Il Tribunale di Torino ha riconosciuto la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorrente tra rider e Uber Italy, condannando quest’ultima a versare retribuzione e indennità corrispondenti al periodo di lavoro svolto.
Una sentenza sparti-acque per il futuro della gig economy, ma la battaglia non è certo finita: anzi, l’esito è ancora incerto.
La causa torinese
Vediamo il fatto. Dieci rider avevano promosso azione giudiziaria per il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato, con conseguente inquadramento contrattuale, oltre al risarcimento dei danni derivanti da mancato rispetto delle misure minime di sicurezza e de rispetto sulla normativa sul trattamento dei dati personali.
La domanda principale è stata accolta: i rider erano lavoratori subordinati a tutti gli effetti e, quindi, è stata loro riconosciuta la corrispondente retribuzione, oltre alle indennità previste dalla legge.
Rigettate invece le domande risarcitorie per la mancata adozione delle misure di sicurezza e per la violazione della privacy.
La prima riguardava la mancata dotazione di strumenti di protezione, come casco, gomitiere e ginocchiere.
La violazione della normativa sul trattamento dei dati personali invece, atteneva, con ogni probabilità, al tracciamento delle corse e alla valutazione sui tempi di consegna.
La vicenda nel contesto del caporalato digitale
La causa di Torino, oltre ad aprire un filone di giurisprudenziale rilevante (sarebbero circa 800 le persone potenzialmente coinvolte), si innesta nel più complicato contesto del caporalato digitale, definito così solo perché il terminale dell’operatività delle aziende sfruttatrici era una app.
A ottobre è stata emessa la prima sentenza di condanna con rito abbreviato dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Milano: 3 anni e otto mesi di reclusione a uno dei responsabili delle società di intermediazione coinvolte nell’inchiesta “Uber” per il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
Il processo milanese coinvolge molti soggetti, alcuni dei quali hanno definito la propria posizione con applicazione della pena su richiesta delle parti – hanno, cioè, “patteggiato” la pena.
I dirigenti di Uber Italy, invece, hanno preferito essere giudicati al dibattimento: in quella sede, saranno sentiti molti testimoni e a vicenda, nel suo insieme, potrà essere “raccontata” in modo compiuto nelle aule giudiziarie.
La questione, comunque, ha ormai connotati chiari: lavoratori pagati a cottimo, tre euro a consegna, senza tutela, senza orari, con reperibilità continua e con trattamenti degradanti consentiti dalla marginalità sociale dei lavoratori e dalla necessità di un lavoro per mantenersi.
In altri termini, brutale sfruttamento, per utilizzare una terminologia anni 70’.
Le prospettive
Premesso che il processo delle posizioni principali a Milano deve ancora essere svolto e che, comunque, una sentenza di primo grado può essere ribaltata molte volte dalla Corte d’appello e dalla Cassazione, il tema “generale” è l’inquadramento dei ciclofattorini come lavoratori dipendenti.
Sarà dirimente, per esempio, l’esito dell’azione collettiva proposta dalla CGIL contro il contratto collettivo siglato dall’UGL e da Assodelivey.
Al di là dell’annuncio – la prima class action in materia di lavoro – si dovrà capire se l’azione proposta ha effettivamente la finalità di arrivare a un riconoscimento di diritti dovuti o se non sia, piuttosto, un’azione volta a rivendicare il ruolo di un sindacato contro un’altra sigla.
Conclusioni
Il riconoscimento della natura subordinata del lavoro dei dieci rider torinesi aprirà una nuova stagione di contenziosi delle sezioni lavoro dei tribunali italiani.
La consegna a domicilio, business florido in epoca pandemica, ha dimostrato di essere il terreno fertile per le nuove forme di sfruttamento.
Il problema della gig economy – così come della sharing economy – è che la digitalizzazione è mera apparenza, perché si tratta di economia reale che “cammina” sulle gambe delle persone che la fanno girare.
Il dato di fatto è che, come molte “novità” sul piano economico, si sconta la vecchia massima per cui i fatti hanno la testa dura.
E in Italia, i fatti che riguardano temi sensibili sul piano economico sono lasciati alla regolamentazione per via giudiziaria, per la debolezza del legislatore nell’affrontare temi che impattano su una fascia o sull’altra dell’elettorato.