l'analisi giuridica

I rider vanno assunti? Quale contratto, tra indagini e decreti

Legislatore e giurisprudenza giungono a conclusioni contraddittorie su come vadano trattati i rider. Si sa per certo solo che non sono lavoratori autonomi tout court; forse non sono nemmeno co.co.co.. Ma non sanno ancora cosa sono con certezza. Ecco perché

Pubblicato il 02 Mar 2021

Alessia Consiglio

avvocato, diritto sul lavoro digitale

Rider contratto

E’ notizia recente il termine dell’inchiesta su UberEats in cui il PM milanese ha stabilito, con un’esternazione non poco caustica come i fattorini “non sono schiavi e vanno assunti”.

Se da un lato, potremmo dire nihil sub sole novum(V. P. Iervolino), dall’altro è anche vero che la maxi indagine è balzata agli onori di cronaca per le sue anche maxi sanzioni: 733 milioni di euro per le principali aziende di food-delivery che operano in Italia.

E non solo: ad avviso della procura, 60.000 ciclo-fattorini dovranno essere assunti.

Ma con quale tipologia di contratto? Quale elemento aggiunge, dunque, la chiusura delle indagini di cui sopra all’incerto panorama qualificatorio dei riders?

La sentenza di Cassazione del 2020

Facciamo un passo indietro. Era il 24 gennaio 2020, n. 1663, poco più di un anno fa, quando la Cassazione, per la prima volta, si è espressa in tema di gig economy qualificando i riders come collaboratori “etero-organizzati” ai sensi dell’art. 2, D.Lgs. n. 81/2015 chiarendo che, in tal caso, la disciplina del lavoro subordinato andasse applicata interamente. Una pronuncia fondamentale che, allo stesso tempo, ha deciso di sottrarsi – forse un po’ pavidamente -al dibattito teorico sull’assegnazione, nella dicotomia tradizionale tra subordinazione e autonomia, del rapporto di lavoro etero-organizzato ex art. 2, D.Lgs. 81/2015. Questa scelta era sorretta, secondo la Corte, dalle finalità anti-elusive dell’art. 2, che estende le regole del lavoro subordinato a soggetti economicamente deboli.

La Cassazione, infatti ha, sì, corretto la sentenza App. torinese che aveva caratterizzato un “tertium genus”, ma non ha espresso una posizione definitiva circa le qualità tipologiche del rapporto in esame.

Certo, sul piano definitorio, è impossibile tacere, come è stato più volte maliziosamente fatto, che i lavoratori coinvolti avevano rinunciato a proporre ricorso contro la parte della sentenza che aveva escluso che la presenza di una vera e propria subordinazione ai sensi dell’art. 2094 c.c.. La questione non è, quindi, stata affrontata più dalla sentenza.

Sentenza di Palermo del 2020

E’ in questo panorama che si è inserita qualche mese più tardi, la sentenza del Tribunale di Palermo del 24 novembre 2020, n. 3570. Il Tribunale siciliano ha dichiarato che tra il rider e l’azienda di food delivery in esame “intercorre un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, con mansioni di ciclofattorino di cui al VI livello del CCNL Terziario, Distribuzione e servizi pacificamente applicato dalla convenuta ai propri dipendenti”.

Non poteva non suscitare larga eco la prima sentenza italiana che ha qualificato il rapporto di lavoro di un ciclo-fattorino addetto alla consegna a domicilio, come un lavoratore subordinato. La controversia riguardava, infatti, il rapporto, formalmente assunto in un contratto d’opera, tra la società che opera in Italia sotto il marchio Glovo ed un suo fattorino. Ecco che il Tribunale di Palermo, per la prima volta, saggiando effettivamente le qualità della prestazione resa dai fattori nonché le concrete modalità di svolgimento è giunto all’unica soluzione riscontrabile: nei rapporti di lavoro on demand della gig economy sussistono gli estremi di una vera e propria subordinazione. (Non solo: la pronuncia si ricorda anche per aver disposto la reintegrazione del rider, parificando la disconnessione e la mancata riattivazione dell’account a un licenziamento orale e per fatti concludenti).

E’, dunque, il Tribunale di lavoro di Palermo che ha svelato, quale apripista nella giurisprudenza italiana, come si tratti di una libertà più teorica che effettiva, quella dei fattorini.

La scelta dei riders di collocarsi nei diversi turni disponibili è fortemente ridimensionata dal punteggio di eccellenza che ogni singolo lavoratore deve capitalizzare a fine turno. Punteggio calcolato su una serie di criteri che includono non solo la valutazione ricevuta dai clienti che ricevono il prodotto ordinato e dai ristoranti che lo preparano, ma anche la quantità di lavoro effettuato nei momenti di maggiore flusso (quella che è stata definita come “alta domanda”). Questo implica un dato di rilievo: i riders “eccellenti” scelgono prima i migliori turni, i meno eccellenti, dopo.

Tribunale di Bologna, 2020

Quello che, dunque, viene pubblicizzato come un sistema apparentemente virtuoso in grado di garantire la nota efficienza del servizio di consegna via piattaforma digitale, viene così svelato come un meccanismo piuttosto discriminatorio (si veda, al riguardo, la cardinale pronuncia del Tribunale di Bologna, 31 dicembre 2020) in grado di calibrare le prestazioni dei fattorini in base al loro ranking di voto, con meccanismi assolutamente illegittimi.

Sono proprio i ciclo-fattorini a subire il dispositivo di votazione e punteggio esterno al rapporto di lavoro, delle app: quanto meno si è disponibili a sottostare alle rigide regole della piattaforma, tanto meno si potrà scegliere in futuro quando, e addirittura se, prestare la propria attività. Dov’è, dunque, la libertà del prestatore autonomo, tanto millantata dalle piattaforme?

L’algoritmo fa tutto

Anche sotto il profilo del concreto svolgimento del rapporto di lavoro, di natura subordinata, la sentenza descrive in maniera assai efficace la pervasiva presenza dell’algoritmo quale fattore regolatore del rapporto di lavoro, e indice dell’assenza di una qualunque autonomia, nell’attività in esame.

D’altronde, è l’algoritmo che, controllando il posizionamento del rider nell’area di competenza e verificando la carica del cellulare, determina la possibilità di ricevere gli ordini, e dunque distribuisce il lavoro.

È l’algoritmo che organizza il lavoro di consegna, indicando il percorso ottimale (e dunque valido) ai fini del calcolo kilometrico che determina la parte del compenso che si aggiunge a quello previsto per ogni consegna.

È l’algoritmo che controlla il rispetto di tutti gli adempimenti del riders (dal ritiro in loco, alla consegna del prodotto ordinato).

È l’algoritmo, infine, che commina (in maniera diretta e indiretta) quelle che dovremmo definire come sanzioni disciplinari, legate agli scollamenti delle condotte da quanto previsto dall’app. Sanzioni disciplinari che possono implicare dalla sospensione dall’app, alla decurtazione di una porzione del compenso, alla retrocessione nel ranking interno all’app, dell’“affidabilità” dei riders, sino a determinare la totale e inappellabile disconnessione dalla piattaforma.

È l’algoritmo, di fatto, che ben potendo essere modificato nel suo funzionamento dall’azienda che lo possiede, che diventa lo strumento attraverso il quale il capo organizza il suo lavoro. Il capo, allora, non è tanto l’algoritmo, ma l’impresa che si avvale di avanzati dispositivi tecnologici che consentono di intensificare il lavoro. La piattaforma, infatti, non è un terzo, dovendosi con essa identificare il datore di lavoro che ne ha la disponibilità e che programma gli algoritmi.

Tribunale di Firenze 2021

Eppure, è di pochi mesi successivo il decreto Trib. Firenze 9 febbraio 2021 che ha escluso la legittimazione ad attivare l’art. 28 Stat. Lav. per le organizzazioni sindacali che si erano rivolte al giudice del lavoro affinché dichiarasse la condotta antisindacale di Deliveroo nei confronti di alcuni riders.

L’antisindacalità, secondo le OO.SS. ricorrenti, sarebbe consistita nell’avere l’azienda imposto ai propri ciclofattorini l’applicazione del nuovo contratto collettivo di settore sottoscritto da Assodelivery con Ugl riders, a fronte di un’alternativa disconnessione totale dalla piattaforma.

Il Giudice fiorentino, pur riconoscendo e premettendo l’impossibilità “di effettuare approfondimenti istruttori sulla natura subordinata dei rapporti” per la natura della cognizione del rito ex art. 28 Stat. Lav., ha ritenuto, in base alle risultanze degli atti e dei documenti di causa, inapplicabile ai riders la tutela richiesta: i riders non sarebbero lavoratori subordinati ma, al più, collaboratori autonomi ai quali è applicabile solo la disciplina sostanziale relativa al trattamento economico e normativo del lavoro subordinato, qualora i loro rapporti siano etero-organizzati dalla piattaforma digitale.

Per il Trib. di Firenze, in netto contrasto con quanto chiarito dal Trib. di Palermo, i riders non sarebbero obbligati a rendere la prestazione di lavoro, essendo invece liberi di dare o meno la propria disponibilità per i turni offerti dall’azienda e, quindi, di decidere se e quando lavorare, in ciò restando lavoratori autonomi cui non è possibile ricollegare tutte le tutele previste dallo Stat. Lav.. Una pronuncia che ha destato, ancora, e di nuovo, forti perplessità e indecisioni fra gli operatori dell’area giuslavoristica. Se (quasi) tutti, ormai, sono abbastanza pronti a riconoscere tutele al lavoro tramite piattaforme, non è ancora chiaro in quale perimetro tipologico debba rientrare questo lavoro.

Le contraddizioni tra legislazione e giurisprudenza

Se il legislatore, infatti, da un lato, ha dato l’impressione di voler incanalare la qualificazione (e la protezione) dei gig workers alternativamente: verso la piena autonomia, ovvero verso la collaborazione etero-organizzata, sempre, quindi, nello spettro dell’autonomia, per quanto assoggettabile, con incerte modalità e confini, alla disciplina del lavoro subordinato (art. 2, D.Lgs. 81/2015), dall’altro parte della dottrina (e anche della giurisprudenza, come si visto) già da tempo sostiene la qualificazione di questi fattorini come lavoratori subordinati tout court.

Indagini UberEats

Ulteriore tassello, anch’esso confusionario di questa epopea qualificatoria è rappresentato dall’avviso di chiusura delle indagini su quello che è stato citato come “caporalato digitale” di UberEats. Nell’avviso, infatti, si è letto espressamente come “i riders venivano sottoposti a condizioni di lavoro degradanti, con un regime di sopraffazione retributivo e trattamentale, come riconosciuto dagli stessi dipendenti Uber”. Il Tribunale di Milano con decreto del 28 maggio 2020, n. 9 ha contestato alla piattaforma UberEats in questione il reato previsto dall’art. 603 bis c.p., ossia di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Si contestava ad UberEats di aver approfittato della situazione di bisogno di alcuni riders, formalmente dipendenti di altre due società di intermediazione del settore della logistica, sottoponendoli a condizioni di sfruttamento e sudditanza (soggetti richiedenti asilo, allocati in centri di accoglienza, con permessi di soggiorno a tempo per motivi umanitari).

Le indagini della Procura penale di Milano hanno, così, fatto luce su un sistema di reclutamento e sfruttamento del lavoro per un lavoro prestato per oltre cinquanta o sessanta ore alla settimana, e spesso per tutti i giorni della settimana.

In questo panorama, si è inserita, da ultimo, la notifica ad UberEats (ma anche Glovo-Foodinho, JustEat e Deliveroo) dei verbali del procuratore capo di Milano inerenti all’imposizione di trasformare i contratti dei rider.

Quale contratto, allora_

Ma trasformarli come? La vicenda, che prendeva le basi, nel 2019, a fronte di diversi infortuni che avevano interessato alcuni ciclofattorini, riguardava la verifica, previa valutazione del loro status lavorativo, del rispetto della normativa antinfortunistica di una nuova, inedita, categoria di lavoratori il cui numero era, ed è, destinato fortemente ad aumentare.

Al termine della prima fase di indagine, iniziata sul territorio milanese estesa poi su tutto il territorio nazionale, venivano esaminate le posizioni di oltre 60.mila riders che avevano prestato la propria attività dal 1° gennaio 2017 al 31 ottobre 2020 con le società Foodinho, Glovo e Uber Eats Italy, Just Eat Italy e Deliveroo Italy. Se, formalmente, la stragrande maggioranza di questi riders risultava impiegata in virtù di contratti di lavoro autonomo di tipo occasionale (ex art 2222 c.c.), gli accertamenti svolti avevano evidenziato tutt’altra realtà.

Emergeva, infatti, con profili inequivoci, il perimetro di stretta etero-direzione del fattorino andando, contemporaneamente ad identificarsi l’assenza del profilo di una prestazione autonomia ed a titolo accessorio: il rider è, a pieno titolo, inserito nell’organizzazione d’impresa operando all’interno di un metodo e di una struttura altamente coordinata dalla piattaforma, la datrice di lavoro, gestita solo con nuove modalità: le piattaforme e un algoritmo, e lo smartphone. A ciò si aggiungevano le medesime considerazioni sui ranking e sui punteggi già sollevate in precedenza.

Le conclusioni trasmesse nei verbali del 24 febbraio 2021 sono presto tratte: da un lato, i ciclofattorini sono pienamente qualificabili come lavoratori ai sensi dell’art. 2 co. I lett. A) d.lgs. n. 81/2008, secondo cui è lavoratore chi “indipendentemente dalla tipologia contrattuale. svolge un’attività Lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione”.

Dall’altro, il punto di rilievo giuslavoristico, sta proprio nelle seguenti parole “si deve procedere ad una riqualificazione contrattuale del rapporto che lega i rider alla singola società di delivery: non più, infatti, una prestazione autonoma di naturale occasionale ex art. 2222 c.c., bensì – piuttosto – una prestazione di tipo coordinato e continuativo, come disciplinata dall’art 2, primo comma, del D.lgs. 81/2015, così come affermato dalla Suprema Corte di Cassazione (cfr. sent. N. 1663 del 24 gennaio 2020). Un tale inquadramento offre più puntuali garanzie giuslavoristiche e determina, tra l’altro, anche il divieto di retribuzione a cottimo”.

Nessuna novità, allora, nelle parole del PM, sulla qualificazione dei fattorini nostrani?

Forse poche, ma sicuramente confuse. Come da più parti notato, se qualcosa in più è stata, è stata osservata con termini non particolarmente puntuali: confondendo la nozione di “etero-organizzazione” con “coordinamento” subito dopo aver parlato di “riqualificazione”, il PM forse non si è mostrato un finissimo giuslavorista, ma quantomeno ha colto nel segno su un piano sanzionatorio: per il danno contributivo ed assicurativo patito dai riders, le citate platforms dovranno pagare oltre 733 milioni di euro e 60.000 ciclo-fattorini dovranno essere assunti.

Molta confusione

Ma con che forma contrattuale? Non è ancora così cristallino. Se con il Tribunale di Palermo eravamo giunti, finalmente, alla qualificazione del lavoro fra fattorini, come di un rapporto di lavoro subordinato, i verbali del 24 febbraio 2021, sembrerebbero (il condizionale è d’obbligo data l’informalità tecnica di cui si macchiano le parole del PM) fare un passo indietro. Riparlando di un contratto ex art. 2, la cui vera natura (giuridica ed empirica) è ancora oscura anche agli esperti, i tribunali italiani sembrano mostrare un certo imbarazzo non ancora smaltito rispetto agli effetti inediti e nuovi della gig economy sul diritto del lavoro.

In conclusione

Insomma, i riders, ad oggi, sanno per certo solo che non sono lavoratori autonomi tout court; più o meno certo che non sono delle co.co.co.. Ma non sanno ancora cosa sono.

D’altronde, se adesso la nuova mossa spetta alle società che dovranno, nelle more di un giudizio penale, dimostrare la natura autonoma del rapporto di lavoro dei ciclofattorini, è curioso ricordare come Just Eat ha (per la verità più volte) annunciato che avrebbe assunto a partire dal 2021, i circa tremila ciclo-fattorini che attualmente vi collaborano.

Una dichiarazione di sistema che sicuramente farà riflettere gli operatori del campo che fin ora hanno sostenuto l’impossibilità, ab origine e fine pena mai, dell’assunzione con rapporto di lavoro subordinato di tali fattorini quale monito e conditio sine qua non per continuare ad investire nel nostro paese.

Ça va sans dire, attendiamo di vedere tutti i contratti.

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