La circolazione di notizie false, favorita da destinatari inconsapevoli, così come la frequente costruzione intenzionale di campagne coordinate di disinformazione impongono all’attenzione planetaria la questione, centrale per ogni sistema democratico, della nuova opacità del confine tra libertà di espressione e necessità di limitare la manipolazione dei flussi informativi: è indubbio, infatti, che proprio questa fluidità pone rischi significativi alle nostre architetture costituzionali come quello di “normalizzare” stringenti pratiche di censura o, per finalità totalmente diverse, favorire dinamiche comunicative conflittuali e di polarizzazione, privilegiate dal predominio delle logiche commerciali delle piattaforme (Albright 2017; Van Dijck, Poell, de Waal 2018; Sorice 2020).
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Il cortocircuito comunicativo dell’ecosistema digitale
Nell’ecosistema digitale la deriva contemporanea delle minacce online e dell’hate speech conferma, infatti, la presenza di un “cortocircuito” comunicativo in grado di diffondere e moltiplicare esponenzialmente contenuti fortemente negativi e divisivi che, sia a livello istituzionale che sul piano della professione giornalistica, impongono sfide complesse alle modalità tradizionali di partecipazione democratica, mostrate in modo eclatante dalla crisi pandemica. Negli ultimi due anni in molti contesti occidentali si sono evidenziate, accanto a pratiche comunicative normalizzanti (vere e proprie forme di anestetizzazione tranquillizzante dei cittadini-utenti), anche, e in direzione diametralmente opposta, dinamiche di trasformazione tossica del dibattito democratico (Corner 2017; Boccia, Bentivegna 2021), attraverso un continuo appello alla sfera emotiva dei singoli per suscitare rabbia e odio da canalizzare in precise strategie politiche. In entrambi casi, comunque, risulta evidente un distacco netto dal ricorso alla razionalità e al dialogo nella produzione di informazioni che, nella dinamica transmediale (McErlean 2018), avvia processi di viralizzazione in grado di distruggere non solo carriere politiche ed equilibri tra poteri ma anche singoli cittadini, il cui diritto alla protezione della privacy è stato radicalmente messo in discussione nel modo digitale (Rizzuto, Sciarrino 2021).
I caratteri peculiari dell’inquinamento dell’informazione
Oggi l’inquinamento dell’informazione presenta caratteri peculiari rispetto all’uso tradizionale di notizie false come armi politiche per screditare un avversario: se è vero che Internet e i social media hanno reso possibile uno straordinario ampliamento delle possibilità di accesso alle informazioni, tuttavia, il serbatoio pressoché illimitato di risorse cognitive a disposizione di tutti assume i caratteri di un caos informativo planetario: l’infosfera è dominata dagli algoritmi “opachi” elaborati dalle piattaforme, che sono aziende private, transnazionali, fondate sulla logica del profitto e, negli anni più recenti, operano in un contesto di vero e proprio far west normativo, mostrandosi poco, o per nulla, attente ai rischi di eventuali strategie di disinformazione (Bracciale, Grisolia 2020) o di viralizzazione di fake news nocive (Ireton, Posetti 2018; Edson, Tandoc, Lim, Ling 2018).
L’agorà digitale come fabbrica dell’odio
Nelle pagine seguenti si mira a proporre una riflessione sulla configurazione dell’agorà digitale come potente “fabbrica dell’odio”, focalizzando l’attenzione sul pericolo di effetti di realtà prodotti da pratiche di costruzione e condivisione di notizie divisive e caratterizzate da scelte lessicali improntate all’odio, alla violenza verbale in una vera e propria industria delle falsità, che fa circolare attacchi alle persone per ridicolizzarle o perfino distruggerle. L’obiettivo principale è quello di ribadire le responsabilità dei professionisti dell’informazione, ai quali proprio le possibilità inedite del contesto digitale impongono una maggiore capacità di decentrare lo sguardo per non diventare agenti, più o meno “inconsapevoli”, della costruzione dell’odio, fino al rischio concreto di favorirne la normalizzazione come dinamica comunicativa di relazione quotidiana e “accettabile” non solo tra individui ma anche tra leader, popoli, stati.
Del resto, l’inciviltà contemporanea del dibattito pubblico (Boccia, Bentivegna 2021), dagli interventi di Trump fino ai recenti dibattiti dei no-vax, sta dimostrando che Internet svolge un ruolo chiave per la diffusione di contenuti estremisti, offrendo ai singoli o a gruppi di stampo politico, religioso, perfino terroristico, un’arena planetaria per diffondere le loro ideologie, fare propaganda e reclutare nuovi membri: l’elemento comune di molti circuiti comunicativi è il ricorso ad una logica rigidamente binaria (noi/loro) che fa leva sulle emozioni, sul senso di appartenenza e si avvantaggia della possibilità concreta di sfuggire a eventuali fonti di dissonanza cognitive garantita dalle relazioni nelle echo chambers o nei gruppi on line (Riva, 2018). A tal fine, non di rado si rivolgono in modo specifico agli adolescenti e ai giovani adulti, che sono molto attivi online e per motivi diversi possono essere particolarmente recettivi ai messaggi radicali.
La centralità delle emozioni
Secondo Balzerani (2018) per comprendere il processo contemporaneo di diffusione della cultura dell’odio occorre partire proprio dal riconoscimento, scientificamente fondato, della centralità delle emozioni come basi del comportamento individuale e di gruppo: agendo in sfere apparentemente lontane tra loro come la politica, l’informazione, le relazioni tra etnie o religioni, la dimensione emotiva influenza profondamente il vivere sociale e, nel contesto digitale, è spesso usata sia a livello politico che sul piano della produzione informativa, perché in grado di intercettare e rafforzare facilmente audience e consensi, indispensabili nella logica commerciale dominante nel mondo mediale e nel contesto della politica-spettacolo, ormai svincolata dalle appartenenze ideologiche e dalle mediazioni informative tradizionali (Mazzoleni 2021).
Il giornalismo e la logica dell’emotainment
Nel caso del giornalismo, già dagli anni Novanta, numerosi studi hanno messo in evidenza la centralità della logica emozionale nelle pratiche di newsmaking, collegandola al predominio della logica dell’emotainment, marcatamente spettacolare e drammatizzante (Santos 2009; Rizzuto 2019; Marinov 2020) in un contesto fortemente competitivo sul piano economico, i newsmedia hanno optato per l’adozione di una modalità narrativa spettacolare incentrata sulla capacità di emozionare i riceventi per catturarne l’attenzione (Thussu 2007; Rizzuto, 2021), dando vita a prodotti e generi informativi nuovi in cui sono privilegiati i conflitti, il dramma, i delitti e attivati meccanismi di identificazione attraverso meccanismi di personalizzazione, frammentazione e drammatizzazione degli eventi.
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Contenuti d’odio: le responsabilità di giornalisti e politici
Sul versante politico, l’appello alle emozioni è stato tradizionalmente usato da leader carismatici per motivare i soggetti o per creare atteggiamenti favorevoli che producevano conseguenze concrete a livello politico o elettorale; in questa prospettiva, evidenziando alcuni meccanismi di trasformazione delle emozioni a livello psicologico, Balzerani (2018) sottolinea le responsabilità dei diversi attori sociali, soprattutto leader e media, quando preferiscono far leva sulla componente emotiva, a scapito di modalità informativo-cognitive capaci di far comprendere issue o priorità. Se è indubbio che un circuito comunicativo emozionale permette di attrarre, più facilmente e senza intermediazioni, i consensi nella sfera pubblica densa, è anche innegabile che sia professionisti del sistema informativo che leader politici rischiano di diventare, spesso e colpevolmente, concause nella diffusione di modalità comunicative conflittuali e comportamenti violenti.
In questa ottica, ad esempio, anche gli attentati terroristici degli ultimi due decenni possono essere letti come l’esito planetario più disastroso di un’attività pervasiva e pianificata di “nutrimento dell’odio nei riguardi dei Nemici”, realizzata e propagandata soprattutto attraverso narrazioni diffuse nei social.
Il contagio emotivo
In un contesto di forte pervasività delle tecnologie comunicative e di crescente dipendenza cognitiva dei singoli dalle narrazioni mediali, le storie proposte nella rete, e poi fatte circolare anche dai media mainstream, offrono sempre più spesso visioni del mondo e modelli di odio facili da comunicare, che attivano un pericoloso contagio emotivo e forniscono ai leader una piattaforma semplificante e facilmente accessibile per dialogare “direttamente” con gli individui (Bentivegna 2015; Mazzoleni 2021).
La cultura del disprezzo
Il rischio è che possa prevalere, sempre più frequentemente, una cultura del disprezzo capace di aumentare l’odio verso Altri-Nemici e favorire quel processo di escalation emotiva dalla rabbia al disgusto, che nella storia recente dell’Europa, ha portato a catastrofi immani come la Shoah o i genocidi nei Balcani. Infatti, il disgusto dell’Altro visto come nemico (nocivo per il semplice fatto di esistere), è l’emozione che svolge da sempre un ruolo basilare nella “discesa della politica agli inferi”: il disgusto è capace di attivare una rilettura degli eventi e della realtà, anche ricorrendo a infondate conferme pseudo-scientifiche, e può portare dalla violenza verbale alle aggressioni fisiche fino all’accettazione dello sterminio. In un’ottica terrificante, l’eliminazione definitiva, vale a dire il genocidio, diventa orrendamente e mostruosamente “plausibile” anche grazie a strategie comunicative di definizione “negativa” dell’Altro: il linguaggio dell’odio fa sempre ricorso a scelte lessicali deformanti e disumanizzanti e si basa su stili espositivi ipersemplificati, costruendo e diffondendo narrazioni, che privilegiano l’aggressività verbale, lo scontro ideologico e il senso del gruppo da rinsaldare per opporsi al Nemico, percepito come inferiore.
Pandemia, terrorismo e escalation dell’odio online
Nell’era della crisi pandemica mondiale così come dinanzi alle sfide del terrorismo, la cultura dell’odio ha trovato straordinaria linfa nelle possibilità di relazione on line: il covid e, ancora prima, gli attentati terroristici in Occidente non solo hanno minato la definizione stessa e la percezione del sentirsi sicuri, ma hanno anche favorito lo stile comunicativo dell’attacco, vale a dire l’annullamento dell’accezione di dialogo come confronto pacifico tra opinioni e visioni del mondo. Il panorama contemporaneo dell’ecosistema digitale rende, pertanto, ormai inevitabile la comprensione dei fattori, che rendono alcune sfide ancora più cruciali: occorre sapere cogliere e interpretare i segnali di odio, non solo per prevedere atti di violenza o rilevare un pericolo potenziale, ma anche per favorire un recupero di credibilità e fiducia verso i professionisti della comunicazione e verso le istituzioni.
Conclusioni
Sicuramente, una strategia di reazione e resilienza deve affrontare questa sfida con diverse misure, che vanno da una produzione normativa adeguata al nuovo contesto digitale, alla sensibilizzazione, fino agli approcci formativi incentrati sulla media education, destinati in modo mirato agli adolescenti, più di tutti immersi in una perenne onlife (Floridi 2017). Si tratta, in altri termini, di promuovere e realizzare una vera e propria “svolta culturale” con enormi ricadute politiche, sociali ed economiche: anche ai giornalisti, non solo alle istituzioni politiche e formative, si può chiedere, allora, di contribuire sul loro piano, quello delle narrazioni, offrendo nello spazio digitale contro-narrative o narrative alternative, che siano capaci di “smontare” esplicitamente ideologie e strategie propagandistiche estremiste e abbattere pregiudizi con messaggi positivi, rinunciando al predominio dello spettacolo a favore di prassi produttive più informative e razionali.
Bibliografia
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