportamenti speciali proprio in quella piattaforma.

Lo stesso comportamento non ha il medesimo valore in un’altra piattaforma.

Per questo anche l’uso di TikTok ci può rendere più intelligenti perché impariamo dai nostri simili a comunicare nel loro linguaggio. Copiamo trasformando e così apprendiamo. Siamo comunque sempre noi a scegliere i contenuti.

Bene ha fatto dal mio punto di vista la Uffizigalleries a sperimentare questo canale social e ad assimilarne il linguaggio conservando la propria mission museale. Non sono i soli a fare questo.

Psicologi, musicisti, persone comuni e anche persone con gravi disabilità espongono il proprio pensiero e si espongono come contenuto della comunicazione.

TikTok nasce per i giovani e i giovanissimo ma è presto diventato il luogo dove sperimentare e sperimentarsi per fare crescere una ricerca innovativa sulla comunicazione. Perché di comunicazione stiamo parlando.

Certo TikTok non può sostituire l’intera complessità dell’ecosistema museale che ci mostra il Rinascimento italiano, ma sicuramente può sperimentare un differente linguaggio, veloce, semplice e diretto per fare arrivare i propri contenuti ad un pubblico che potrebbe non avere le chiavi per accedere ai significati simbolici di quell’arte.

Siamo abituati alla pubblicità che fa delle opere d’arte dei testimonial per manipolare bisogni e desideri. Come il fotoromanzo negli anni cinquanta ha avvicinato le madri d’Italia alla lingua italiana per far crescere i ragazzi con una lingua comune, così oggi il digitale propone i propri strumenti per accelerare la conoscenza della cultura. È più efficace per arrivare a certi pubblici ed è utile per alfabetizzare a contenuti complessi, difficili.

È già accaduto: non si spiegherebbe il successo dei video giochi che già dagli anni novanta coinvolgono i musei del mondo e che oggi sono pratica diffusa planetaria. Ne è testimone Cinecittà con l’evento VideoGameLab.

Il digitale mette la ricerca nell’ecosistema museale nella posizione di poter essere aperta e condivisa.

Quella che è accaduta con la pandemia è una grande prova generale che a mio avviso lascerà anche tracce positive: abbiamo osservato e imparato che per fare bene le cose servono persone, strategie, risorse e le comunità che ci sostengono.

Lo sapevamo già ma mai come in questo periodo lo abbiamo misurato sulla pelle di tutti noi, contemporaneamente. Questa cosa si chiama esperienza e sicuramente ne faremo tesoro. Lo dobbiamo a chi ha pagato le conseguenze con la propria vita.

Digitale

Potremmo dire che la dimensione elettronica del nostro abitare il mondo ci ha salvati? Ci ha sicuramente aiutati a salvarci come persone.

Il digitale ci ha permesso di mantenere in vita i nostri interessi e di continuare ad accrescere la nostra esperienza e la nostra conoscenza intorno al significato che il museo assume nella nostra società.

Il lavoro di oltre venti anni di costruzione del più grande archivio di memoria planetario e la costruzione di tutti i sistemi per governare questa memoriali reperire i dati ci hanno distratto ma ci hanno anche permesso di sopravvivere al tempo.

Lo vediamo con le cose delle nostre case che sono state coinvolte nella nostra vita elettronica che attraverso il digitale si è presentata al mondo.

Abbiamo riscoperto le nostre cose all’interno di una dimensione culturale e non più solo individuale e personale.

Le nostre cose non sono solo più solo la raccolta dei nostri ricordi ma testimonianza dei percorsi di ricerca, le opere appese alle pareti, la nostra esperienza quotidiana dimenticata da mostrare.

Quanta ricercatezza di oggetti e immagini negli sfondi delle nostre dirette.

Il museo si è spesso confuso con le case di chi ci lavora.

Molti musei hanno cercato di essere presenti con differenti risultati.

Parlando con Nicolette Mandarano e con Maria Elena Colombo si può comprendere cosa ha funzionato e cosa non ha funzionato per i musei che si sono lanciati in una comunicazione di natura non solo digitale ma per alcuni virtuale.

Sono entrambe autrici di due saggi molto importanti perché fanno chiarezza su come si deve intendere nel primo caso la comunicazione del museo nel digitale e nel secondo caso un discorso più trasversale tra museo e cultura digitale forte di un vasto numero di casi studio.

Comprendiamo quanto la comunicazione digitale sia veloce ed efficace ma perché sia efficace occorre strategia e professionalità.

La comunicazione digitale chiama la necessità di una coordinazione tra tutti i soggetti che lavorano all’interno e all’esterno del museo e un piano editoriale.

Non occorre una pubblicazione giornaliera ma chiaramente periodica.

Ma la cosa più importante è che non deve tradire gli obiettivi del museo perché non esiste un pubblico fisico e un pubblico virtuale ma una unica realtà organica che forma un ecosistema osmotico della moderna fruizione dei beni culturali.

La cultura digitale si è sviluppata intorno ai suoi strumenti non per sostituire la dimensione reale del museo, ma per affiancare con differenti linguaggi e produrre nuove metafore dell’esperienza museale.

Questo lo hanno fatto anche musei che si sono confrontati anche con gli strumenti più popolari.

Abitare il mondo

È sentire comune che i Musei non sono più i templi della cultura ma sono parte di una continuità che ci tiene tutti uniti in una dimensione relazionale. I Musei sono un modo speciale di “abitare il mondo”, pensati anche per abitarlo poeticamente, nel senso delle emozioni, empaticamente.

Come diceva nella sua ultima intervista per il Corriere della Sera Giulio Giorello, filosofo della scienza, un saltatore di confini, “bisogna recuperare il gusto della pienezza del vivere che comprende anche disagio e problemi”.

Senza troppe ambizioni ma con alcune convinzioni, procedo in questa scrittura mettendo in sequenza alcuni “giallini” raccolti in questo periodo, per orientarmi all’interno dell’accelerazione del cambiamento in corso. Perché è chiaro che non stiamo ri-partendo, ri-aprendo, ri-tornando.

Abbiamo lasciato un mare che non ci piaceva poi tanto e vorremmo almeno che servisse questo naufragare: andare oltre, non ri-entrare.

Confini

Se c’è qualcosa che avremmo dovuto imparare nel tempo è che per quanto ci sforziamo a conservarli e a difenderli, i confini sono sempre più delle regioni dove le cose accadono e non dove le cose si separano e restano separate. Lo sono sempre stato ma mai come ora. Pensiamo alle attenzioni che portano tutti i muri del pianeta rispetto alle aree dove i muri non ci sono.

I confini sono i luoghi liminari d’incontro che fanno emergere le contraddizioni e le contrapposizioni conflittuali decise dal centro. Il centro si celebra come il senso compiuto di una nazione che cerca l’appoggio di una maggioranza sapientemente distratta.

Non è facile dialogare sul senso del mondo. È certamente più facile occuparsi e difendere le proprie opinioni in una sequenza di flame polemici piuttosto che studiare, informarsi pensare a coltivare la relazione e l’apertura verso l’altro per comprenderne il punto di vista, cosa possiamo apprendere da lui.

In questo i musei, per definizione, fanno molto. Intendo nel rispetto della definizione ICOM attualmente vigente. Lo Statuto di ICOM, approvato nell’ambito della ventiduesima General Assembly di ICOM a Vienna, il 24 agosto 2007,  riporta la più recente definizione di museo:

Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto.

La definizione ICOM è stata recepita dalla normativa italiana: il Decreto ministeriale MIBAC 23 dicembre 2014 Organizzazione e funzionamento dei musei statali all’art.1 la riprende integralmentecon una precisazione finale “promuovendone la conoscenza presso il pubblico e la comunità scientifica”.

Non lo fanno da sempre, è storia recente, ma ormai è difficile vedere musei che si prestano all’esotismo e per compiacere un’idea di collezionismo veramente superato; i musei hanno affiancato e poi sostituito un approccio sistemico che li pone al fianco di altre istituzioni di ricerca e delle comunità che le sostengono.

Lo fanno anche apertamente contro le politiche sovraniste che non riconoscono l’idea che la cultura possa essere declinata al plurale.

A livello geopolitico è sotto gli occhi di tutti l’estrema fatica che fanno i governi sovranisti a difendere un’idea granitica di identità nazionale fondata sulla singolarità della cultura. Ma spesso si vede quanto siano di argilla le loro fondamenta.

Nonostante questo lasciano cicatrici profonde tra le persone.

Identità/diversità

Con una certa idea di confine è saltata anche una certa idea di identità, che richiama l’identico, l’uguale e rigetta il dissimile. Questa stortura ha lasciato il posto al riconoscimento della differenza, della diversità.

La cultura si sta evolvendo all’interno di una dimensione globale come dice anche Sabino Cassese, giurista e accademico italiano e giudice emerito della Corte costitizionale:

“La cultura è sempre stata connessa a una nazione, anzi è stata un elemento costitutivo dell’identità di una nazione. Oggi abbiamo un approccio diverso, è vista in una dimensione universale, infatti si parla di ‘culture’ del mondo. Gli storici ad esempio abbandonano le storie nazionali per fare lavori globali. Si diffonde il concetto di una cultura che deve essere aperta alla fruibilità universale. Si impone l’idea di cultura come diritto dell’uomo e che non appartiene solo a un cittadino”.

Cultura

Forse, non abbiamo mai dedicato tanto tempo alla cultura come in questo periodo. Se ne parla da mesi anche e soprattutto in relazione all’occupazione e alle risorse. Una cultura è viva se sopravvive chi ha il compito e la fortuna di farla vivere.

Cultura non è il libro stampato, l’opera appesa o l’installazione intermediale nel museo. È l’intero sistema fatto di persone, processi, metodi, relazioni che legano insieme le persone alle comunità che insistono su un territorio. La cultura è come una costruzione che viene prodotta, riprodotta e trasformata nelle interazioni sociali, sia nella sfera pubblica che in quella privata.

Di questo ci si è occupati parlando di cultura nei numerosi webinar nei quali siamo stati coinvolti. Il museo non parla a un pubblico solo con le collezioni ma con il pensiero che è in grado mettere in moto all’interno di un territorio.

Non vediamo ancora risultati ma le attenzioni rivolte più in generale verso i bisogni sono aumentate e hanno come obiettivo nuovi orizzonti di sviluppo, non il ri-entro nella falsa sicurezza dalla quale siamo partiti.

Sviluppo

Ha fatto anche emergere il senso delle parole che ho spesso sentito dire da Antonio Lampis, dal 2017 Direttore Generale Musei del Mibact di formazione giurista,  sul tema dell’articolo 9 della Costituzione, collocato tra i “Principi fondamentali”.

Antonio Lampis spiega che l’art. 9, della Costituzione italiana, attribuisce alla Repubblica la promozione dello sviluppo della cultura, la promozione della ricerca scientifica e tecnica, la tutela del paesaggio, la tutela del patrimonio storico-artistico della Nazione.

Chiarisce che per sviluppo non si intende la valorizzazione fine a se stessa, la produzione di un accumulo di ricchezza. L’obiettivo è creare risorse per nuovi posti di lavoro, fare e dare spazio alle nuove generazioni perché possano trovare risposta a una formazione spesso troppo lunga senza soddisfazioni.

Dal primo settembre 2020 la direzione Generale dei Musei del Mibact passerà sotto la guida di Massimo Osanna, che per conto del Ministro Franceschini dovrà redigere un piano operativo per il rilancio Post Covid. Ripetendo le sue parole, “dopo un triennio di elaborazione del sistema mussale nazionale i musei sono pronti per entrare nel futuro”. Parla di digitalizzazione del patrimonio, inventario e apertura dei depositi al pubblico. Ma anche valorizzazione delle direzioni dei singoli musei.

Il nostro posto nel mondo

Questa pandemia ci ha consegnato un quesito che non vogliamo comprendere e che sottolinea una nostra dissonanza cognitiva.

Qual’è il nostro ruolo di esseri umani nel mondo al fianco del sistema dei viventi e del pianeta intero? Ce ne siamo preoccupati per qualche settimana.

Molti pensano di esserne usciti ma a ben guardare, se si inseguono le tracce delle pandemia, vediamo quanti virus ci hanno minacciato e ancora lo fanno.

Anche in questo caso si può parlare di superamento dei confini. Sul fronte della biologia abbiamo esperienza di secoli: i virus che ci colpiscono hanno imparato a fare il salto del confine specista. Ma siamo stati noi a dargliene occasione a creare le condizioni perché potesse accadere.

Ecosistemi

Siamo così tornati ai temi enunciati all’inizio di questo percorso.

Abbiamo la sensazione di essere a un punto di svolta: la nostra contemporaneità è stata messa in scacco da una pandemia che ci ha portato a  rivedere il nostro modo di abitare il pianeta.

Il nostro modo di operare nella cultura dovrà confrontarsi con sostenibilità, risorse, equità sociale, occupazione, rispetto e sviluppo verso una valorizzazione del patrimonio culturale e delle persone impiegate e da impiegare, condizioni non possibili ma necessarie per il destino stesso per un museo che intende sopravvivere. Lo sta già facendo.

Sempre più musei nel mondo si occupano di trattare temi sociali: dal confronto tra i generi sempre più liquidi alle culture urbane.

Sradicamento della povertà, stabilizzazione del clima e risanamento degli ecosistemi sono  gli obiettivi che entrano dentro i musei che non si limitano a conservare ma a usare i propri linguaggi per parlare del pianeta nel quale viviamo.

Un esempio tra tutti è quello di humanrights.ca.

Affacciamoci ai ragionamenti di Fritjof Capra e Pier Luigi Luisi che ci parlano della concezione sistemica della vita.

Siamo consapevoli che non vi potrà più essere una crescita illimitata all’interno di un pianeta finito, con risorse limitate e il sistema climatica fuori controllo.

La crescita dei prossimi anni non potrà che essere ferocemente selettiva.

Importante è definire i criteri di qualificazione della crescita non più considerati di natura quantitativa ma aperta a valutazioni di tutti i reali aspetti di creazione e distruzione dei valori implicati in ogni processo.

Petrolio?

L’approccio sistemico-relazionale assume una prospettiva che guarda al mondo in funzione dell’interdipendenza delle parti.

L’interazione umana si “organizza” secondo le modalità con le quali si organizza un sistema. Così il sistema dei musei in relazione alle sue metafore, alle sue presenze nelle varie comunità, digitali, reali, biologiche. La cultura ha bisogno della fotosintesi, del lavoro delle piante sul pianeta per poter sopravvivere.

Ce ne siamo accorti ma faremo presto a dimenticarcene. La cultura non è il nostro petrolio ma lo è l’insieme delle specie in via di estinzione.

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