Il mio recente intervento su Agenda Digitale ha rinfocolato il dibattito sui “nativi digitali” e sul loro uso della tecnologia. Si tratta di un dibattito che fu già molto vivace all’uscita del mio libro Nativi digitali (Bruno Mondadori, 2011). Le questioni oggi sono le stesse. Esistono davvero i “nativi”? Apprendono meglio o peggio con i nuovi media? Il loro modo di usare le tecnologie è legato alla loro età? In particolare con il mio gruppo di ricerca ha cercato di chiarire questo tema nel volume Digital Learning (Cavalli, Ferri, Mangiatordi, Scenini, Pozzali, Ledizioni 2010) di cui trovate una sintesi su Wired on-line.
Ciò che emerge dai nostri dati è chiaro: la coppia oppositiva nativi/immigranti digitali è efficace ed esplicativa, a patto che non si considerino i nativi come una categoria unitaria e non si enfatizzi troppo la faglia tra nativi e immigrati. I nativi sono, infatti, una specie in via di apparizione, all’interno della quale possono essere individuate differenti popolazioni e stili di fruizione delle tecnologie, diversi a seconda dell’età e quindi dell’esposizione più o meno precoce alle tecnologie della comunicazione digitale. Dai dati, riportati anche in Digital Learning, emergono, infatti, tre tipologie differenti di nativi digitali, che segnano la transizione dall’analogico al digitale dei giovani nei paesi sviluppati: A. Nativi digitali puri (tra 0 e 12 anni); B. Millennials (tra 14 e 18 anni); C. Nativi digitali spuri (tra 18 e 25 anni). Solo i primi possono essere considerati “nativi digitali”. Tuttavia la discussione anche alla fine del 2012 rimane viva, come dimostrano i molti post al mio articolo sia su www.agendadigitale.eu sia su Facebook, in particolare all’interno del gruppo Bricks La discussione, vivace e stimolante, si polarizza su alcuni temi che provo a riassumere liberamente riprendendo un posto del 2011sulla community Education 2.0
1. “Non esistono i nativi digitali come ‘generazione’”. L’età non è un discriminante. L’idea di una generazione di nativi è errata perché, cito liberamente i sostenitori di questa posizione, le “differenze tra le generazioni sono molto meno rilevanti di quelle che possono rilevarsi all’interno della stessa generazione ad esempio tra gli “immigranti” o gli stessi “nativi”.
2. “Non ci sono ricerche che ne dimostrino l’esistenza”, argomentano altri. Non ci sono, cioè, sufficienti dati che supportino la tesi dell’emergere di una differenza antropologica tra “nativi” e “immigranti” cioè la contrapposizione tra nativi e immigranti non spiega i “fenomeni” e non è fondata su dati “solidi”.
3. “Il termine ‘nativi digitali’”, dicono ancora altri, “è una generalizzazione indebita”, una fortunata ma pericolosa, metafora, uno slogan di “marketing” che servirebbe a distogliere la discussione dai veri problemi della scuola, che obiettivamente è sotto attacco da più parti.
Le due prime posizioni sono interessanti e meritano una replica approfondita. La terza la affronterò alla fine in maniera un po’ più bonariamente ironica.
CONTRA 1 – I NATIVI DIGITALI ESISTONO E CHIAMARLI NATIVI DIGITALI NON CI ALLONTANA DA LORO
Le prime due tesi trovano il loro fondamento teorico nella critica che Henry Jenkins opera nei confronti del concetto di “digital natives”, introdotto in letteratura da Prensky (M. Prensky, “Digital Natives, Digital Immigrants”, On the Horizon, NCB University Press, vol. 9, n. 5, ottobre 2001). A suo avviso, porre troppa enfasi sulle appartenenze generazionali porta a) a esagerare il divario tra giovani (nativi) e adulti (immigranti digitali) b) a disconoscere i potenziali, rilevanti divari (in termini di accesso, competenze, esperienze culturali, ecc.) tra i nativi stessi. Nel suo testo “Reconsidering Digital Immigrants”, Confessions of an Aca-Fan, 5 dicembre 2007, Jenkins scrive: “Parlare dei giovani come dei nativi digitali implica che esista un mondo all’interno del quale questi ragazzi condividono un insieme di conoscenza che tutti hanno avuto la possibilità di padroneggiare, invece di considerare il mondo online come qualcosa di incerto e poco familiare per tutti noi”. Nonostante il profondo rispetto e l’ammirazione che ho per Jenkins e per i suoi studi (è a cura mia e di Alberto Marinelli l’edizione italiana del suo volume “Culture partecipative e competenze digitali”, Guerini, 2010) mi permetto di dissentire con lui. I “nativi” come dimostra Jenkins stesso, almeno i fortunati che vivono in società sviluppate e “connesse”, hanno una cultura informale specifica e molto diversa dalla nostra nell’uso dei media digitali. E poi perché mai la fortunata metafora euristica di Prensky dovrebbe far dimenticare le tematiche legate al digital divide e ampliare la differenza tra “nativi e immigranti”? Anzi, capire meglio chi sono i nostri figli e studenti e comprendere il loro “naturale innamoramento per la tecnologia” (Papert, “Connected Family”, 1996) non può che aiutarci a comprendere meglio i loro bisogni di apprendimento, di socialità e vita. Il fatto è che anche Jenkins non critica l’esistenza di una “nuova cultura partecipativa dei nativi” né afferma che i “nativi” non siano differenti da noi. Solamente, e al contrario di me, crede che l’uso della fortunata metafora euristica introdotta da Prensky possa portare a una serie fraintendimenti. Il volume di Jenkins tra l’altro è supportato da una accurata ricerca finanziata dalla Fondazione McArthur (Jenkins, 2009), dedicata proprio a comprendere le differenze che caratterizzano l’uso dei media digitali dei nativi e a delineare un nuova forma di “new media education”.
CONTRA 2 – ESISTONO MOLTISSIME RICERCHE AUTOREVOLI SUI NATIVI DIGITALI
La stessa ricerca di Jenkins conferma quanto sia “discutibile” anche la seconda posizione dei detrattori dell’idea che esistano i “nativi digitali”, quella che sostiene come non esistano ricerche che approfondiscano il tema. Oltre a quella già citata, tutte le più prestigiose istituzioni scientifiche e di ricerca internazionali hanno dedicato una grande attenzione al tema dei “nativi”, magari chiamandoli con nomi diversi. Possiamo citare per esempio l’OCSE e la sua ricerca “New Millennium Learners”, un approfondimento di OCSE-PISA che dimostra come l’uso delle tecnologie a casa (più che a scuola) migliori gli apprendimenti e renda più “brillanti” i nostri digital kids (Pedró 2006, 2009, OCDE, 2011), e inoltre il progetto di ricerca “Digital natives” del Berkman Centre for Internet Society di Harvard i cui coordinatori hanno pubblicato il volume “Born Digital. Understanding the first generation of digital natives”. Ancora citiamo Project New Media Literacies (NML), della MacArthur Digital Media and Learning Initiative, il progetto MIT Comparative Media Studies Program, cui ha contribuito lo stesso Jenkins e le numerose ricerche “teen ager nativi USA” del Pew Internet & American Life Project, in particolare la ricerca dedicata ai Millennials, altro nome per definire i nativi, lo stesso Carr nel suo Internet ci rende stupidi (Carr, 2011) porta contro la sua tesi molte prove neuroscientifiche del fatto che i “nativi” sino anche a livello neurale differenti da noi. Dire che non esistano dati e ricerche sul tema è quindi un po’ “incauto”, poi ovviamente i dati e le ricerche vanno interpretati e tutte le interpretazioni fondate sono ammesse.
CONTRA 3 – LA VOLPE E L’UVA Chi argomenta poi che la categoria dei nativi digitali sia una trovata di marketing e una forma di “chiacchiera” pubblicista forse dovrebbe rileggersi una famosa favola popolare codificata da Fedro ed Esopo. Sono, magari, un po’ irritati dal fatto che la potente metafora euristica che mette a confronto “nativi” ed “immigranti” digitali sia stata ideata da Marc Prensky e non da loro? “Una volpe affamata vide dei grappoli d’uva che pendevano da un pergolato e tentò d’afferrarli. Ma non ci riuscì. ‘Robaccia acerba!’, disse allora fra sé e sé; e se ne andò”.
Restano aperte molte domande ma tra queste due: gli insegnanti i genitori e i decisori nel mondo della formazione sono consapevoli e attrezzati a gestire questa rivoluzione antropologica e cognitiva in corso? I politici e i decisori istituzionali sono consapevoli della distanza sempre più grande che separa gli stili di produzione e progettazione dei prodotti dell’industria culturale dai nuovi stili di fruizione dei nativi digitali? La risposta è aperta ma per parafrasare Philip Dick in Ubik “ I nativi digitali sono vivi, noi stiamo… invecchiando”.
(Agendadigitale.eu è aperta a ricevere contributi strutturati che dissentiscono o aggiungono riflessioni a quanto sopra. Li pubblicheremo come articoli. Mandate ad alex@alongo.it)
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