Come abbiamo visto nella prima parte di questo articolo, la produzione e lo smaltimento dei dispositivi ICT lasciano una impronta ambientale profonda. Affronteremo ora l’impatto dell’ICT nella fase d’uso, cercando anche di quantificarne aspetti eclatanti, come ad esempio il consumo enorme di energia in alcuni ambiti innovativi.
Pc, smartphone e datacenter: emissioni triplicate in dieci anni
Computer e smartphone, ma soprattutto i data center e tutti gli apparati relativi al funzionamento di Internet contribuiscono alle emissioni di gas serra. Se le infrastrutture digitali fossero uno Stato, sarebbero uno fra i più grandi consumatori di energia al mondo. Secondo alcune previsioni, le connessioni in banda larga tramite dispositivi mobili raggiungeranno presumibilmente i 7,6 miliardi nel 2020.
Lo studio “Valutazione dell’impronta globale delle emissioni ICT: tendenze verso il 2040 e raccomandazioni”, pubblicato sulla rivista Journal of Cleaner Production, ha analizzato l’impatto dell’intero settore delle ICT sulle emissioni globali di gas serra. Se nel 2007, le ICT contavano per l’1% delle emissioni inquinanti, dopo dieci anni il dato è triplicato e le proiezioni indicano che entro il 2040 arriveranno a pesare per il 14%. I mezzi di trasporto pesano per il 20% e il peso del trasporto sull’ambiente non è variato in maniera sostanziale nel corso degli ultimi cinquant’anni, nonostante l’aumento del traffico (aereo, terrestre e marittimo), a causa di progressi tecnologici.
L’impatto da tecnologia digitale sta invece seguendo una crescita rapidissima: ad esempio gli smartphone in dieci anni, dal 2010 al 2020, hanno superato computer e tablet nella classifica dei dispositivi meno rispettosi dell’ambiente, triplicando la propria quota relativa di emissioni dal 4 all’11%, in quanto sostituiti di frequente.
La fase di uso – che è responsabile del consumo di una grande quantità di energia e dunque contribuisce al riscaldamento globale – lo fa in maniera crescente, data la pervasività di Internet. L’indicatore per quantificarla è chiamato “Impronta di carbonio”.
L’impronta di carbonio dell’ICT
La carbon footprint (letteralmente, “impronta di carbonio”) viene utilizzata per stimare le emissioni gas serra (d’ora in poi GHGs – GreenHouse Gases) causate da un prodotto, da un servizio, da un’organizzazione, da un evento o da un individuo, espresse generalmente in tonnellate di CO2 equivalente. Tale parametro può essere utilizzato per la determinazione degli impatti ambientali che le emissioni hanno sui cambiamenti climatici di origine antropica. La produzione di energia elettrica, particolarmente rilevante nella fase d’uso dell’ICT, viene espressa dunque in termini di GHGs.
Una ricerca su Google, un acquisto online, un post su Facebook o un Tweet richiedono che ci siano dei server, dislocati da qualche parte, che la elaborano. All’energia consumata dai dispositivi connessi (quali PC e smartphone) si aggiunge dunque quella di server, data center, infrastrutture di comunicazione e relativi sottosistemi.
I data center che ospitano i servizi digitali che noi usiamo richiedono enormi quantità di energia: lo studio citato ha stimato che nel 2020 saranno la causa del 45% delle emissioni dell’intero settore ICT.
I data center
Nei grandi centri di calcolo da tempo l’aspetto energetico ha iniziato a costituire un problema centrale. Un’alta concentrazione di computer in funzione, quale appunto quella di una server farm, produce una notevole quantità di calore che deve essere smaltito in continuazione per garantire il buon funzionamento dei computer. I data center devono quindi essere progettati non solo per ridurre i consumi energetici dei server, ma anche quelli degli impianti di condizionamento.
Volendo approssimare in modo grossolano possiamo pensare che in un data center l’energia complessiva sia usata per circa la metà dai sistemi di alimentazione e raffreddamento e solo per la restante metà per il carico IT. Il rapporto fra il consumo elettrico globale del data center e quello dei server è indicato come PUE (Power Usage Effectiveness). Se il rapporto del consumo del raffreddamento rispetto al consumo effettivo per il server aumenta, il PUE cresce. Il PUE medio di un data center è 2.5 ed è considerato buono se arriva ad essere minore di due. L’ottimo sarebbe 1. Alla base dell’efficienza energetica vi sono soluzioni software: virtualizzazione, efficienza, consolidamento, gestione della potenza dei server.
Il software e l’efficienza energetica
Sono varie le misure che possono migliorare l’efficienza energetica di un data center. La catena causa-effetto inizia con le applicazioni software e continua passando per i dispositivi hardware e l’alimentazione, fino alla progettazione dell’edificio e al sistema di raffreddamento. La considerazione chiave è che tali misure sono tanto più efficaci quanto più prossime all’inizio della catena causa-effetto. Il punto di partenza da affrontare dunque per avere una buona efficienza sono i dati e gli applicativi.
Rinnovabili e data center: a che punto sono i big player?
Negli anni, sarà sempre più necessario soddisfare la crescente domanda elettrica proveniente dal mondo dell’ICT. Affinché ciò sia sostenibile dovrà avvenire con energia prodotta da fonti rinnovabili.
L’associazione ambientalista Greenpeace a partire dal 2010 analizza le performance del settore IT con la domanda energetica proveniente da Internet e la relativa scelta dei provider sulla tecnologia con cui produrre l’energia necessaria.
Greenpeace chiede che tutte le più grandi compagnie si impegnino ad alimentarsi con energia 100 per cento rinnovabile e siano trasparenti sulle attuali performance energetiche del settore e sul consumo di risorse – incluso le fonti di energia utilizzate – per permettere a clienti e investitori di misurare i progressi verso l’obiettivo. Inoltre l’organizzazione ambientalista chiede alle grandi aziende IT di sviluppare strategie che incrementino l’offerta di energia rinnovabile, sia attraverso investimenti diretti che tramite azioni di pressione sui fornitori di elettricità e sui decisori politici.
Nel report “Clicking Clean: Who is Winning the Race to Build a Green Internet?” diffuso da Greenpeace Usa, viene analizzata l’impronta energetica dei grandi operatori di data center e di circa 70 tra siti web e applicazioni. Apple ha ottenuto il punteggio più alto sulla scala di energia verde, con le sue operazioni che utilizzano energia pulita per l’83% delle volte. Facebook e Google hanno ricevuto rispettivamente il 67% e il 56%, mentre Switch ha ottenuto il 100%. Ma per altri big le cose sono diverse, in particolare nel settore dello streaming.
Il costo ambientale dello streaming
Nel 2015 lo streaming di video ha pesato per il 63 per cento sul traffico totale internet, cifra che secondo le previsioni 2016 di Cisco Network Traffic nel 2020 dovrebbe raggiungere l’80 per cento. Servizi come Netflix, Amazon Prime e Hulu sono ben al di sotto degli investimenti di aziende come Google o Apple sulle rinnovabili. Nonostante gli annunci – sempre da quanto emerge nel rapporto – in particolare Amazon Web Services continua a mantenere i suoi clienti all’oscuro sulle proprie decisioni energetiche. Inoltre l’azienda sta allargando le proprie attività in aree geografiche in cui sono utilizzate prevalentemente energie sporche, come la Virginia.
Netflix, la piattaforma di streaming responsabile di un terzo del traffico internet in Nord America e che contribuisce in maniera significativa alla domanda di dati per lo streaming video, nel 2015 aveva annunciato l’intenzione di controbilanciare completamente le proprie emissioni di CO2; un’analisi più attenta ha rivelato che sta solamente comprando crediti di compensazione delle emissioni, senza aumentare gli investimenti in energie rinnovabili. Netflix ha così ottenuto, nel ranking di Greenpeace, un punteggio complessivo del 17% e un rate “D”. YouTube di proprietà di Google, al confronto, ha ottenuto il 56% e ha ricevuto una “A”.
Un abbassamento dei costi delle energie rinnovabili, unita ad una sempre più diffusa sensibilità verso la questione del “climate change”, sta portando un numero elevato di aziende nel settore IT ad ingaggiare una vera e propria gara per raggiungere performance energetiche 100% rinnovabili. In tutto il settore, Greenpeace ha rilevato che quasi il 20% delle aziende Internet si è impegnato a investire il 100% di energia rinnovabile.
Una preoccupante assenza di politiche green efficaci si registra invece in Asia orientale, soprattutto in Cina, Taiwan e Corea del Sud. Giganti tecnologici come Tencent, Baidu, Alibaba e Naver sono ancora in ritardo nell’utilizzo di energie green per mancanza di forniture nella regione, principalmente a causa della mancanza di opzioni di energia pulita da parte dei servizi monopolisti in Cina.
Il Sud-est asiatico è ora il principale produttore di anidride carbonica del mondo. Sempre secondo il rapporto Clicking Clean, l’unico passo avanti sulla strada delle rinnovabili è stato compiuto in Corea del Sud. Multinazionali coreane quali Samsung, SDS e Kakao, stanno, inoltre, compiendo timidi, ma non ancora soddisfacenti, avanzamenti verso l’accesso a fonti rinnovabili.
Quanto detto resta nell’ambito delle applicazioni Internet.
Ma cosa accade nell’ambito delle elaborazioni relative ai settori più innovativi e specializzati? Vediamo due esempi: le criptovalute e il deep learning. Entrambi gli ambiti applicativi avvengono su architetture Hw/SW specifiche (quali le ASIC o le GPU) – che in quanto tali hanno maggiore efficienza energetica – ma nonostante questo i consumi sono enormi.
Criptovalute e Blockchain
Quanta energia consuma una criptovaluta?
Per averne un’idea bisogna fare un piccolo passo indietro. Si deve ricordare che le criptovalute, in particolare i famosi bitcoin, si basano sul meccanismo della blockchain; i “blocchi” che incrementano la blockchain vengono creati trasformando i dati associati a un gruppo di transazioni. Ad aggiudicarsi il diritto di aggiungere un blocco sono miners, attraverso un meccanismo competitivo – che consiste nel risolvere un problema crittografico – al termine del quale il vincitore viene remunerato in nuovi bitcoin.
Il processo noto come hashing, non è intrinsecamente intensivo dal punto di vista computazionale, ma per ottenere un hash che inizia con il numero richiesto di zeri – che cambia (e in genere aumenta) dopo ogni 2.016 blocchi o all’incirca ogni due settimane – un miner deve modificare i dati e poi cancellarli, controllare se il risultato ha il numero corretto di zeri e, in caso contrario, ricominciare da capo. Questo processo di hashing si reitera migliaia di volte e consuma molta energia. Il primo miner della rete che ha trovato un hash valido lo usa per creare un blocco, lo aggiunge alla catena e viene ricompensato per questo servizio di community con bitcoin di nuova concezione. Il processo è noto come “proof of work (PoW)”.
Tutti i computer che fanno parte del sistema possono provare a risolvere il problema e estrarre quindi bitcoin, ma possono riuscirci solo computer con grandi capacità di calcolo ed elevate prestazioni. Per avere ragionevoli possibilità di estrarre bitcoin servono quindi: tanti computer, impianti di ventilazione per evitare che i computer si surriscaldino e, soprattutto, tanta elettricità per far funzionare il tutto. Le server-farm basate su architetture ASIC (Application Specific Integrated Circuit) su cui i miner effettuato l’hashing si trovano in paesi in cui l’energia costa poco, come in Cina e in particolare in Mongolia, dove non ci sono norme restrittive contro le emissioni di gas serra ed è forte l’uso di carbone per produrre energia.
La natura ad alta intensità energetica dell’estrazione di PoW e le sue potenziali implicazioni negative sull’ambiente hanno scatenato dibattiti accesi. Sono stati pubblicati molti studi che stimano il consumo totale di energia, utilizzando varie metodologie che hanno dato luogo a cifre ampiamente divergenti. Stimare l’effettivo consumo di energia dei principali sistemi di cryptoasset PoW richiede ampi dati sul tipo di attrezzatura utilizzata, sulla natura delle fonti energetiche e sull’efficienza energetica globale del settore.
Per la mancanza di dati affidabili, il team di ricerca del 2nd global cryptoasset benchmarking study basa la stima su un intervallo piuttosto che a valore preciso. Ha condotto un’analisi separata per i sei principali criptoassets PoW (Bitcoin, Bitcoin Cash, Ethereum, Litecoin, Monero e ZCash) i cui output sono poi combinati per fornire una stima aggregata.
A metà novembre del 2018, le prime sei reti di crittografi sono state valutate collettivamente consumare tra 52 e 111 terawattora (TWh) di energia all’anno, in aumento da 18 a 42 TWh solo un anno prima. Il solo bitcoin rappresenta in media il 75% del consumo totale di energia.
Considerando l’ultimo punto medio dell’intervallo stimato come riferimento (82 TWh), è possibile stabilire che i primi 6 sistemi di criptoasset consumano circa la stessa energia dell’intero paese del Belgio nel 2016.
Secondo il New York Times, che cita l’economista Alex de Vries e la società Morgan Stanley, l’energia consumata per ottenere ogni bitcoin è pari a quella usata in due anni da una famiglia americana media; l’elettricità utilizzata in una singola transazione in Bitcoin, potrebbe alimentare una casa per un mese.
Il totale dei computer che fanno parte del sistema Bitcoin consuma in un giorno la stessa energia di una nazione di media grandezza.
Secondo il Bitcoin Energy Consumption Index generare Bitcoin richiede una quantità davvero incredibile di energia che stia che bitcoin in termini energetici sia arrivato infatti a toccare 30 terawatt all’ora: più della quantità di energia elettrica utilizzata ogni anno da 153 delle 213 nazioni esistenti al mondo. Attualmente, solo 38 paesi consumano più elettricità rispetto al totale di Bitcoin. Qualche altro dato Bitcoin Energy Consumption Index:
- Si stima attualmente che il mining di Bitcoin stia consumando tra 55,63 e 73,12 TWh di elettricità all’anno.
- Questo significa che il mining di Bitcoin utilizza ora più elettricità che tra 175 e 181 singoli paesi / territori (rispetto ai 159 dell’anno scorso).
- Attualmente sono necessari circa 94.000 KWh di elettricità per estrarre un bitcoin.
- Il mining di Bitcoin ora consuma più energia rispetto ai 750 milioni di utenti finali, il 10% della popolazione mondiale.
- La Nigeria (186 milioni di abitanti) è il paese più popoloso che probabilmente utilizza meno elettricità rispetto all’estrazione globale di Bitcoin.
- Il mining di Bitcoin equivale a circa il 33% del consumo australiano, del 24% del Regno Unito, del 14% del Canada o del 2% del consumo di energia elettrica negli Stati Uniti.
- 66 paesi hanno un consumo elettrico pro capite inferiore a 1 transazione Bitcoin.
Uso di energia nei processi di Deep Learning
L’industria dell’intelligenza artificiale viene spesso paragonata all’industria petrolifera: una volta estratti e raffinati, i dati, come il petrolio, possono essere un bene molto redditizio.
Recenti progressi nell’hardware e nella metodologia per la formazione delle reti neurali hanno inaugurato una nuova generazione di grandi reti addestrate mediante big data, fornendo un forte impulso ad un importante ambito applicativo dell’IA: quello dell’elaborazione del linguaggio naturale. Questi modelli di reti neurali hanno ottenuto notevoli miglioramenti di accuratezza in molte attività di NPL (Natural Language Processing), miglioramenti che dipendono dalla disponibilità di risorse computazionali eccezionalmente grandi che richiedono un consumo di energia sostanzialmente equivalente. Di conseguenza questi modelli sono costosi da addestrare e sviluppare, sia dal punto di vista finanziario, a causa del costo dell’hardware e dell’elettricità o del tempo di elaborazione, sia dal punto di vista ambientale, a causa dell’impronta di carbonio necessaria per alimentare il moderno hardware.
Il processo di apprendimento profondo ha un impatto ambientale straordinario. In un nuovo documento, i ricercatori dell’Università del Massachusetts, Amherst, hanno eseguito una valutazione del ciclo di vita per l’addestramento di diversi modelli di IA di grandi dimensioni comuni utilizzati nell’elaborazione del linguaggio naturale Hanno valutato che il processo può emettere 626,000 pounds di anidride carbonica equivalente – un valore quasi cinque volte le emissioni della vita media dell’auto americana, produzione della stessa auto inclusa. L’addestramento del modello comporta un costo sostanziale per l’ambiente a causa dell’energia necessaria per alimentare questo hardware per settimane o mesi alla volta. Sebbene parte di questa energia possa provenire da risorse rinnovabili o sia compensata dal credito di carbonio, le elevate esigenze energetiche di questi modelli sono motivo di preoccupazione poiché l’energia spesa per addestrare una rete neurale è davvero considerevole.
Le soluzioni del green computing.
Dopo questa rapida carrellata sull’impatto ambientale dell’ICT è d’obbligo domandarsi cosa si fa e può essere fatto. Il green computing si basa sull’idea che in fase di progettazione si debba tenere già conto di tutto il ciclo di vita di un’apparecchiatura.
Il ciclo di vita del prodotto è costituito da varie fasi: l’estrazione di materie prime, la produzione, l’utilizzo del prodotto e la fine del ciclo di vita. Nella prima fase è importante estrarre pochi materiali o quelli con un basso impatto ambientale; nella seconda usare meno risorse possibile, ridurre l’inquinamento, i rifiuti e l’impatto ambientale della distribuzione; nella terza il punto fondamentale è ottimizzare la funzionalità e il servizio durante la vita del prodotto; la quarta è volta a ridurre l’impatto ambientale della dismissione e rendere il riuso e il riciclo più facili.
La ricerca, a carattere multidisciplinare, che ha come obiettivo il green computing ha introdotto molte soluzioni e accorgimenti, secondo i principi dell’ecodesign; scopo dell’ecodesign è chiudere il ciclo, facendo sì che i materiali riciclati tornino nel processo di produzione, contribuendo a conservare le risorse non rinnovabili della Terra, a risparmiare energia (riducendo anche l’estrazione di materie prime e il trasporto) e a diminuire i rifiuti elettronici.
L’ecodesign si ispira a alcuni principi.
- Il primo di tali principi consiste nell’innovazione dei materiali, con la riduzione quantitativa nella produzione e l’utilizzazione di quelli con minor impatto ambientale e con più valore residuo a fine vita (materiali ecocompatibili, come le bioplastiche, o sostituzione di sostanze pericolose, come il piombo, con altre).
- Il secondo principio corrisponde all’efficienza energetica, quindi a ridurre l’energia necessaria alla produzione e all’uso. Il modo per non sovraccaricare la rete elettrica e per consumare energia meno sporca consiste nell’utilizzo di energie rinnovabili. I consumi energetici nei data center possono essere ridotti utilizzando apparecchiature di nuova generazione ad alta efficienza energetica, migliorando l’aereazione per ridurre le esigenze di raffreddamento (anche con soluzioni di architettura dedicata), adottando software di power management e soluzioni informatiche come la virtualizzazione, dove ogni server fisico ospita server virtuali multipli (con la conseguente riduzione di computer e di spazio fisico). In particolare, nei grandi data center che forniscono servizi di cloud computing, il tipo di fonti energetiche di alimentazione è determinante ai fini della sostenibilità ambientale (peraltro garantita soltanto dalle fonti rinnovabili).
- Il terzo principio è quello di favorire la riciclabilità, progettando prodotti che siano facilmente migliorabili. La progettazione orientata all’upgrade e alla manutenzione prevede sin dalla fase di design il riuso e riciclo. Alcune tecniche consentono di smontare e riparare più facilmente i computer o di sostituirne delle parti per consentirne un upgrade, aumentando così il tempo di vita. Inoltre in fase di progettazione si possono già prevedere accorgimenti che semplificheranno l’attività di chi dovrà smaltire il rifiuto elettronico, per esempio consentendo di disassemblare più agilmente o indicando dove sono contenuti i componenti potenzialmente pericolosi. Una soluzione in questo senso consiste nello schedare ogni componente, in modo che le persone adibite alla raccolta e allo smistamento possano immediatamente individuare quelle destinate al riciclo o meno.
Per raggiungere questi obiettivi è stata introdotta dalla normativa di settore la responsabilità estesa del produttore sull’intero ciclo di vita del prodotto, in modo da incentivarlo a investire in soluzioni tecnologiche green e in piani di gestione del fine vita dei dispositivi, come i programmi di ritiro.
La ricerca sul green computing sta progredendo per quanto riguarda i dispositivi finali la cui efficienza energetica sta migliorando, ma lo sviluppo della galassia Internet è più rapido. Inoltre la grande disponibilità di dati e di potenza di calcolo ha reso possibile applicazioni di Intelligenza Artificiale, come il deep learning, intrinsecamente onerose e dunque energivore. Sul fronte delle criptovalute la situazione è ancora peggiore, e gli esempi potrebbero continuare.
Dunque oggi il saldo netto dell’ICT è pesantemente negativo per l’ambiente.
Lotfi Belkhir, Ahmed Elmeligi, (2018): Assessing ICT global emissions footprint: Trends to 2040 & recommendations, Journal of Cleaner Production, Volume 177, Pages 448-463,
“www.clickclean.org/downloads/ClickClean2016%20HiRes.pdf”
https://powercompare.co.uk/bitcoin/
https://digiconomist.net/bitcoin-energy-consumption
Training a single AI model can emit as much carbon as five cars in their lifetimes
Emma Strubell, Ananya Ganesh, Andrew McCallum: “Energy and Policy Considerations for Deep Learning in NLP”