La scuola, ma prima di tutto – a monte – la politica, devono ricominciare a sostenere la cultura del progetto, abbattuta dallo “sdoganamento” del copia e incolla, divenuto ormai vero e proprio stile di vita, che pervade non solo i lavori degli studenti, ma anche la progettazione didattica.
Ecco perché è una missione fondamentale anche in vista del raggiungimento del SDG (Sustainable Development Goal) 4 dell’Unesco, che si pone come traguardo quello di “fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti” e per recuperare lo sviluppo delle competenze in grado di far crescere il livello di occupabilità dei ragazzi.
L’assenza di cultura progettuale, cause e conseguenze
L’uomo, per sua natura, è talmente resiliente che con il tempo si abitua a tutto, cosicché l’eccezionalità e la patologia che si ripetono, perdendo il carattere di novità, diventano normalità e generano assuefazione accompagnata, a volte, da rassegnazione.
L'”italiano” medio, per ragioni storiche, è ancora più resiliente dei cittadini di tante altre nazioni e probabilmente a causa di ciò, ormai, non fa più molto caso al clima di campagna elettorale che pervade la nostra politica, e più in generale non fa più caso alla politica nel suo complesso. Forse mostra ancora una qualche sensibilità per l’assenza o la troppa presenza dello Stato ma, con rassegnazione e allenando costantemente la propria creatività, escogita soluzioni che consentano di tirare avanti e si assuefà, inevitabilmente, ad orizzonti limitati.
In questo contesto è inevitabile che l’assenza di cultura progettuale dalle nostre classi politiche finisca per trasmettersi, a cascata, a tutti gli strati della popolazione sino a pervadere le giovani generazioni. Ormai è prassi che i giovani durante il percorso della scuola secondaria di primo grado (qualcuno anche prima) si interroghino sul perché impegnare il proprio tempo per progettare e costruire un futuro che implica sacrifici, quando è possibile vivere uno dei presenti proposti dall’attuale società, preconfezionati e riproducibili che, in apparenza, sembrano in grado di generare risultati immediati.
Percorsi che richiedono dispendio di energie e di tempo vengono considerati non praticabili, al di sopra delle proprie possibilità. Si accetta e si autocertifica la propria inadeguatezza ancor prima di metterla alla prova.
La scarsa propensione al progetto, dunque, finisce per fondersi perfettamente con la propensione alla riproducibilità, figlia della tecnologia.
Fu con l’avvento della fotografia che la riproducibilità tecnica divenne fenomeno di massa, e benché non priva di pericoli, venne celebrata come il passe-partout in grado di sostenere le esigenze rivoluzionarie e di spalancare le porte alla democrazia e alla diffusione della conoscenza (W. Benjamin).
La trasmissione via cavo e il metodo di trasmissione Bartlane fecero il resto.
In maniera e per ragioni non dissimili, più di recente, sono stati salutati con la stessa enfasi l’avvento del protocollo http e lo sviluppo del web; basti ricordare il ruolo da protagonisti che ebbero nella primavera araba (tanto per citare un esempio) e che ancora stanno avendo nella democratizzazione del sapere (wikipedia quale realizzazione del sogno ipertestuale di Xanadu).
Ormai nessuno può fare a meno del web e dell’enorme serbatoio di servizi e di sapere che ospita e dal quale si può pescare “chirurgicamente” tramite motori quali Google.
Il “copia e incolla” diventa normalità
Che succederebbe se improvvisamente venissero a mancare il web e i motori di ricerca ?
Lasciamo stare … ciò che interessa qui è riflettere sugli effetti che l’accesso iperfacilitato al sapere, mediato dalla rete, genera sui processi educativi. E inevitabilmente torna a riecheggiare il quesito già formulato in precedenza: perché impegnarsi in percorsi impegnativi per produrre nuovi “oggetti del sapere” quando se ne hanno a disposizione una molteplicità a cui si può facilmente accedere e tra i quali si può scegliere quelli che meglio si adattano alla bisogna ?
Oggi la quasi totalità dei lavori di ricerca assegnati agli studenti, a qualsiasi livello, genera la riproduzione più o meno elaborata di fonti reperite sul web, e sin qui poco male perché da qualche parte si deve cominciare. Il problema è che spessissimo, però, gli esiti della ricerca vengono presentati come frutto del proprio ingegno.
Quando va bene i periodi selezionati tramite la pratica del copia e incolla sono introdotti da frasi del tipo: “Dalla ricerca effettuata si evince che …”, “e a questo punto non posso che affermare che …”, ecc.
Poco importa se nel periodare si susseguono stili diversi a comporre un elaborato di cui non è difficile riconoscere la multipla paternità.
Quando si ha “la coda di paglia”, può accadere che vengano eliminate qui e là parole non ritenute essenziali alla formulazione di un pensiero di senso compiuto; ciò nell’illusione che il brano non possa essere rintracciato utilizzando lo stesso metodo dalla pesca a motore “di ricerca” da cui ha attinto in precedenza il copia e incolla.
Ma si può arrivare persino al parossismo di effettuare ricerche su siti in lingua straniera e riportare come proprio il periodare tipico di un traduttore automatico.
Tutto questo nell’adesione più completa alla “riproducibilità tecnica”.
Le conseguenze della cultura della riproducibilità
Tralasciando la sparizione della cultura della citazione e del riconoscimento dei crediti al lavoro altrui (che non mi risulta essere stato abolito dalla filosofia dell’open access e dell’open source, o sbaglio ?) vi sono conseguenze ben più gravi che cominciano ad emergere:
- la perdita della capacità di esprimersi nella propria lingua e di sviluppare un proprio stile linguistico;
- l’incapacità di sviluppare collegamenti e integrazioni tra “oggetti del sapere”;
- il decremento della capacità critica, il cui risultato più evidente è il copia e incolla di testi che appaiono fuori contesto (e vi assicuro che non si tratta di operazioni concettuali di stampo duchampiano).
Giorno dopo giorno, comunque, anche l’anomalia del “copia e incolla senza riferimento alla fonte” sta diventando normalità, e ormai in molti tendono ad assuefarsi e ad assumerla come modus operandi (per fortuna non ancora una “best practice”) in grado di far risparmiare tempo. Ovviamente il tempo di chi la mette in atto, non di chi la deve esaminare i prodotti che essa genera.
La “normalità” del “copia e incolla senza riferimento alla fonte” è oggi testimoniata da alcuni fatti ben precisi:
- è diventata pratica comune anche nei forum quando le discussioni hanno finalità didattiche; anche nel caso di interventi di un solo periodo;
- è molto frequente riscontrarla in tesine e tesi (fonte di riferimento principale i repertori di tesi on-line);
- viene assunta come pratica nella progettazione didattica scolastica (si attinge a piene mani ai progetti rintracciabili sul web) e non è raro incontrarla anche nella pubblicazioni di libri;
- si è propagata persino nella progettazione e nella rendicontazione di progetti europei, nell’ambito dei quali i ricercatori dovrebbero essere pagati per produrre i cosiddetti “deliverables”, promessi al momento della richiesta di finanziamento;
- i giovani non comprendono più il senso della parola plagio e, anzi, alle loro orecchie, suona strano e fastidioso che vi si faccia riferimento … forse ci stiamo avvicinando alle culture orientali (anche se privi dell’abilità di perfezionare i dettagli) ?
Sin qui un elenco di fatti pescati dal perimetro di riferimento tipico del MIUR (istruzione e ricerca), ma vogliamo parlare del giornalismo, di musica, di programmi politici, ecc. ?
Una definizione di competenze
La conseguenza più grave del diffondersi della pratica del “copia e incolla” è, comunque, in assoluto la progressiva rinuncia allo sviluppo delle competenze.
Ma cos’è una competenza ?
Apro questa parentesi perché per qualcuno la competenza appare come un concetto sfuggente, e potrebbe non avere tutti i torti dal momento che ancora oggi si nota una grande confusione sia quando si esamina la letteratura grigia che quando si prendono a riferimento pubblicazioni più paludate.
A mio avviso non è così complicato e con alcune accortezze è possibile dare una definizione condivisibile dai più:
- accettato che le conoscenze sono costituite dall’insieme degli oggetti culturali che definisco il nostro sapere teorico e pratico (quindi anche le procedure);
- accettato che le abilità attengono al saper fare che deriva dal suddetto sapere in una forma che, indipendentemente dal livello raggiunto, fa sempre riferimento alla riproducibilità di un corpus preesistente;
- la competenza la si riconosce come tale solo quando si è in grado di dimostrare un saper fare derivante dal sapere che si esplica in un qualsivoglia contesto caratterizzato da qualsivoglia condizioni al contorno; solo in questo caso l’individuo, competente, diviene produttore di nuovi e più avanzati prodotti culturali caratterizzati, inevitabilmente, da creatività e innovazione.
Le conseguenze della rinuncia allo sviluppo delle competenze
Che il livello di competenza possa dipendere dalla capacità degli individui, ovvero da una sorta di predisposizione innata e che si possa esprimere meglio in un contesto piuttosto che in un altro è comprensibile, ma questo non impedisce che si possa definire cosa sia una competenza e distinguerla in maniera molto netta dall’abilità.
La definizione di competenza, ci aiuta a far apparire ancor più evidente come la pratica del copia-incolla, amplificata dalle possibilità di accesso ai contenuti fornita dal web, risulti essere una delle barriere più imponenti al raggiungimento del SDG 4 dell’Unesco. Quest’ultimo infatti, come noto, non solo prevede per tutti un’eguale possibilità di accesso a un’educazione primaria e secondaria di qualità ma anche, e soprattutto, la possibilità di innescare per ogni individuo uno sviluppo continuo di competenze allo scopo di assicurarne a farne crescere il livello di occupabilità nonché, nell’interesse più generale, uno sviluppo sostenibile sotto tutti i punti di vista: economico, degli stili di vita e di una cittadinanza globale basata su eguaglianza, pace e rispetto.
Senza competenze non si producono nuovi oggetti culturali e dunque avanzamento verso obiettivi che, dunque, non potranno mai essere raggiunti con la sola riproduzione dell’esistente.
Come la scuola può smantellare la cultura del “copia e incolla”
Smantellare la pratica-barriera, ormai patologica, del “copia e incolla” è diventato dunque un obiettivo primario per i docenti della scuola. Per combattere questa battaglia, però, servono armi adatte, in grado di colpire “selettivamente”.
I motori di ricerca come Google sono un potente strumento di contrasto se si sa come effettuare ricerche mirate, a partire dal testo elaborato da uno studente. Tuttavia è uno strumento molto dispendioso per il tempo richiesto quando il numero degli elaborati diventa anche solo qualche decina.
Sarebbe dunque opportuno dotare tutte i docenti delle scuole di licenze di accesso ad almeno un software di analisi antiplagio o, in alternativa, che il MIUR finanzi lo sviluppo di un software open-source antiplagio per le scuole e le università. Con tutta franchezza, e so bene di attirarmi gli strali di qualcuno, sarebbe molto più importante sviluppare tale software che effettuare distribuzione a pioggia di stampanti 3D, come è stato fatto qualche tempo fa da alcuni enti locali.
Non voglio dilungarmi oltre perché avremo modo di discutere di questa e altre possibili azioni riguardanti la scuola e gli ecosistemi di apprendimento il prossimo 22 maggio a Roma nella sede del CNR durante l’open debate organizzato in occasione del convegno SLERD 2019.
Un (altro) quesito al Governo
A chiusura di questo intervento, però, non posso esimermi dal rivolgere anch’io un quesito al governo, premettendo che non credo sia utile erogare finanziamenti senza che venga effettuata un’accurata verifica sulle reali necessità, sulla modalità di utilizzo dei fondi e sugli esiti prodotti dai finanziamenti passati, come purtroppo sovente è successo per i fondi erogati nel quadro del PNSD:
“Onorevole Ministro, quando pensa di mettere in campo seriamente azioni finalizzate a sostenere: la diffusione nelle scuole della cultura del progetto (vogliamo chiamarla “design thinking” ? … giusto per stimolare la fascinazione esterofila) volano necessario per lo sviluppo di una vera e propria didattica per competenze, da realizzare anche con un sostegno informato e consapevole delle tecnologie?”
Ammesso che ci si arrivi, e ce lo auguriamo di cuore, la messa in atto di tali azioni non potrà prescindere – pena il fallimento – da un adeguato piano di riconoscimenti e modalità di valorizzazione di chi – DS e docenti – sarà stato in grado di ottenere risultati verificabili, misurabili e trasferibili.
Ce la faremo prima del 2030 ad abbattere le barriere dei non-luoghi mentali generati dal “copia e incolla” figlio della riproducibilità tecnica?