Il cambiamento si annida sempre più nelle zone di tensione e conflitto, nelle nostre debolezze e inadeguatezze, nelle anomalie, nelle fluttuazioni e nei dilemmi che caratterizzano la conoscenza, l’azione sociale, i sistemi complessi (adattivi); il cambiamento si annida perfino nella nostra incompletezza che ci permette di essere creativi e ricorrere all’immaginazione, cercando percorsi alternativi, abbandonando, se necessario, le vie già percorse; il cambiamento si annida sempre più nei momenti di incertezza, in quegli errori e in quelle vulnerabilità che, spesso, ignoriamo e/o cerchiamo di non vedere. Un cambiamento (e un’innovazione) che rischia, tuttavia, di essere opportunità “per pochi”.
Come ripeto spesso, occorre mettere in discussione i saperi, i confini tra i saperi, le pratiche consolidate, riconsiderando la valenza strategica delle emozioni e degli immaginari individuali e collettivi; in altri termini, è necessario avere (anche) il coraggio di rompere equilibri, spezzare le catene della tradizione, abbandonare il certo per l’incerto; scegliere, almeno provvisoriamente, di correre il rischio di essere vulnerabili. Abitando i confini, i territori inesplorati, oltrepassando quei vincoli e quelle logiche di separazione (tipiche delle istituzioni educative e formative) che ci impediscono di cogliere il senso più profondo del vitale, del sociale, del relazionale e di comprenderne la complessità e l’ambivalenza. Dimensioni appunto complesse, mai riducibili/riconducibili a formule matematiche e/o sequenze di dati.
Rilanciare l’educazione socio-emotiva
Nella civiltà ipertecnologica e delle macchine intelligenti (?), fondata sul controllo e sulla programmazione/(iper)simulazione totale dei processi e delle azioni e segnata da una progressiva, oltre che esponenziale, crescita della dimensione del tecnologicamente controllato – che marginalizza l’Umano e restringe lo spazio della responsabilità – le sfide del cambiamento sono proprio quelle di ripensare/ridefinire la centralità della Persona e dell’Umano, dentro ambienti ed ecosistemi in cui non esiste più alcun confine/limite tra naturale ed artificiale. Oggi, forse come mai in passato, occorre recuperare le dimensioni complesse della complessità educativa: l’empatia, il pensiero critico, una visione sistemica dei fenomeni, l’educazione alla comunicazione, oltre a dimensioni che abbiamo volutamente rimosso, come l’immaginario e la creatività. Significa ripensare lo spazio relazionale e comunicativo dentro le istituzioni formative ed educative, rilanciare l’educazione nella prospettiva sistemica di una educazione che non può che essere socio-emotiva. Tra cambiamento dei paradigmi e trasformazione antropologica (1996) – ribaltamento dell’interazione complessa tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale – tra interdipendenza e frammentazione, una questione profonda anche, e soprattutto, in termini di “cultura della comunicazione” (1998), resa ancor più complessa, e problematica, dall’assenza di un sistema di pensiero e di un modello teorico-interpretativo in grado di osservare, riconoscere e (provare a) comprendere l’ipercomplessità e l’irruzione, per certi versi, prepotente del caos. E già… Ordine e Caos: non è più sufficiente provare a distinguerli per ristabilire l’equilibrio perduto e il controllo. Perché anche ordine e caos coesistono, convivono, sono entrambi presenti, comunque e sempre, retroagiscono nel quadro sistemico di una complessità del vivente e, ancor di più, del sociale, che continua a rivelarsi mai comprensibile e intellegibile fino in fondo.
Il fattore umano
Continuiamo ad ignorare un aspetto importante: il fattore umano è/sarà sempre decisivo dal momento che è dietro ogni processo, dietro ogni meccanismo, dietro ogni algoritmo. In questa linea di discorso, il futuro sarà delle “figure ibride”(Dominici, 1995), dei “manager della complessità” (una definizione che utilizzo per semplificare, essendo profondamente consapevole che la complessità non può mai essere gestita né tanto meno controllata, contrariamente a ciò che dicono/scrivono tanti esperti), di chi saprà «abitare l’ipercomplessità, individuando e riconoscendo in quelli che oggi consideriamo limiti e confini invalicabili – non soltanto quelli tra i saperi, tra le conoscenze e le competenze, tra la formazione scientifica e quella umanistica – delle opportunità». Abitare l’ipercomplessità* non è soltanto saper gestire/controllare le tecnologie e i nuovi ambienti iperconnessi, sfruttandone al massimo le potenzialità. E il cambiamento si presenta, non soltanto come evoluzione della complessità sociale, ma anche, e soprattutto, come sfida educativa e di cultura della comunicazione.
L’ipercomplessità, che connota l’attuale “società iperconnessa” (Dominici, 2005), ci chiede un nuova immaginazione per ripensare a fondo i processi educativi e formativi: educare all’empatia ed alla comunicazione (1998), educare alla libertà/responsabilità e non alla paura, educare alla complessità, provando a costruire una “cultura dell’errore” (ibidem); educare al “metodo scientifico” – con la consapevolezza delle relative criticità – e ad una visione sistemica dei problemi e dei fenomeni: ad un primo livello di azione, saper quanto meno riconoscere questa ipercomplessità può significare essere in grado di creare le condizioni per provare a gestirla (?), trasformandola in opportunità. Una ipercomplessità correlata, in ultima istanza, all’incontro/confronto con l’ALTRO da NOI.
Ripensare l’umano e la sua interazione con la tecnica
È tempo di ripensare l’umano e la sua interazione, per certi versi, ambigua con la tecnica (cfr.Mumford 1934) e il tecnologico: un’interazione da cui non può che scaturire una sintesi complessa di cui non siamo ancora in grado di valutare prospettive, sviluppi e implicazioni. Tra “nuove” utopie e distopie. Tra forze dell’interdipendenza e forze della frammentazione. Tra inclusività ed esclusività, dentro asimmetrie che corrono lungo traiettorie discontinue. Occorre, pertanto, essere consapevoli – non soltanto a parole e nel discorso pubblico – che il futuro è di chi riuscirà a ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico (cfr. Dominici, 1998), di chi riuscirà a ridefinire e ripensare la relazione complessa tra naturale e artificiale; di chi saprà coniugare (non separare) conoscenze e competenze (ibidem); di chi saprà coniugare, di più, fondere le “due culture” (umanistica e scientifica, cfr. Snow) sia a livello di educazione e formazione, che di definizione di profili e competenze professionali. Andando oltre quelle che, in tempi non sospetti, avevamo definito le «false dicotomie» (Dominici, 1996-2017): natura vs. cultura; naturale vs. artificiale; umano vs. tecnologico; cultura vs. tecnologia; teoria vs. ricerca/pratica; formazione scientifica vs. formazione umanistica; pensiero/ragione vs. emozioni; ragione vs. creatività/immaginazione; corpo vs. mente (Bateson, 1972); complessità vs. specializzazione; interdisciplinarità vs. specializzazione; conoscenze vs. competenze; forma/e e contenuto, hard skills vs. soft skills. Occorre correggere radicalmente la strutturale inadeguatezza e le clamorose miopie che caratterizzano, da sempre, le istituzioni e i “luoghi” responsabili della definizione e costruzione delle condizioni di emancipazione sociale, non soltanto promuovendo un’educazione critica alla complessità e alla responsabilità (fin dai primi anni di scuola), ma premiando e incoraggiando, nei fatti e non soltanto nei documenti istituzionali, l’interdisciplinarità e la transdisciplinarità anche, e soprattutto, a livello della ricerca scientifica. Riportando l’umano (e, quindi, anche l’errore e la possibilità di sbagliare), le emozioni, il creativo, l’immaginario, il vitale dentro i luoghi dell’educazione e della formazione e dentro gli spazi relazionali e comunicativi che li caratterizzano. Ciò avrebbe ricadute significative sui percorsi didattico-formativi e la ben nota “formazione dei formatori”. Occorre prendere definitivamente coscienza che il vero “fattore” strategico del cambiamento e dei processi di innovazione è il “fattore” culturale: una variabile complessa in grado, nel lungo periodo, di innescare e accompagnare i processi economici, politici, sociali. Per abitare l’ipercomplessità, e non subirla!
L’ipercomplessità e le “false dicotomie”
Natura versus cultura; naturale versus artificiale; Umano versus tecnologico, cultura versus tecnologia, teoria versus ricerca/ pratica; formazione scientifica versus formazione umanistica; pensiero e ragione versus emozioni; ragione versus creatività e immaginazione; corpo versus mente; complessità versus specializzazione; interdisciplinarità versus specializzazione; conoscenze versus competenze; forma/e versus contenuto; hard skills versus soft skills (le ho definite, molti anni fa, “false dicotomie”). Proviamo ad osservare, a descrivere, a riconoscere, a comprendere la complessità, l’umano, la vita, la vitalità dello spirito, quell’ “essenziale” che è (sempre) “invisibile agli occhi”(cit.) ricorrendo sempre a divisioni, separazioni, distinzioni, fratture che spesso non portano alla conoscenza e/o al sapere, bensì ad un senso di appaesamento e rassicurazione, caratteristico di tutte le culture (di fatto, portatrici di identità), rispetto all’incertezza ed alla variabilità della vita e del reale. Isolare, separare e recludere i saperi, le conoscenze, le esperienze, i vissuti, è operazione complessa che, da sempre, segna l’evoluzione dei sistemi sociali, delle organizzazioni, dell’azione sociale. Si tratta, peraltro, di funzioni strategiche assolte proprio dai modelli culturali. D’altronde definire e creare distinzioni fa parte della nostra educazione e formazione al pensiero logico, anche se c’è dell’altro. Continuiamo a vedere, ad osservare, a tentare di comprendere la realtà secondo logiche, modelli, schemi che ne riducono (apparentemente) la varietà, l’imprevedibilità, la ricchezza. Convinti di poter ingabbiare tutta la vitalità dello spirito, la complessità dell’umano, in formule matematiche e sequenze infinite di dati e numeri. Convinti di poter misurare anche la “qualità” in termini obiettivi, oggettivi, scientifici – a mio avviso, in molti casi (vorrei dire “sempre”, ma mi tengo sempre un margine di dubbio e incertezza), si tratta di una contraddizione in termini – ricorrendo esclusivamente a strumenti e dati quantitativi, e con riferimento a tutti gli ambiti della prassi e della produzione materiale e intellettuale, ricorrendo a semplificazioni (sempre, seducenti) presentate, ancora una volta, come “dati di fatto”.
Continuiamo a cercare una conoscenza che confermi le nostre convinzioni, le nostre ipotesi di partenza, i nostri modelli culturali ed educativi, i nostri pregiudizi e i nostri stereotipi. Una conoscenza che rimane dei pochi, delle èlites, spesso schiacciata sull’IO, reclusa nell’IO. Una conoscenza che si configura quasi come dominio esclusivo dell’io, di tanti io isolati nella folla, nelle moltitudini…connessi, iperconnessi, ma incapaci di comunicare e riconoscere l’altro da noi. Processi e dinamiche complesse che non tengono in considerazione la natura intrinsecamente collaborativa e cooperativa, oltreché condivisa dei processi culturali e comunicativi, oltre che della stessa conoscenza. Lungo queste traiettorie, confuse e fluttuanti, si annidano i dilemmi della ipercomplessità e della società ipercomplessa…e le parole, i segni, i linguaggi, più o meno complessi, non si fanno più ponti bensì muri, separazioni, elementi di divisione.
Continuiamo a vedere, osservare, provare ad comprendere i sistemi come oggetti. In altre parole continuiamo a dividere, a separare ciò che invece è legato, strettamente interconnesso e interdipendente, spinti anche e soprattutto dai nostri limiti, dalle nostre inadeguatezze, dalla nostra incompletezza e vulnerabilità.
Ricomporre le fratture per riscoprire la complessità
Ed è proprio da qui che dovremmo ripartire, ripensando a fondo l’educazione e la formazione, recuperando le dimensioni complesse della complessità educativa (1995 e sgg.), ricomponendo la frattura tra l’umano e il tecnologico, tra l’umano e il naturale, tra l’umano e l’artificiale, tra il dentro e il fuori. E perché, oltre ai testi, ci sono i contesti che li influenzano. Nel quadro di relazioni sistemiche e di un sistema di significati e valori definito e costruito, socialmente e culturalmente, proprio all’interno di quel gruppo e o di quel contesto. È tempo di riportare le emozioni, la creatività, l’immaginario, al centro dei processi educativi e formativi. È tempo di ricreare ponti e sinergie, è tempo di ricomporre ciò che è stato con troppa superficialità separato e diviso, consapevoli che, soltanto dalla condivisione di una “cultura dell’errore” e dell’imprevedibilità (ibidem), si potranno generare conoscenza e creatività.
Sfera cognitiva, sfera emotiva e – aggiungo – sfera sociale. È tempo di ricomporre alcune fratture che caratterizzano non soltanto i saperi, le conoscenze, le competenze, consapevoli della natura intrinsecamente collettiva e collaborativa della conoscenza (cfr. Sloman, S., Fernbach, P., 2017; Dominici, 2005, 2014, 2017b, 2017c, 2018). Si tratta di fratture che segnano anche le singole esistenze, la realtà e le nostre visioni della realtà. Si tratta di fratture importanti e radicate nelle culture organizzative e, perfino, in quelle scientifiche; fratture che condizionano, non soltanto l’evoluzione dei saperi e della conoscenza, ma anche le nostre abilità e capacità di abitare l’ipercomplessità e rispondere, attraverso anche i modelli culturali, alle istanze dell’incertezza, oltre che alle anomalie del vivente e del reale. Si tratta di fratture che condizionano anche, e soprattutto, le nostre esistenze e i nostri vissuti sociali e culturali, il modo stesso di concepire la vita e l’esistenza, le relazioni, l’incontro con L’Altro da Noi, il pensiero e l’azione rispetto a ciò che è e sarà sempre ingovernabile, imprevedibile, talvolta ignoto. “Dentro” e “fuori”: è tempo di abitare i confini e le tensioni che questa ipercomplessità comporta.
Perché soltanto dalla ben nota “fine delle certezze” (Prigogine) potranno generarsi conoscenza e creatività; e la conoscenza, da sempre, si annida negli errori della vita (Canguilhelm).
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1950, The Human Use of Human Beings, trad.it., Introduzione alla cibernetica. L’uso umano degli esseri umani, Bollati Boringhieri, Torino 1966.