In 14 mesi di emergenza pandemica, secondo un calcolo approssimativo, il 6.5% della popolazione ha ormai contratto il coronavirus. Possiamo dire che ognuno di noi certamente conosce o può conoscere un soggetto positivo o che è stato positivo. Allo stesso modo, se non siamo noi a essere positivi, possiamo affermare di aver scampato il pericolo più volte, anche avendo avuto cura di usare tutti gli accorgimenti relativi ai cosiddetti “interventi non farmaceutici” tra i quali il distanziamento sociale e l’uso delle mascherine.
Ma perché, anche svolgendo una vita “da reclusi”, non è diminuito il pericolo di contagio?
Open data e pandemia: i dati aperti sono davvero un bene comune?
La teoria dei sei gradi di separazione
La teoria dei sei gradi di separazione è una concezione ipotetica studiata in semiologia e in sociologia secondo la quale ognuno di noi può essere connesso a un’altra persona, anche lontana del mondo, oppure legato anche a un oggetto o a una circostanza, attraverso una catena di legami o rapporti che vedono l’intervento di un massimo di cinque intermediari.
La tesi è stata per la prima volta elaborata alla fine degli anni ’20 dall’ungherese Frigyes Karinthy in una raccolta di racconti chiamata Catene1.
Negli anni Cinquanta due professori e studiosi americani Ithiel de Sola Pool (MIT) e Manfred Kochen (IBM)
Provarono a fornire una base algebrica al teorema: “dato un insieme di individui, qual è la probabilità che, fissato il numero di collegamenti, ogni componente sia connesso all’altro?”.
Ebbene, né loro, né tanto meno altri studiosi riuscirono a fornire una risposta convincente.
Fallito l’esperimento matematico, si passò alla sperimentazione pratica e nel 1967 lo psicologo Stanley Milgram dai laboratori dell’università di Yale effettuò un esperimento sociale: dapprima selezionò un campione ristretto di persone nel Midwest. Successivamente chiese a ognuno di spedire un pacchetto a un soggetto che non conoscevano residente nel Massachussetts, conoscendo il nome, l’impiego e la zona di residenza, ma non l’indirizzo preciso.
Tra gli ordini impartiti c’era la possibilità, in caso di impossibilità a rintracciare il destinatario finale, di spedire il pacco a un soggetto di conoscenza, che, a giudizio del mittente, poteva conoscere il destinatario. La medesima istruzione doveva essere fornita al conoscente, che avrebbe avuto il medesimo compito e via di scorrendo, fino a che il pacchetto fosse giunto alla destinazione imposta dallo studioso.
Questo esperimento mirava a dimostrare quanto “piccolo fosse il mondo” e come la catena di conoscenze sia estremamente ridotta. Tale prova empirica fu pubblicata nella famosa rivista Psychology today e ciò ne ha decretato il successo con il nome “La teoria dei sei gradi di separazione”, dall’elemento che mediamente erano necessarie dalle 5 alle 7 spedizioni.
Occorre precisare come il campione scelto dallo studioso fosse estremamente ridotto e ciò ha provocato molte critiche da parte degli esperti del settore, specie in merito alla indimostrabilità di quanto sostenuto. Ad ogni modo la eco fu tale da superare il postulato scientifico.
La vita reale e la vita rappresentata
L’esperimento è stato oggetto di una rappresentazione teatrale nel 1990 a firma di John Guare che ha visto più volte l’opera ricevere il sold out a Broadway in più stagioni.
Successivamente nel 1993 Fred Schepisi ha girato il primo film con Donald Sutherland e Will Smith che universalizza l’esperimento sociale di Milgram e inserisce il teorema all’interno della cultura di massa.
Vita reale contro vita virtuale
Nel 2001 un professore della Columbia University, Ducan Watts, tenta una replica della prova empirica utilizzando non più un pacchetto fisico, ma un allegato a una mail, utilizzando un campione allargato di 48mila utenti ubicati in oltre 160 Stati diversi.
Anche questa ricerca ha dato l’inaspettato risultato di circa sei intermediari prima che il messaggio giungesse all’effettivo destinatario.
Dagli esperimenti non poteva mancare Microsoft che grazie a suoi due ricercatori, Eric Horvitz e Jore Leskovec, ha cercato di porre in relazione tutti gli utenti di Messenger.
Per i più giovani Messenger era il servizio di messaggistica istantanea, derivato dal più antico ICQ (I Seek You), più utilizzato al mondo. Era preinstallato in ogni pc ed era il servizio di chat più popolare, gratuito ed estremamente diffuso in quanto preinstallato all’interno del sistema operativo Windows.
Il campione era composto da 180 milioni di persone e da un flusso 30 miliardi di conversazioni. La teoria mirava a porre in relazione i vari utenti sulla base di 3 indicatori: la conversazione tra coppie di utenti, la lunghezza delle conversazioni e le relazioni intercorrenti tra gli utenti. Ebbene il risultato è stato di una media poco superiore a 6.6 intermediari per il 78% del campione, anche se, per alcuni utenti ci sono voluti oltre 29 intermediari.
Tra gli esperimenti degni di nota, nel 2011 l’Università di Milano, in collaborazione con Facebook ha provato a mettere in relazione gli utenti del famoso social network. Occorre precisare che la popolazione di utenti attivi di un social network non rappresenta certamente il tipo di relazione che esiste nella vita reale, ma i risultati sono stati sorprendenti: meno di sei gradi di separazione intercorrevano tra gli utenti del campione analizzato.
La teoria dei sei gradi di separazione durante la pandemia
Durante l’evento pandemico del 500 dC, la peste Giustinianea, la stessa ci ha messo anni, se non due secoli, a diffondersi tra i vari continenti.
Le distanze erano maggiori e il contagio diffuso attraverso il contatto ha dovuto passare per un’infinità di intermediari: nel 541 la peste colpì le città costiere del Nilo, a causa del paziente zero in Crociera dall’Etiopia – così è stato descritto dallo storico Evagrio – e ha terminato la sua diffusione solo durante la prima metà del 700 dC.
Già la peste bubbonica del 1300 ha avuto una diffusione più rapida, ma in ogni caso ci sono voluti svariati anni prima che colpisse tutte le più grandi città europee.
Con la rivoluzione industriale e l’aumento dei contatti tra paesi diversi, un episodio pandemico sarebbe circolato certamente con maggiore velocità.
Ma è con la Prima guerra mondiale che è arrivata la tempesta perfetta: grandi masse di soldati si muovevano per l’Europa e vivevano a stretto contatto nelle trincee. La Spagnola è il primo evento pandemico a essere noto per la velocità di circolazione e per la universale diffusione. Nel giro di tre anni ha generato infatti più morti che la stessa Grande Guerra.
E ora veniamo ai giorni nostri. Il Covid 19 ha reso tutti noi più lontani e più vicini allo stesso tempo.
Più lontani, perché abbiamo ridotto il numero delle interazioni: basti pensare che nel 2008 il progetto Polymod ha svolto una ricerca su un campione di 7.290 persone ai quali è stato domandato di indicare gli incontri avvenuti face to face durante una intera giornata composta di 24 ore. Ebbene in Italia è stata registrata una media di 19,77 contatti, mentre in Germania una media di 7,95 (tale elemento potrebbe essere indicativo sull’andamento iniziale del contagio in Italia).
Più vicini perché in ogni caso le chiusure hanno imposto la riduzione di alcuni contatti, ma l’implementazione di quei contatti irrinunciabili: si pensi ai nonni utilizzati come baby-sitter, destinatari anche del bonus INPS in tal senso (e questo elemento potrebbe spiegare invece il numero di morti maggiori per milione di persone in Italia).
In ogni caso abbiamo tutti quanti, chi più chi meno, rispettato gli interventi non farmaceutici, il distanziamento sociale e l’uso di mascherine, ma allo stesso tempo il virus non ha interrotto la sua circolazione. Esistono studi, tra i più discussi quello del Professor John Ioannidis della Stanford University, che hanno mirato a dimostrare la non utilità, o perlomeno, la non efficacia delle chiusure e dei lockdown, proprio perché basati su un elemento non confutabile: ognuno di noi ha almeno 6 gradi di separazione che sono impossibili da eliminare nel quotidiano. Lo studio, a onor di verità, pone alla base della indagine i dati statistici ed epidemiologici dei paesi analizzati, ma giunge a una conclusione logica che può essere condivisibile anche partendo dalla teoria sociologica che si sta trattando: se ipotizzassimo di indicare il numero di soggetti che non possiamo non incontrare durante l’arco della giornata, tutti noi, probabilmente, indicheremo i compagni, i coniugi, i figli, i genitori, i colleghi di lavoro e i congiunti.
Ognuno di noi è legato a un numero variabile di persone, che le teorie sopra indicate fissano nel numero di sei; sei soggetti che altrettanto avranno un numero di relazioni (che probabilmente si aggira sempre intorno a sei) e così via. Questi soggetti sono i cosiddetti soggetti “inevitabili”, quelli che anche volendo non possiamo evitare.
Le chiusure imposte, insomma, hanno il lodevole intento di limitare i contatti tra le persone, ma non possono che far circolare il virus all’interno almeno di questa categoria di persone, in modo appunto inevitabile: logicamente e induttivamente è impossibile pensare che il virus circoli tra soggetti completamente isolati.
Conclusioni
Ebbene, mentre i contatti non necessari sono gestibili attraverso gli interventi non farmaceutici – l’uso intelligente delle mascherine e del distanziamento sociale – appare più difficile l’applicazione delle stesse misure nei confronti dei soggetti cosiddetti “inevitabili”, sicché l’unica misura di prevenzione nei loro confronti dovrebbe essere semmai proprio il distanziamento, irrealizzabile se si chiudono all’interno dello stesso ambiente.
Sul punto prima o poi si genererà una discussione che si auspica sia scevra di condizionamenti politici che possa, la prossima volta, essere un importante faro nelle politiche di chiusura.