la riflessione

I social promuovono populismi e specifici partiti? Non scherziamo

Pensare che le emozioni condizionino prevalentemente il selvaggio globale davanti a Facebook (e prima davanti alla televisione) è un errore. Non ha nessun nesso reale con la storia e con le teorie sociali e psicologiche sul comportamento e sul funzionamento del cervello

Pubblicato il 17 Feb 2017

Nicola Strizzolo

docente associato Sociologia Università di Teramo

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Qualche tempo fa ho letto un articolo di Hossein Derakhshan, un blogger Iraniano Canadese, al centro della rivolta dei blogger iraniani e riconosciuto come uno dei più autorevoli.

L’articolo riportava che le caratteristiche di Facebook avevano aiutato a vincere Trump, come ultima evoluzione di un media ancorato sulle immagini e dunque sulle emozioni, non su informazioni e ragionamenti testuali, approfonditi e interconnessi.

Il tema che ha sollevato l’autore è decisamente importante e stimola diverse considerazioni.

Non si possono attribuire le caratteristiche del mezzo a quelle di un candidato, di una politica e della sua cultura (a meno che questi non sia il padrone dei mezzi, ma questo fa parte di un’altra storia, italiana): sicuramente il web ha assunto un’importanza sempre più crescente nella comunicazione politica già da tempo, come attestano per altro diversi studi, e FB può anche essere determinante per il successo di una campagna elettorale, ma la comunicazione politica non è frutto di improvvisazione quanto di adattamento in risposta agli obiettivi, ai mezzi e al target, ovvero chi ha vinto è perché ha saputo cavalcare al meglio il cavallo di FB, non perché questo cavallo era a lui più adatto.

Pareto sosteneva che le aristocrazie, detenendo a lungo il potere si impoveriscono di energie e vengono soppiantate da altre élite, con maggiori energie per raggiungere i vertici (e non per questo per governare meglio o portare valori migliori, che anzi, secondo Pareto, sono derivazioni dell’azione sociale, giustificazioni e legittimazioni delle azioni umane): di fatto Trump incarna, nel bene e nel male, anche questo.

Mettendo insieme questi due fattori, nuovo movimento e nuovi media, possiamo pensare anche al movimento italiano dei 5 stelle, che immagino ben poco si riconosca in Trump: forte delle competenze comunicative di sistema di una grande azienda, ha saputo cogliere la grande opportunità della rete e diventare così partito di maggioranza in diverse amministrazioni. A scanso di equivoci non ritengo che le abilità in FB possano essere garanti di un buon governo, bensì queste possono essere indicatori di una certa abilità comunicativa. Collegare giudizi sul mezzo e sulla capacità di gestione di questo ad attributi positivi quanto negativi per capacità di governo è un errore.

Il pensare che le emozioni, condizionino prevalentemente il selvaggio globale davanti a Facebook (e prima davanti alla televisione) non ha nessun nesso reale con la storia e con le teorie sociali e psicologiche sul comportamento e sul funzionamento del cervello: in tutta la nostra vita la ragione ci conduce a delle opzioni di azioni, che scegliamo sulla base delle emozioni. Non si può dire che ritualità, architetture, scenografie, pseudo eventi, altoparlanti, la radio e il cinema non abbiano scaldato il cuore delle masse o lo abbiano scaldato meno di FB.

In ogni comunicazione la forma, che si traduce in emozioni, è preponderante in maniera schiacciante sul contenuto: attiva l’attenzione, l’ascolto, la memoria e conduce, dunque, sempre per attivazione emozionale, infine all’azione (la ragione – ricordo – elabora le opzioni migliori). Le emozioni vengono stimolate dalla forma, mentre la ragione trova fondamento nel contenuto.

Infine è ovvio che lì dove si restringe lo spazio per il contenuto del messaggio, si arriva ad un’azione emotiva senza opzioni ragionevoli.

Riducendo il contenuto, si annichilisce effettivamente il pensiero veicolato: lo scriveva Vygotskij negli anni ’30 (Pensiero e linguaggio) e lo ribadiva McLuhan negli anni ’60.

Ma soprattutto – e  bisogna ricordarlo -, Karl Kraus prima di questi definì il Fascismo “la parola che uccide il pensiero”. Se pensiamo bene uno che aveva riempito di tweet i muri, messaggi condensati in poche altisonanti parole, era proprio Benito Mussolini. Di questo dovremmo riflettere in molti, prima di cinguettare sulla democrazia.

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