economia dell'attenzione

Click baiting, così le big tech finanziano la disinformazione

La disinformazione trionfa online e assume forme sempre più sofisticate, foraggiata dalle big tech. La sensazione è che di fronte alla complessità della società del XXI secolo, le regole a tutela del pluralismo e dei diritti fondamentali entrino pesantemente in crisi; che non esista la possibilità di un business etico

Pubblicato il 24 Gen 2022

Barbara Calderini

Legal Specialist - Data Protection Officer

big tech

Il modello economico delle piattaforme social, basato sul programmatic advertising, con facilità funge da catalizzatore per l’industria dei bot e delle troll farm che divengono a tutti gli effetti attori chiave a sostegno dei mercati “redditizi” della verità.

Lo conferma, tra le altre varie e autorevoli fonti, un’ indagine del MIT Technology Review, basata su interviste con esperti, analisi di dati e documenti inediti, una sorta di sequel dei Facebook Papers di Francis Haugen, che rivela l’ ampia portata delle pratiche messe in atto da Facebook e Google per finanziare l’ecosistema clickbait e così alimentare il deterioramento degli ambienti informativi globali a discapito della qualità dell’informazione, del diritto a informarsi e ad essere informati, dell’autodeterminazione degli individui e della stabilità politica, specie dei paesi più fragili.

Democrazia dei social: perché è un problema gigantesco e come uscirne

L’esempio del Myanmar: il mix esplosivo di clickbait e fake news

Prendendo ad esempio il Myanmar, il MIT, sulla base dei dati estratti da CrowdTangle (lo strumento di analisi di proprietà di Facebook che consente a chiunque di tenere traccia dei post popolari su Facebook e Instagram), mostra come nel 2018, lo stesso anno in cui scoppiò lo scandalo Cambridge Analytica, durante la massiccia crisi politica sfociata nel golpe militare in Myanmar, dove “Facebook è sinonimo di Internet”, i contenuti scadenti avessero sopraffatto altre fonti di informazione.

Il rapido degrado dell’ambiente digitale del Myanmar si è infatti portato a livelli altissimi: tutto il traffico di rete inerente particolari momenti di rilevanza politica deriva da siti clickbait e fonti portatrici di fake news e polarizzazione; gli editori professionisti si confermano per lo più assenti dalle condivisioni di contenuti o comunque inconferenti.

Un palcoscenico che con facilità, grazie anche alla profilazione algoritmica alimentata dalla pervasiva sorveglianza digitale, diviene “focolaio di estremismo e di distorsione cognitiva” e in cui eventi critici particolari, come la storia delle proteste anti-golpe del Myanmar, con poco sforzo, possono essere plasmati da frammenti video e immagini, asserviti agli interessi di parte, dell’ audience o della partigianeria politica.

Uno dei tanti video di Facebook Live (lo strumento a disposizione degli utenti della piattaforma per la trasmissione di dirette streaming tramite una Pagina, un Gruppo o un Evento) esaminati dai ricercatori del MIT riprende in streaming le proteste contro il colpo di stato che ha rovesciato la leader eletta Aung San Suu Kyi, riportando valori di condivisione pari a quasi 50.000 e oltre 1,5 milioni di visualizzazioni. Cifre queste piuttosto eloquenti specie se rapportate alla dimensione del Myanmar con una popolazione di 54,61 milioni nel gennaio 2021 di cui 29 milioni di sono utenti social, prevalentemente di Facebook.

“L’enorme volume di fake news e click bait ha agito come petrolio sulle fiamme delle tensioni etniche e religiose già pericolosamente alte. Ciò ha influenzato l’opinione pubblica e ha peggiorato il conflitto, che alla fine ha portato alla morte di 10.000 Rohingya, secondo stime prudenti, e allo sfollamento di altri 700.000. Nel 2018, un’indagine delle Nazioni Unite ha stabilito che la violenza contro i Rohingya costituiva un genocidio e che Facebook aveva svolto un “ruolo determinante” nelle atrocità. Mesi dopo, Facebook ha ammesso di non aver fatto abbastanza “per impedire che la piattaforma venisse utilizzata per promuovere la divisione e incitare alla violenza offline”. Nelle ultime settimane, le rivelazioni dei Facebook Papers, una raccolta di documenti interni forniti al Congresso e a un consorzio di testate giornalistiche dall’informatore Frances Haugen, hanno riaffermato ciò che i gruppi della società civile hanno affermato da anni: l’amplificazione algoritmica di contenuti provocatori di Facebook, combinata con la sua incapacità di dare priorità alla moderazione dei contenuti al di fuori degli Stati Uniti e dell’Europa, ha alimentato la diffusione di incitamento all’odio e disinformazione, destabilizzando pericolosamente i paesi di tutto il mondo” rivela il report MIT.

Il meccanismo perverso del clickbaiting emotivo: di cosa parliamo

Clickbaiting e sharebaiting: titoli dai toni enfatici, accattivanti, retorici, allusivi, deep fake e contenuti artefatti, destinati a fungere da “gancio”, il cui scopo principale è sfruttare al meglio il legame[1] tra potenziale viralità dei contenuti e particolari configurazioni di valenza, eccitazione e dominanza emotiva (curiosity gap) che catturano l’attenzione e incoraggiano gli utenti a fare click in una determinato collegamento ipertestuale.

https://www.technologyreview.com/2021/11/20/1039076/facebook-google-disinformation-clickbait/

Il profitto prevale sulla responsabilità del divulgatore, sull’importanza della veridicità dell’informazione, a tutto vantaggio di metodi di produzione e promozione dei contenuti non qualitativi, bensì quantitativo-algoritmici: click sugli annunci, reazioni sui social media, condivisioni, transizioni, contenuti streaming e molto altro.

Ovvero, come Google, Facebook e altre aziende tecnologiche stanno cambiando il giornalismo e sostenendo la rapida diffusione della disinformazione sponsorizzata online, consapevoli delle scarsa efficacia delle rispettive tecniche di moderazione di contenuti “boost first, moderate later”[2] (ogni contenuto viene reso più o meno visibile a seconda delle decisioni prese dall’algoritmo, e i contenuti sgradevoli vengono rimossi solo a posteriori) e fact-checking, attuate con poca convinzione e scarso interesse.

L’arte di “ottenere traffico”

L’arte di “ottenere traffico” è, infatti, un’abilità che non insegnano alla scuola di giornalismo.

La presenza di algoritmi rende l’ambiente digitale disintermediato, inondato da notizie di tutte le tipologie, spesso prive del minimo riscontro e artatamente costruite, anche tramite falsi account, per colpire gruppi specifici di utenti. La distinzione tra fatti ed opinioni si assottiglia a tal punto da divenire del tutto inesistente.

Disinformazione, per l’appunto, che esposta ai pericoli di tipo tecnologico, geopolitico e sociale facilmente è causa di “incendi digitali” e distorsioni cognitive, ormai parte integrante della società della comunicazione.

La riluttanza delle piattaforme a prevenire miliardi di visualizzazioni su pagine di disinformazione, così come la scarsa attendibilità delle tecniche a sostegno della verità del messaggio, contribuiscono pesantemente alla rarefazione della portata relazionale tra informatore e destinatario dell’informazione e favoriscono quel particolare controllo esercitato sul tipo di ecosistema informativo che, a seconda dei casi, avvantaggia la dimensione di distributore di contenuti e potenziale consumatore, potenziale elettore, potenziale sostenitore: l’utente diviene una pedina utile a raggiungere determinati scopi, grazie alla condivisione virale della pubblicazione[3].

Il livello di attenzione catturato da un click, misurato in termini di impression (visualizzazioni), di Click-Through Rate (CTR), ovvero la percentuale di utenti che visualizzano un annuncio specifico e Cost Per Thousand (CPM), ovvero il prezzo di 1.000 impressioni pubblicitarie su una pagina web, determina il premio della condivisione dello specifico contenuto e il successo delle tattiche di clickbaiting.

Dall’algoritmo di ricerca di Google a quello del feed di notizie di Facebook, il processo alla base dell’esperienza utente agisce come una mano invisibile ed è per questo intenzionalmente opaco, segreto.

È questo uno dei caratteri salienti del modello di business principale delle piattaforme digitali.

Sebbene Facebook, Google e le altre piattaforme digitali si affannino a promuovere il loro impegno nel fronteggiare la proliferazione di titoli ingannevoli e sostengano la necessità di migliorare l’esperienza dei propri utenti, la ratio economica alla base delle loro strategie si nutre dei feed e incentiva le società digitale e dei media a competere a livello di singole storie.

L’economia dell’attenzione detta legge e mostra il fianco alle speculazioni algoritmiche dei big del web.

In tal senso, padroneggiare il meccanismo dell’eccitazione emotiva nella progettazione della divulgazione dei contenuti digitali diviene essenziale.

La sorveglianza intrusiva degli intermediari digitali, che alimenta gli algoritmi basati sul “coinvolgimento”, stabilisce, infatti, per gli inserzionisti come per gli spammer politici il livello di appetibilità del contenuto trasmesso e diviene moneta di scambio a garanzia della migliore attenzione dell’esercito di utenti dall’appetito apparentemente infinito per certi contenuti.

L’imperativo della condivisione

È il regno della pubblicità digitale dove marketer e attori politicamente ispirati combattono per l’attenzione e dove monetizzazione e condivisibilità diventano indissolubilmente legati.

E mentre micro-targeting, profilazione psicografica e personalizzazione favoriscono le campagne degli inserzionisti o la propaganda elettorale di certe fazioni diventando la causa principale della polarizzazione sociale, la pratica di regolamentare o censurare i post generati dagli utenti, la moderazione dei contenuti, promossa dalle società social media, al centro della scena nei dibattiti sulla libertà di espressione, mostra tutta la sua fragilità così come gli evidenti limiti, spesso causa dei più grandi scandali delle piattaforme stesse.

Un documento interno, esaminato dal MIT e redatto nel 2019 da Jeff Allen, al tempo in cui era ancora data scientist di Facebook, prima di lasciare l’azienda e diventare cofondatore dell’Integrity Institute, evidenzia come dal 2016, sulla scia delle elezioni americane, schiere di autori clickbait, alcuni con buona probabilità riconducibili all’IRA – Russia Internet Research Agency, situati in Macedonia e Kosovo, abbiano continuato ad essere remunerati dal social con introiti talmente elevati da rivelarsi più appetibili rispetto ad altre forme di lavoro disponibili, con buona pace delle politiche di contrasto alla disinformazione sbandierate da Facebook.

“I proprietari delle pagine non parlavano particolarmente bene l’inglese, lo spagnolo o qualsiasi altra lingua comunemente parlata in America. Non avevano alcuna reale comprensione della politica americana. E il loro interesse principale nell’entrare nella scena dell’editoria politica americana era fare soldi velocemente e causare il caos” scrive Allen.

Facebook, infatti, dal lancio del programma Instant Articles nel 2015, pensato per “per dare agli editori il controllo sulle loro storie, sull’esperienza del marchio e sulle opportunità di monetizzazione[4]”, passando per le rassicurazioni rese dal CEO Mark Zuckerberg durante l’audizione al Senato degli Stati Uniti del 10 aprile 2018, che preannunciavano l’assunzione di “dozzine” di oratori birmani per moderare i contenuti, fino alle plateali dichiarazioni sulle sinergie in atto con i gruppi della società civile per identificare figure inattendibili e sviluppare nuove tecnologie per combattere l’incitamento all’odio, manifesta ancora oggi significative lacune ed evidenti discrasie operative che inficiano la validità delle azioni di rilevamento, etichettatura e contrasto alla disinformazione. Ciò in modo particolare nel sud-est asiatico dove, piuttosto che lavorare per migliorare l’esperienza dell’utente finale, da tempo, viene favorito l’ecosistema di contenuti clickbait e la redditività dei servizi di monetizzazione.

“I colossi della tecnologia stanno pagando milioni di dollari agli operatori di pagine clickbait, finanziando il deterioramento degli ecosistemi informativi in tutto il mondo” riporta l’approfondimento di Allen.

Tanto verrebbe avvalorato, oltre che dalle divulgazioni fatte alla Securities and Exchange Commission e al Congresso degli Stati Uniti dall’informatore Frances Haugen, anche da un report approfondito di Reuters, da una serie di analisi e documenti messi insieme da The Associated Press e, ulteriormente confermato, dalle importanti risultanze del progetto “The Myanmar Social Media Insights” realizzato a settembre, a seguito del colpo di stato militare del 01 febbraio 2021, per documentare e approfondire le attività nella sfera dei social media in Myanmar.

Non ultimo risulta particolarmente illuminante il set prove raccolte e analizzate dal team anti-disinformazione di Avaaz che dimostra come Facebook, nel corso del 2020, otto mesi prima delle elezioni americane, avrebbe potuto prevenire qualcosa come 10,1 miliardi di visualizzazioni ottenute dalle pagine più influenti che condividevano ripetutamente disinformazione.

Jeff Allen riferisce che molte delle inefficienze riscontrate negli strumenti di controllo dei contenuti attuate da Facebook potessero essere risolte in modo relativamente semplice; bastava solo volerlo. Nello stesso report interno del 2019 aveva suggerito l’incorporazione dello strumento di analisi “Graph Authority“, simile al PageRank di Google, nell’algoritmo del feed di notizie: “Aggiungere anche solo alcune semplici funzionalità come Graph Authority e ritirare il quadrante dalle funzioni puramente basate sul coinvolgimento probabilmente ripagherebbe un sacco sia nello spazio di integrità che… probabilmente anche nel coinvolgimento”. Ma l’avvertimento, insieme a tutte le altre importanti criticità rese nel report, caddero nel vuoto.

E certo, artefici esperti della disinformazione, attori malintenzionati mossi da fini commerciali o politici, non si fanno cogliere impreparati nei confronti delle vantaggiose opportunità “a portata di click” offerte dalle inefficienze operative delle politiche di controllo dei contenuti e, del tutto indisturbati, si adattano al nuovo ambiente prodigandosi, peraltro con notevole riscontro di pubblico, nella pratica degli insegnamenti tratti dall’economia dell’attenzione.

Forti dei privilegi concessi dalla sorveglianza intrusiva che Facebook e Google utilizzano per addestrare algoritmi basati sul “coinvolgimento”, beneficiano della garanzia che un vasto pubblico di utenti continui a prestare attenzione ai contenuti curati.

Quando Jeff Allen rese il suo rapporto di analisi a Facebook, nel 2019, stimò che le fattorie troll raggiungevano ogni settimana 100 milioni di americani e 360 milioni di persone in tutto il mondo. Nell’arco di un mese Facebook era in grado di dare visibilità a post clickbait plagiati a 140 milioni di americani. Non solo, poiché agli autori della disinformazione era in tal modo concesso di poter triplicare le rispettive interazioni mensili: da 97 milioni di interazioni nell’ottobre 2019 a 277,9 milioni di interazioni nell’ottobre 2020, raggiungendo le prime 100 pagine dei media statunitensi (es. CNN, MSNBC, Fox News) su Facebook.

Anatomia dell’hacking dell’attenzione: come funziona

Una pubblicazione della NATO StratCom CoE sul mercato nero della manipolazione dei social media fornisce un’analisi approfondita di questo problema e il MIT nel suo report, grazie anche al contributo offerto da Jeff Allen, rende una descrizione altrettanto efficace del modus operandi tipico di questi leader del clickbaiting operanti sulla piattaforma Facebook.

  • Ci sono i creatori di siti, incubatori di contenuti plagiati. Clickbaiting Farm altamente performanti e ben istruite allo scopo. Operano singolarmente oppure in gruppi, aprono e gestiscono, a basso costo, diversi account Instagram e Facebook, “che monetizzano direttamente o utilizzano per indirizzare più traffico ai loro siti”.
  • I contenuti clickbait prodotti vengono registrati tramite le funzionalità offerte da Instant Articles e Audience Network fino a raggiungere gli investitori pubblicitari che, avendo come obiettivo quello di massimizzare i profitti con la vendita di pubblicità, trattano, attraverso il meccanismo noto come header bidding, per l’inserimento dei relativi annunci.
  • Ogni contenuto viene quindi condiviso tramite un numero indefinito di pagine del social e destinato ai click e alla diffusione virale assicurata dal coinvolgimento manipolatorio di utenti “chirurgicamente profilati” orientati e interessati in corrispondenza di contenuti correlati.

Altrettanto avviene con Google, che oltre ad essere un potente aggregatore di notizie a sé stante, grazie al dominio della ricerca, è anche uno stratega di prim’ordine di ben note campagne di disinformazione, tra cui quella che ha coinvolto un gruppo di autori macedoni, siti a Veles, una piccola città che conta 55.000 abitanti che, nel corso delle elezioni di Donald Trump, in America, ha potuto generare incassi importanti grazie alle “ad impression,” ai click generati da siti creati appositamente per condividere i contenuti abbondantemente distorti: fornitori che gestiscono servizi di manipolazione informativa su YouTube acquistano annunci da Google e promuovono indisturbati i loro servizi in pubblico.

Il MIT Technology Review ha potuto esaminare un video tutorial che guida gli spettatori passo dopo passo attraverso un flusso di progettazione clickbait: operatori cambogiani malintenzionati selezionano i contenuti più performanti in ciascun paese, i video YouTube più virali in diverse lingue, e attraverso uno strumento automatico riescono a convertirli in un articolo per i loro siti spammer.

Almeno 29 canali YouTube analizzati dal MIT diffondevano disinformazione sulla situazione politica in Myanmar. Ed erano tutti contenuti e articoli clickbait che poi venivano riproposti e duplicati su pagine Facebook.

Il MIT cita, tra gli altri, il caso di LGBT News e Women’s Rights News (normalmente impegnati a promuovere i diritti delle donne e della comunità LGTBQ), che attraverso otto pagine Facebook, di cui due verificate con oltre 1,7 milioni e 1,5 milioni di follower (tra cui Occupy Democrats, Union of Concerned Scientists e Women’s March Global), nonché tramite pagine social di altre testate giornalistiche digitali con cui sembrerebbero collaborare dietro compenso, durante le elezioni americane del 2020, l’insurrezione del 6 gennaio e l’approvazione della “legge del battito cardiaco” antiaborto del Texas, hanno potuto pubblicare e duplicare contenuti fuorvianti, a chiaro sfondo politico, servendosi di una fitta schiera di spammer motivati finanziariamente o politicamente orientati, che poi hanno potuto monetizzare contemporaneamente sia con Instant Articles che con Google AdSense.

Altrettanto, stando alle risultanze rese note dal report di Jeff Allen, sarebbe avvenuto nelle Filippine in vista delle elezioni del 2016, dove una fabbrica di clickbait, registrata formalmente come Twinmark Media ha potuto guadagnare la cifra di $ 8 milioni (400 milioni di pesos filippini) finanziata da Facebook e Google (che però non confermano), prima che, nel 2019, Facebook, messo alle strette, eliminasse le 220 pagine Facebook, i 73 account Facebook e i 29 account Instagram ad essa collegati.

Le troll factory esaminate da Allen erano dirette a quattro diversi cluster di utenti: indiani d’America, afroamericani, cristiani americani e donne americane.

Nel momento in cui il MIT Technology Review ha reso pubblico il suo approfondimento, cinque di quei gruppi troll erano ancora attivi: tra questi la pagina Facebook rivolta ai neri americani chiamata “My Baby Daddy Ain’t Shit”, che mensilmente raggiunge non meno di 30 milioni di utenti statunitensi.

Per quanto riguarda Google, lo stesso opera come intermediario, avvalendosi della propria “Rete Display” e del programma basato su connessioni server a server , denominato Open Bidding (o Exchange Bidding in Dynamic Allocation – EBDA), il noto sistema di monetizzazione per gli editori, dove piattaforme di scambio di terze parti vengono invitate a competere con offerte in tempo reale (RTB) per l’inventario presente in un’unica asta. Subentrano poi, a seconda dei casi, le tecnologie note come Google Ad Manager (DoubleClick for Publishers), Ad Sense o Ad Exchange, ovvero strumenti di gestione degli annunci per vendere, acquistare, pubblicare e gestire spazi pubblicitari, necessari nell’allocazione dinamica dei contenuti e nelle offerte di intestazione (asta di annunci in tempo reale). Gli inserzionisti vengono in tal modo messi in condizione di raggiungere gli utenti su centinaia di migliaia di siti web e app in tutte le categorie di publisher: dai siti più grandi e famosi a siti, pagine e segmenti di nicchia.

In apparenza può sembrare un meccanismo oliato, talmente automatizzato da non poter essere artatamente ottimizzato a seconda degli interessi contingenti; in realtà i fatti raccontano una storia diversa.

L’accordo “Jedi Blue” tra Facebook e Google

A tal riguardo merita di essere menzionata la vicenda che negli USA, vede Google ancora impegnato a rispondere di una nuova pesante accusa antitrust nell’ambito della pubblicità programmatica.

Programmatic advertising, così Google (e Facebook) manipolano il mercato degli annunci elettronici

L’azione, promossa da una coalizione di Stati guidati dal procuratore generale del Texas, il conservatore Ken Paxton, rappresenta l’ennesima mossa compiuta nel complesso scacchiere giudiziario, in cui Google è chiamato a difendersi – sebbene da diverse angolazioni e nei confronti di distinte coalizioni di Stati e organi di governo – dai diversi addebiti di monopolio e pratiche di esclusione concorrenziale: dalla manipolazione della ricerca, alle collusioni con Facebook per la vendita di tecnologia pubblicitaria.

In particolare, questa nuova imputazione ritiene Google responsabile di aver confezionato un “accordo illegale” che lo legherebbe al gigante tecnologico suo rivale Facebook.

Il riferimento è ad un’intesa piuttosto discutibile chiamata Jedi Blue che, se da una parte avrebbe permesso a Google di preservare il proprio dominio nel settore del programmatic advertising, dall’altra avrebbe garantito a Facebook, in cambio della promessa di non supportare alcun sistema pubblicitario concorrente, di beneficiare di condizioni speciali nel mercato degli annunci on line. Tra i vari trattamenti di favore Google avrebbe concesso a Audience Network di fare offerte direttamente sul suo strumento Open Bidding, senza passare per il marketplace di terze parti (e con una commissione ridotta rispetto ai suoi concorrenti (tra il 5 e il 10%).

Un percorso quindi preferenziale, a vantaggio del social network, per l’accesso speciale alle aste nonché una vera e propria alleanza anticoncorrenziale e una spartizione preordinata a fissare prezzi e dividere il mercato della pubblicità programmatica tra di loro.

L’accordo sarebbe stato siglato con la firma del direttore operativo di Facebook Sheryl Sandberg, a settembre 2018. Google ovviamente smentisce.

“In questo monopolio pubblicitario all’interno di un mercato scambiato elettronicamente, Google gestisce in via esclusiva informazioni interne “per agire come lanciatore, ricevitore, battitore e arbitro. Tutto allo stesso tempo”, sostiene Ken Paxton, il procuratore generale del Texas.

Ed è un’allegoria, quella del baseball, che rende bene l’idea.

Le cifre del business advertising di Facebook e Google

Se come riporta il MIT, Instant Articles non ha riscosso il successo atteso nei confronti dei grandi editori mainstream come il New York Times, BuzzFeed, NBC, The Atlantic, The Guardian, BBC News, Spiegel e Bild, altrettanto non è stato per quegli editori e sviluppatori (19.000 editori e sviluppatori) specie del sud del mondo (tra cui Myanmar, Pakistan, Etiopia) – dove Facebook si è rivelato in grado di offrire informazioni di targeting più dettagliate di qualsiasi altra piattaforma di annunci digitali, compreso Google – che hanno continuato ad affidarsi ad Instant Articles in combinato con le inserzioni di Audience Network, generando – dal 2016 – un business che oggi vale diversi miliardi, malgrado il framework AppTracking Transparency (ATT) di Apple in iOS 14.5 sia entrato in vigore alla fine di aprile 2021.

“Continueremo a lavorare per aiutare le migliaia di editori e sviluppatori che si affidano alle inserzioni di Audience Network. Investiremo tempo e risorse nello sviluppo di prodotti per la monetizzazione per gli editori e nel supporto su piattaforme diverse da iOS 14”. Tanto si leggeva in un post nel blog del social datato10 settembre 2020.

I numeri svelati dal MIT riportano cifre alquanto risonanti: “nel 2018, Facebook ha riferito di aver pagato 1,5 miliardi di dollari a editori e sviluppatori di app. Nel 2019, quella cifra aveva raggiunto diversi miliardi”.

E, dunque, che si tratti di Facebook o di Google, sebbene gli obiettivi palesati dai giganti del web continuino a promuovere svariate politiche di moderazione dei contenuti e miglioramento dell’esperienza dell’utente, sciorinando strategie di contrasto alla disinformazione basate su algoritmi di prim’ordine, intelligenza artificiale e revisione umana, dietro le quinte la vera massima priorità permane ovviamente quella legata alle logiche di business e all’incremento dei profitti.

Con buona pace delle pesanti accuse (nel 2021, il Gambia ha intentato un’azione di genocidio contro Facebook davanti alla Corte internazionale di giustizia e anche il Comitato per la pace e l’armonia dell’Assemblea legislativa di Delhi ha convocato Facebook nel 2021 per un’indagine relativa alle rivolte di Delhi del febbraio 2020) gravanti a livello globale sulle due piattaforme digitali, le performance trimestrali di Google mostrano come lo stesso continui a navigare a vele spiegate nel mare del business digitale: totalizza 65,1 miliardi di dollari di fatturato nel terzo trimestre 2021, in crescita del 41% su base annuale.

Emarketer prevede che Google catturerà il 38,1% di tutta la crescita globale della spesa pubblicitaria digitale del 2021, seguito da Facebook i cui ricavi pubblicitari netti negli Stati Uniti cresceranno del 32,1% annuo fino a toccare la cifra di $ 50,30 miliardi nel 2021.

Fonte Immagine: https://www.emarketer.com/content/facebook-advertising-2021

Sempre nel 2021 gli investimenti pubblicitari digitali supereranno probabilmente quota 211 miliardi di dollari, con un incremento del 38,3% rispetto al 2020 e ben il 64% della crescita sarà assorbito da quello che la società di market intelligence definisce un ‘triopolio’ formato da Google, Facebook e Amazon.

Conclusioni

L’economia dell’attenzione svela le pesanti contraddizioni che inquinano “l’agorà digitale” in cui le piattaforme social prosperano con notevole soddisfazione e piuttosto indisturbate.

Tra self regulation statunitense e hard law europea, l’analisi delle strategie seguite dai principali “narratori” del web rivela da una parte politiche di contrasto alla disinformazione piuttosto blande e, dall’altra, modelli di business in ottima salute, perfettamente adattabili ai nuovi contesti tecnologici globalizzati seppur “disinformati”.

Il costituzionalismo digitale si rivela ancora il grande assente in uno spazio digitale che è ormai fonte di privilegi per pochi attori tecnologici e in cui avvizzisce quel mercato delle idee fondato sull’autodeterminazione e sulla libertà fondamentali delle democrazie liberali.

La moderazione della libertà di espressione cade vittima di overload informativi e della selezione algoritmica basata sul coinvolgimento emozionale.

Trionfano le operazioni di disinformazione ed assumono forme sempre più sofisticate.

La stessa economia dell’attenzione viene “hackerata” a vantaggio di viralità e riciclo di contenuti artefatti che gli attori della disinformazione usano per insediare, amplificare e, quindi, legittimare storie false e polarizzanti.

Le battaglie più importanti per la tutela dei diritti sono ora a portata di click.

La sensazione è che di fronte alla complessità crescente della società del XXI secolo le regole poste a tutela del pluralismo e della difesa dei diritti fondamentali entrino pesantemente in crisi fino a mostrarsi piuttosto inconferenti; che non esista la possibilità di un business etico e che l’immaginazione in mano alle élite sia già abbondantemente al potere.

È questo il preambolo di futuro, almeno per ora, piuttosto inquietante di cui la verità è già la prima vittima, in cui la capacità di autodeterminazione degli individui è gravemente compromessa e i nostri valori fondamentali profondamente in pericolo.

Il successo che certe scelte, di natura giudiziaria o anche regolamentare, saranno in grado di determinare rispetto alle evoluzioni sociali in corso e alla responsabilizzazione della dimensione orizzontale dei poteri privati forti, dipenderà in primis dalle persone che le hanno determinate.

Note

  1. È interessante sul punto lo studio realizzato da Marco Guerini a Trento Rise in Italia e Jacopo Staiano alla Sorbonne Université di Parigi intitolato “Deep Feelings: A Massive Cross-Lingual Study on the Relation between Emotions and Virality” https://arxiv.org/abs/1503.04723
  2. Come scrive Brandom Russel su The Verge – https://www.theverge.com/2020/3/17/21183341/facebook-misinformation-report-nathalie-marechal
  3. Cfr. J. PIEPER, Abuso di parola, abuso di potere, trad. it., Milano 2020, pp. 31-32
  4. Stando alla policy di Instant Articles gli editori possono decidere di vendere annunci nei loro articoli e mantenere le entrate, oppure possono scegliere di utilizzare Audience Network di Facebook per monetizzare l’inventario invenduto. Gli editori avrebbero anche la possibilità di tenere traccia dei dati e del traffico tramite comScore e altri strumenti di analisi. Il lancio dello strumento ha coinvolto nove partner: The New York Times, National Geographic, BuzzFeed, NBC, The Atlantic, The Guardian, BBC News, Spiegel e Bild.

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