identità digitale

Tutelare i dati di rifugiati e migranti, per proteggerli: ecco come fare

La tutela dei dati personali di migranti e rifugiati non si pone solo quale protezione della sfera di riservatezza ma diventa strumento di protezione dell’incolumità personale. Ecco perché servono strumenti di tutela effettiva per evitare che una legittima azione di individuazione digitale diventi strumento di persecuzione

Pubblicato il 02 Lug 2021

Mario Di Giulio

Professore a contratto di Law of Developing Countries, Università Campus Bio-Medico Avvocato, Partner Studio Legale Pavia e Ansaldo

Maria Angela Maina

ricercatrice The Thinking Watermill Society

migrazioni

Viviamo un mondo guidato dai dati e in un’epoca di imponenti flussi migratori, generati da guerre, cambiamenti climatici, povertà. Pur prevalendo, in questo contesto, problemi molto pressanti di diversa natura, non va dimenticata la questione della protezione dei dati di rifugiati e migranti.

Parliamo, infatti, di soggetti che sono particolarmente vulnerabili perché lasciano le proprie case in circostanze difficili o estreme e sono costretti a dare i propri dati personali a organizzazioni governative e non, senza potere avere informazioni e rassicurazioni sulle modalità di utilizzo e sulla relativa protezione e senza esercitare un effettivo consenso (bisogno e consenso difficilmente sono compatibili).

Ecco perché gli Stati dovrebbero assicurare l’inclusione digitale di migranti, rifugiati e richiedenti asilo al fine di assicurare loro protezione e diritti e nel contempo gli stessi Stati dovrebbero assicurare la protezione dei dati personali di tali individui e la formazione di un genuino e informato consenso.

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L’importanza dell’identità digitale

Chi sono io?”: a questa domanda la prima cosa che viene alla mente è il proprio nome.

Il nome è parte dell’identità umana e non occorre richiamare il personaggio di Jean Valjean ne “I Miserabili”, il prigioniero 24601, o le più orride immagini dei campi di concentramento e di sterminio per comprendere quanto la propria identità sia identità umana quando è legata a un proprio nome e non svilita in un semplice numero: da un lato il soggetto di diritto, dall’altro l’oggetto di misure di coercizione o annichilimento.

L’identità quindi quale presupposto per il riconoscimento della personalità giuridica e l’identità quale presupposto per assicurare assistenza e tutela ed evitare accaparramenti e indebite appropriazioni alle persone in posizione di difficoltà (quali migranti, rifugiati e richiedenti asilo).

In tale contesto, le attuali tecnologie (in particolari gli strumenti di riconoscimento biometrico e la blockchain) consentono di attribuire un’identità limitando rischi di manipolazioni e alterazioni, ma suscitano anche dubbi e interrogativi.

Il contributo dell’Onu e delle organizzazioni private all’identità digitale

Tra i Sustainable Develolpment Goals, il 16.9 prevede la missione di fornire un’identità legale a tutti. Obbiettivo più facile a dirsi che a farsi, da qui anche la ragione dell’iniziativa ID2020, partita nel 2016, che coinvolge vari soggetti privati, con lo scopo di assicurare un’identità digitale attraverso un modello complementare tra riconoscimento dell’identità da parte dell’autorità e un sistema incentrato sulla persona che dell’identità è soggetto.

Paradossalmente l’iniziativa definisce tale identità digitale, quale “good digital identity”, laddove l’aggettivo “good” dovrebbe assicurare l’idoneità del sistema utilizzato a resistere a violazioni non volute e alterazioni attraverso l’utilizzo di idonee tecnologie.

Al di là delle buone intenzioni e dell’apertura dell’alleanza anche ad altri soggetti diversi dai fondatori, non vi è chi non pensi ai rischi connessi a sistemi di gestione dell’identità basati su iniziative private, anche laddove esse siano sostenute da soggetti filantropici.

Non va comunque neanche dimenticato che l’iniziativa privata comunque spesso assolve alle deficienze di sistema, come ad esempio in Iraq dove – come in molte parti del mondo – i servizi telefonici possono essere forniti solo a persone che siano in grado di dimostrare la propria identità.

L’assenza di un efficiente sistema di attribuzione dell’identità in tale Paese impedisce a moltissimi di accedere a questi servizi, di carattere essenziale per persone costrette a dividersi dai propri nuclei famigliari e per le quali spesso il telefono è l’unico strumento di accesso alle informazioni. In queste circostanze, anche se l’attribuzione di un’identità da parte dell’UNHCR non sarebbe per sé sufficiente all’identificazione dal punto di vista statuale, l’operatore Zain ha comunque deciso di accettare tale strumento almeno per quanto concerne i servizi in contanti.

Altra iniziativa da menzionarsi è il Rohingwa Project con il quale si tenta di attribuire un’identità digitale ai rifugiati di questa minoranza musulmana resa “apolide” dallo Stato di appartenenza, il Myanmar, attraverso la tecnologia blockchain che dovrebbe anche assicurare la somministrazione di servizi da parte delle agenzie delle Nazioni unite con l’utilizzo di una criptovaluta ad hoc.

La tecnologia blockchain è stata inoltre utilizzata dal World Food Programme nell’assistenza ai rifugiati dalla Siria, assicurando l’identificazione e la somministrazione di aiuti direttamente a favore di ciascun interessato (il riconoscimento biometrico consente ai soggetti beneficiari di prelevare gli aiuti direttamente senza dovere passare per capi comunità).

Altra frontiera dell’identificazione digitale è poi la ”identificazione digitale economica” volta a tracciare – in modo difficilmente alterabile – un vero e proprio curriculum di esperienze educative e lavorative con la finalità di facilitare l’accesso al credito e all’inserimento lavorativo: si tratta dell’iniziativa “Hawiyatii” (la mia identità) condotta da alcune organizzazioni non profit sempre per i rifugiati siriani presenti in Libano e Giordania

Limiti dell’identità digitale

Al di là delle singole iniziative, rimangono comunque interrogativi di fondo: come spesso accade la tecnologia rappresenta una spada a doppio taglio.

Se da un lato infatti molti sono i vantaggi che essa può consentire, non vi è chi non veda altri rischi.

I sistemi di identificazione spesso sono basati su strumenti biometrici, con la creazione di giganteschi archivi che vanno ben oltre la mera attribuzione di un nome e che prescindono dai dati parentali che spesso possono essere utili per individuare le relazioni tra individui a fini patrimoniali, ma anche sociali: questo costituisce certo un elemento di criticità.

Di contro quando non siano utilizzati dati biometrici, concreto è il rischio della creazione di una pluralità di identità per un medesimo soggetto laddove lo stesso sia basato su un sistema di autodichiarazioni.

La necessità di proteggere i più deboli

Deve essere ricordato che molti rifugiati e richiedenti asilo sono attenti alla propria riservatezza e quasi tendono all’anonimato onde evitare possibili rappresaglie per sé o i propri cari perché testimoni di delitti e atrocità o semplicemente perché perseguitati.

La tutela dei loro dati personali non si pone quindi solo quale protezione della propria sfera di riservatezza ma diventa strumento di protezione dell’incolumità personale.

Tutto ciò conduce a interrogarsi sugli strumenti di tutela effettiva ed evitare che una legittima azione di individuazione digitale, volta a sostenere i bisognosi e a gestire l’ordine pubblico, non diventi a sua volta strumento di persecuzione e di ricatto.

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