Il valore dell’informazione, secondo Claude Shannon, è la riduzione dell’incertezza (entropia), ma già dalla prima implosione di notizie-informazioni in rete, si è intravista l’ipotesi di un paradosso: che la sovrabbondanza di informazioni avrebbe aumentato e non ridotto l’incertezza (e l’entropia).
L’attuale e quasi completamente sregolata possibilità di creare contenuti, concentratasi nei social, ha reso ancor più evidente il problema.
Le fake news come psico-socio-tecnologie: le cinque componenti fondamentali
La disinformazione corre sui social
Se ne parla, ad esempio, sul Wall Street Journal che ha messo in evidenza come questa vertiginosa libertà di condividere informazioni si possa tradurre in disinformazione anche dannosa: ad esempio, un video su TikTok spiegava come refrigerare gli avocado; dopo la sua popolarità, «la Food and Drug Administration ha dichiarato che il suggerimento di conservazione è una cattiva idea. Gli agenti patogeni presenti sulla superficie dell’avocado, come la salmonella e la listeria, potrebbero attivarsi in acqua, anche in un frigorifero freddo».
Questo caso, che è solamente uno tra tanti, evidenzia come anche la buona fede nella comunicazione, se impreparati, possa purtroppo essere dannosa.
A livello della singola disinformazione, il danno ricade su quei soggetti che, avendola presa in considerazione come autentica, hanno agito subendo, per questo, conseguenze negative.
A livello di sistema, il danno di tutta la disinformazione è collettivo: dall’aumento dell’incertezza ad una sospensione, sempre più estesa, di fiducia verso la comunicazione.
Fino all’ultimo clickbait
La rete, purtroppo, è colma di contenuti che raffigurano la tipologia di fake news: pezzi mal tradotti da testate straniere, senza alcuna verifica ulteriore delle notizie, che vengono veicolati, per lo più con copia e incolla, in innumerevoli siti che si propongono come piattaforme di informazione ‒ con più pubblicità che articoli ‒ titoli e immagini eclatanti, che non poche volte rimettono in circolo elementi obsoleti o dei quali è già stata riscontrata la non veridicità; capita, purtroppo, che per competere e stare nei tempi fra tanto rumore, anche importanti testate nazionali inciampino in clickbait, in qualche strafalcione nei titoli online o anche su qualche fake.
L’informazione resti il fulcro del giornalismo
Il fulcro della professione giornalistica è sempre l’informazione: in entrata (verificata anche da incroci della stessa e, in ristrettezza dei tempi, da fonti attendibili o autorevoli); nell’elaborazione interna secondo processi di news making, che non riguardano solamente il singolo operatore, attraverso negoziazione e coordinamento con una redazione per gli spazi, profili e approfondimenti; in uscita, con caratteristiche formali, per l’identificazione dei contenuti ed il riconoscimento della sezione (politica, esteri, cultura…), anticipazioni in prima pagina e chiarezza espositiva nei titoli, sommario e articolo. Il tutto sul solco di una precisa linea editoriale che incarna l’identità di una testata.
Anche se è un meccanismo sempre più fragile per la mancanza di risorse che sovraccarica le incombenze di ogni addetto, tempi e compensi (per i free lance) più ristretti e filosofie sempre più manageriali che puntano maggiormente all’efficienza e risparmio anziché alla qualità stessa del lavoro (che – ahimè ‒ va in direzione opposta alla velocità così imposta), il giornalismo mantiene dei sistemi interni di controllo: generalmente è richiesta una preparazione, in alcuni Paesi, per poterlo svolgere professionalmente, il superamento di esami e l’iscrizione a un ordine (che pur non garantendo ovviamente, così, a priori l’onesta e la qualità del lavoro del giornalista, esercita almeno una forma di pressione, controllo e sanzioni che vanno in questa direzione), in altri Stati, a seguito di segnalazioni, commissioni verificano le fonti e le circostanze delle notizie (si sono così smascherati premiati giornalisti che hanno creato, a tavolino, gettonate inchieste).
Il giornalismo, anche nell’era dell’informazione digitale, rimane un servizio in risposta a un diritto e bisogno dei cittadini di essere informati: importante che le sopramenzionate dighe di professionalità non crollino sotto la competizione, in termini di pubblico, del fiume in piena dei Social (in un articolo precedente, non a caso, plaudiamo il tentativo del gruppo Gedi di governare la corrente attraverso l’acquisizione della quota più importante della influncer factory Stardust).
Sicuramente si tratta di uno scontro impari:
- da una parte, il contenuto nei social, gratuito, immediato e di facile visione, la cui viralità non ha limiti, per l’incrociarsi dei canali e per il cannibalismo dei formati che lo adatta nel ritmo e nei tempi al media e al pubblico (come, sempre a titolo di esempio, l’intervista a un bambino sulla sua passione per le pannocchie con il burro – che campionata, è stata riutilizzata in cinquantacinque milioni di video creati su TikTok – e visualizzata nove milioni di volte su Youtube).
- dall’altra, un servizio per lo più a pagamento (le principali testate), con articoli da leggere o servizi da seguire, che seppur devono offrire un contenuto di semplice lettura, hanno come sfondo un sistema di conoscenze ampio e complesso (politica, economia, cultura…).
Conclusioni
A fronte di un aumento del bisogno di informazione delle persone, alcuni giornali, hanno guadagnato pubblico durante il periodo pandemico: il Sole 24 Ore, il Fatto Quotidiano e la Verità, a discapito di altri.
Procediamo verso incertezze (e paure) sempre più estese, globali e trasversali: potrà la stampa recuperare sui social e potrebbero delle regole di controllo venire applicate a questi ultimi?
Da parte mia, sono persuaso che la partita i giornali la potranno vincere sul primo versante, quello della qualità, e lasciare la quantità ai Social.