la riflessione

Il declino delle democrazie nel segno del digitale: chi le salverà?

Il rapporto del Congresso USA punta il dito sulle politiche illiberali delle big tech. Molti studi segnalano come big data e AI stanno favorendo apparati di sorveglianza di massa, mentre i social sono perenne minaccia di polarizzazione sociale, soprattutto nelle elezioni. La resilienza della democrazia avrà la meglio?

Pubblicato il 09 Ott 2020

Barbara Calderini

Legal Specialist - Data Protection Officer

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La rinascita ideologica e strategica dell’autoritarismo, abilmente condotta da Cina, Russia, unitamente alla lotta per la sovranità del digitale e all’“imperialismo dei dati” stanno caratterizzando questa fase storica. Il covid-19 sta accelerando una tendenza degli ultimi 15 anni (cfr. il recente studio di Social Economics, Civil Liberties in time of crisis).

Il declino delle democrazie ha avuto episodi già in passato, il più grave tra gli anni ‘2o e ’30 del Novecento; da dal dopoguerra fino a tempi recenti le forze democratiche hanno vissuto una serie incontrastata di vittorie, in Europa e Africa soprattutto.

Il cambio di tendenza preoccupa. Anche perché si manifesta in forme nuove, verso cui siamo meno attrezzati: per la prima volta nella storia giocano un ruolo tecnologie come i big data, l’intelligenza artificiale (armi di una nuova sorveglianza totale, di massa e individuale), i social media.

Qui trovano terreno fertile teorie del complotto, sfiducia nelle istituzioni (la più grande crisi di fiducia dagli anni ’30) e complesse tecniche di manipolazione informativa.  

“La giungla – quel luogo di caos, disordine e guerra – sta ricrescendo. La storia sta tornando. Le nazioni stanno tornando a vecchie abitudini e tradizioni”, scrive nel suo nuovo libro “The Jungle Grows Back: America and Our Imperiled World” lo storico americano Robert Kagan, noto editorialista ed editorialista del The Washington Post, riferendosi al ruolo dell’America come garante della pace e dell’ordine in tutto il mondo e della sua influenza nella politica globale.

“La democrazia è sempre minacciata perché richiede molte condizioni preliminari per prosperare. E’ come un fiore raro che non può crescere in qualsiasi luogo, mentre la dittatura è come un’erba dove ovunque la lanci, può prosperare”, riferisce in una recente intervista lo storico e saggista israeliano Yuval Noah Harari.

Vero.

E certo proprio la scarsa consapevolezza che pervade il concetto di liberismo. Ma la democrazia, dichiarata morta molte volte nel corso della storia, sebbene in crisi, vive poiché flessibile ed in grado di reinventarsi. E forse si può vedere il fiore della rinascita questa nuova consapevolezza che spinge una grande democrazia americana ad affilare le armi persino contro i propri campioni nazionali, le big tech, con un corposo rapporto antitrust del Congresso Usa pubblicato nei giorni scorsi.

La democrazia è resiliente, così, anche perché riesce a riconoscere i propri nemici in nuove forme, ora quelle del digitale.

I segnali della crisi di fiducia verso i valori liberal-democratici

Il ritardo accumulato dai Paesi democratici nel normare la trasformazione digitale è evidente.

Nel frattempo le grandi multinazionali tecnologiche, assumono il ruolo di arbitri – sulla base di una delega de facto non disconosciuta dalle istituzioni – operando quel bilanciamento che investe i diritti fondamentali di miliardi di persone e interessi spesso di rilevanza pubblica.

Le stesse vengono favorite o osteggiate dai rispettivi stati di appartenenza, a seconda delle convenienze in ballo, competono tra loro per l’egemonia su settori strategici quando addirittura non sottoscrivono patti di non belligeranza: dal cloud computing alla propaganda computazionale; dal social business alle applicazioni di intelligenza artificiale specie di sorveglianza biometrica alimentata dai copiosi database in ambito sia pubblico che privato.

Si sottomettono e a loro volta assoggettano il potere politico.

Gli sviluppi socio-politici in Cina e Russia offrono uno spaccato chiaro del percorso inesorabile e difficilmente arginabile, caratterizzato dall’obsolescenza delle attuali democrazie liberali e dall’asservimento dei poteri tecnologici alle forme della sorveglianza sistematica, della manipolazione e della censura, dirette da due dei regimi più repressivi del mondo e con un’economia tra le più promettenti.

Il dominio del cyberspazio, il controllo dei social media, la raccolta e l’uso di Big Data come la priorità attribuita allo sviluppo dell’intelligenza artificiale, prestano il fianco al governo di Pechino affinché lo stesso disponga del controllo assoluto ed efficiente in grado di consolidare l’affermazione globale della propria egemonia oltre che le proprie radicate velleità di nazione simbolo di “ascesa pacifica e benigna” a vantaggio dell’intero continente asiatico e dello scenario mondiale.

L’uso da parte della Russia di strumenti digitali e fabbriche di troll per influenzare la politica interna di altri paesi è noto. Iran e Arabia Saudita ne seguono le orme a ritmo incalzante.

Recep Tayyip Erdogan ha smantellato le istituzioni liberali turche in nome delle credenze e delle tradizioni islamiche. Egitto e Venezuela sono espressione l’uno di poteri militari pervasivi e l’altra di forme di associazionismo militare e imprenditoriali alquanto discutibili. In Ungheria, Viktor Orban non nasconde certo il suo ” illiberalismo ” a Bruxelles e all’Europa occidentale. Le elezioni – un tempo considerate, a torto, condizione sufficiente per la democrazia – ovunque sono un punto focale per la manipolazione delle campagne di influenza e ulteriore, pericolosa, polarizzazione della società.

La pandemia e la comunicazione dell’emergenza, sotto forma di infodemia, vengono abilmente e forse ingenuamente assoggettate ai tiri di vendita e di potere delle elite economiche e politiche amplificandone i poteri di emergenza che, non sempre in modo lungimirante, limitano i diritti umani e rafforzano la sorveglianza statale senza riguardo ai vincoli legali, alla supervisione parlamentare o ai tempi per il ripristino dell’ordine costituzionale.

In Europa

“Se non regoliamo Internet”, avverte il presidente francese Emmanuel Macron “c’è il rischio che le basi della democrazia vengano scosse” con ciò intendendo richiamare l’importanza della sovranità dei dati ma alludendo al contempo anche ai propri intenti volti a promuovere il motore franco-tedesco di ricerca Qwant a discapito di Google. Quest’ultimo già osteggiato dalla Direttiva europea sul Copyright, dalle ipotesi di web tax, fino alla multa inflittagli dall’autorità francese per la concorrenza e non ultimo, dai riflessi della pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel noto contesto Schrem II.

Allo stesso tempo Thierry Breton, commissario per il mercato interno, e Vera Jourova, vicepresidente della Commissione per i valori e la trasparenza, commentando uno studio indipendente del Centre for Media Pluralism and Media Freedom dello European Union Institute di Firenze, hanno sottolineato come il pluralismo dei media tradizionali e la corrispondente tutela della libertà di espressione e di autodetrminazione non sia andato incontro a grossi miglioramenti, specie se parametrato “all’Europa dei 27 combinata con Regno Unito, Albania e Turchia”.

“Questo studio è un segnale d’allarme, dobbiamo proteggere meglio i giornalisti. Dobbiamo sostenere il settore dei media, duramente colpito dalla crisi del Covid19, preservandone l’indipendenza”, sottolinea Vera Jourova.

Fonte

https://cadmus.eui.eu/bitstream/handle/1814/67828/MPM2020-PolicyReport.pdf?sequence=5&isAllowed=y

“La trasformazione digitale ha generato opportunità che i media devono cogliere, ma anche sfide, dal ruolo potenziale di controllo delle piattaforme online alla sicurezza digitale dei giornalisti e degli operatori dei media”, afferma Thierry Breton.

Uno scenario, questo, significativo e che funge da valido corollario all’iniziativa legislativa dell’Ue per regolamentazione del web (che sarà presentata entro la fine dell’anno), richiamata recentemente anche da Věra Jourová, in occasione della videoconferenza con l’amministratore delegato di Twitter, Jack Dorsey (martedì 22 settembre).

Proprio in quella sede, la stessa ha potuto preannunciare al suo notevole interlocutore i contorni delle intenzioni dell’esecutivo dell’UE quanto ai futuri obblighi che verranno introdotti ai sensi della legge sui servizi digitali, il Digital Services Act (che subentrerebbe alla direttiva sul commercio elettronico del 2000) e del Piano d’azione per la democrazia europea i cui tre pilastri principali prevedono:

  1. integrità delle elezioni e della pubblicità di natura politica;
  2. rafforzamento della libertà e del pluralismo dei media;
  3. lotta alla disinformazione nell’UE.

Ovvero in altri termini: autodeterminazione, rappresentanza responsabile e deliberazione pubblica che promuova l’opinione libera e la formazione consapevole della volontà.

Per affrontare la questione della disinformazione e dei contenuti dannosi dovremmo concentrarci su come questi contenuti vengono distribuiti e mostrati alla gente, piuttosto che spingere per la loro rimozione”. Sostiene Věra Jourová.

Negli Usa: la sfida democratica delle elezioni

Oltreoceano, invece, il fondamento globale della regolamentazione dei social media è ancora la Sezione 230 del Communications Decency Act (CDA) degli Stati Uniti del 1996.

Questa, con le dovute eccezioni, consente alle piattaforme social di attuare politiche di moderazione e oscuramento dei contenuti che gli utenti condividono senza che da ciò gli derivino responsabilità legali di sorta.

“Nessun fornitore e nessun utilizzatore di servizi Internet può essere considerato responsabile, come editore o autore, di una qualsiasi informazione fornita da terzi”.

Tanto dispone le Sezione 230 del Communications Decency Act, la legge approvata dal Congresso nel 1996.

Da qui gli affondi tra Twitter e il presidente Trump, a maggior ragione ora, in piena campagna elettorale.

E gli scontri infatti non si fanno attendere.

Preceduto da Facebook, anche Twitter, culla della stragrande maggioranza dei sostenitori online di Donald Trump, oscura per l’ennesima volta un suo post: quello in cui il presidente Usa paragona l’influenza stagionale in arrivo all’epidemia da coronavirus, invitando gli americani a imparare a conviverci.

Lui risponde senza mezzi termini e coerentemente all’Ordine esecutivo emesso a maggio.

“In un paese che ha a lungo amato la libertà di espressione, non possiamo permettere a un numero limitato di piattaforme online di scegliere manualmente il discorso a cui gli americani possono accedere e trasmettere su Internet. Questa pratica è fondamentalmente non americana e antidemocratica. Quando grandi e potenti società di social media censurano le opinioni con cui non sono d’accordo, esercitano un potere pericoloso. Smettono di funzionare come bacheche passive e dovrebbero essere visualizzate e trattate come creatori di contenuti” recita il documento ufficiale dell’Ordine esecutivo.

La disinformazione ha sempre fatto parte di una corsa elettorale serrata. Le elezioni Usa 2020 si rivelano un campo di prova impegnativo.

Negli Stati Uniti come in Europa, le domande sul tavolo rimbalzano tra detrattori delle piattoforme e fervidi sostenitori dei diritti umani, primo fra tutti quello della libertà di espressione.

  • Il fact checking applicato da Twitter ai post di Trump salverà la democrazia degli americani?

Il rapporto American Views 2020: Trust, media and democracy di Gallup e della Knight Foundation Serie Trust, Media and Democracy rivela come, malgrado la crisi di fiducia sia evidente, gli americani di tutte le età e affiliazioni politiche continuino a vedere i media come attori fondamentale nel sostegno ad una democrazia sana e vivace.

La pandemia in atto e le recenti proteste dopo la morte di George Floyd sottolineano però la necessità di fonti di informazione affidabili e credibili.

  • E’ corretto accettare che social come Facebook e Twitter possano censurare ciò che essi stessi reputano falso e fuorviante?

Ann Ravel, ex presidente della Commissione elettorale federale e direttrice del progetto Digital Deception presso MapLight nonchè candidata democratica per il Senato dello Stato della California in occasione delle prossime elezioni presidenziali, ha ammnito sul fatto che l’integrità delle elezioni del 2020 fosse in gran parte nelle mani di Facebook e Twitter, specie dopo che il presidente degli Stati Uniti ha ritenuto di poter esortare, con i suoi tweet, gli americani a votare due volte alle prossime elezioni.

  • YouTube dovrebbe porsi quale baluardo intransigente della disinformazione covid-19?
  • Facebook dovrebbe fare di più contro l’incitamento all’odio?

Il social schiera, tra le altre misure, all’Oversight Board di Facebook, anche noto come la Corte Suprema del social. Una sorta di tribunale in secondo grado chiamato a pronunciarsi sui ricorsi presentati da utenti Facebook e Instagram, in merito alle decisioni sulla moderazione dei contenuti.

Il Voting Information Center e i report CIB – comportamento non autentico coordinato – mensili di Facebook si riveleranno utili strumenti di contenimento della disinformazione?

Nel mese di settembre Facebook ha rimosso oltre 200 account fasulli, 35 pagine, 18 gruppi e 34 account Instagram originati in Russia, veicolo di informazioni su questioni geopolitiche sensibili rivolte a persone dalla Turchia agli Stati Uniti.

Il 24 settembre Nathaniel Gleicher, responsabile della politica di sicurezza di Facebook riferisce che il social ha eliminato tre reti distinte per aver violato la politica aziendale contro l’interferenza straniera o governativa per conto di un’entità straniera o governativa. Le reti avrebbero avuto origine in Russia. La pagina del blog riporta numerosi esempi dei contenuti relativi alla guerra civile siriana, alla politica interna turca, alle questioni geopolitiche nella regione Asia-Pacifico, fino alla NATO, alla guerra in Ucraina e alla politica nei Paesi Baltici, Georgia, Armenia, Ucraina, Russia, Bielorussia e negli Stati Uniti, pubblicati in molte lingue, tra cui inglese, ucraino, russo e arabo e successivamente rimossi.

L’appello e le raccomandazioni rivolto da Accountable Tech (una per tutte, tante) alle società di social media contribuiranno al rafforzamento dell’integrità delle piattaforme e della democrazia?

E ancora: la denuncia presentata dall’Electronic Frontier Foundation (EFF) e dal Center for Democracy and Technology (CDT) contro l’ Ufficio di gestione e bilancio e il Dipartimento di Giustizia americano, comprendente richieste di esibizione documentale ai sensi del Freedom of Information Act (FOIA), fungerà da valido contributo alla salvaguardia del primo emendamento?

Il governo non può abusare del suo potere di borsa per costringere le piattaforme online ad adottare il punto di vista del presidente su cosa significhi essere ‘neutrali'”, ha dichiarato Aaron Mackey, rappresentante legale di EFF. “Il pubblico ha il diritto di sapere come il governo sta eseguendo l’ordine esecutivo e se ci sono prove che il presidente si sta vendicando contro le piattaforme riducendo la spesa pubblicitaria”.

Le insidiose operazioni di hack-and-leak, cioè quegli attacchi informatici (hack) che mirano a violare informazioni riservate per poi diffonderle in modo strategico con fini politici (leak), troveranno un deterrente nelle politiche aziendali messe in campo dalle piattaforme social?

Altri governi si rivolgono ai loro settori di sicurezza nazionale per fronteggiare gli effetti anti-democratici della disinformazione online da parte di attori stranieri o nazionali, includendo tra le tattiche di controllo componenti di cybersecurity e operazioni di intelligence di natura anche militare come gli hack-back e la controinformazione. Il Canada e la Svezia sono tra questi.

Il segretario di Stato Mike Pompeo, anche a Bruxelles, durante un incontro a dicembre, difende le virtù del nazionalismo, insistendo sul fatto che “niente può sostituire lo stato-nazione come garante delle libertà democratiche e degli interessi nazionali”.

Intanto – mentre Huawei viene bandita dagli Stati Uniti (e dal Regno Unito); mentre Mike Pompeo, annuncia l’intenzione del suo governo di vietare TikTok e il CEO di Microsoft Satya Nadella, a colloquio con il presidente Donald J. Trump, conferma l’interesse di Microsoft verso un eventuale acquisto di TikTok negli Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda; mentre il direttore diThe Social Dilemma“, Jeff Orlowski, enfatizza con il suo documentario quanto Internet sta minando la democrazia attraverso quello che uno dei suoi più illustri intervistati definisce “un cambiamento climatico della cultura”.

Impatto dei social media sulle elezioni

E’ interessante, al fine di avere uno sguardo d’insieme, l’esame del progetto condotto da Democracy Reporting International, l’organizzazione indipendente, con sede in Germania che dal 2018 riunisce gruppi di esperti, allo scopo di promuovere il corretto svolgimento del dibattito pubblico. Questa ha sviluppato in particolare una metodologia per il monitoraggio dell’impatto dei social media durante le elezioni. Lo studio ha esaminato le fasi elettorali in diversi paesi dell’UE, tra cui Polonia, Portogallo, Croazia, Romania, Austria e Spagna; ma anche Tunisia, Pakistan, Ucraina, Libia e Myanmar.

Il toolkit reso disponibile dall’associazione è molto stimolante; altrettanto lo sono i risultati delle analisi condotte, sebbe non si rivelino sorprendenti.

Fonte

https://democracy-reporting.org/wp-content/uploads/2019/07/social-media-monitoring-during-elections-20190614.pdf

Fonte

https://democracy-reporting.org/country/social-media-and-democracy/

Pur con sfumature diverse, ovunque, l’assenza di barriere fisiche ed economiche alla creazione e diffusione dei contenuti informativi viene utilizzata da vari attori statali e non per minare l’integrità elettorale diffondendo disinformazione, intimidendo le parti interessate e sopprimendo la libertà di parola.

Antitrust e big tech

Da un altra prospettiva e ormai con cadenze regolari, il Dipartimento di Giustizia americano intenta una causa contro Google, accusandolo di aver abusato del suo monopolio nella ricerca online.

E qui veniamo al rapporto di 449 pagine, pubblicato in questi giorni dal Congresso. Firmato solo dai democratici, perché repubblicani considerano troppo draconiane le soluzioni proposte: una forte revisione delle leggi Antitrust, in modo da impedire future acquisizioni e anche permettere scissioni o comunque forti limiti della capacità di big tech di agire sia come piattaforme sia come venditori diretti di servizi. I repubblicani temono che queste misure possano danneggiare la crescita economica i consumatori; ma sono d’accordo – in un paper separato che hanno sottoscritto – che un qualche intervento, anche se più leggero, vada fatto a livello antitrust.

Il rapporto evidenzia come Amazon, Apple, Facebook e Google, ciascuno nel proprio core business esercitino, un potere di monopolio che offre loro ingiusti vantaggi di mercato, e ne propone cambiamenti radicali tra cui in primis il potenziale smembramento.

Una visione questa che fa sicuramente eco alla precedente audizione tenutasi a luglio con Jeff Bezos, Tim Cook, Sundar Pichai e Mark Zuckerberg al Sottocomitato giudiziario della Camera per il diritto antitrust, commerciale e amministrativo sulle “piattaforme online and Market Power”.

Le dodici accuse dei legali del Congresso Usa alle big tech

In particolare, il New York Times ha fatto uno splendido riassunto dei dodici punti critici trovati dal Congresso americano.

Amazon

  • L’azienda utilizza il proprio potere di mercato sia come più grande rivenditore online sia come principale mercato di e-commerce a proprio vantaggio e per ostacolare potenziali concorrenti. Amazon stabilisce le regole per il commercio digitale. Circa 2,3 milioni di venditori di terze parti fanno affari sul mercato Amazon in tutto il mondo, afferma il rapporto, e il 37% di loro fa affidamento su Amazon come unica fonte di reddito, rendendoli essenzialmente ostaggio delle tattiche mutevoli di Amazon.
  • Amazon raccoglie i dati sulle vendite e sui prodotti dal suo mercato per individuare gli articoli più venduti, copiarli e offrire i propri prodotti concorrenti, in genere a prezzi inferiori. Un ex dipendente di Amazon ha detto agli inquirenti del Congresso: “Amazon è prima di tutto una società di dati, semplicemente la usano per vendere cose”.
  • Nel cloud computing, dove Amazon Web Services è leader di mercato, l’azienda ha trattato ingiustamente alcuni sviluppatori open source, il cui software è spesso condiviso liberamente. Un ingegnere open source ha detto: “Sviluppiamo tutto questo lavoro e poi arriva una grande azienda e lo monetizza”.

Apple

  • Apple ha il monopolio del mercato delle app su iPhone e iPad. Questo consente all’azienda di prendere una commissione eccessiva sulle vendite degli sviluppatori di app e “generare profitti sovraordinati”. Apple ha addebitato una commissione del 30% sulle vendite di molte app da quando ha introdotto la commissione più di dieci anni fa, costringendo molti sviluppatori ad aumentare i prezzi per i consumatori o ridurre gli investimenti nelle loro app. Apple a differenza di Google impedisce il download su iPhone da fonti diverse rispetto al suo store.
  • Apple ha usato il suo controllo sull’App Store per punire i rivali, anche classificandoli più in basso nei risultati di ricerca, limitando il modo in cui comunicano con i clienti e rimuovendoli dal negozio. Apple è l’unico difensore delle regole a volte opache dell’App Store, lasciando agli sviluppatori poche opzioni per lamentarsi.
  • Apple predilige le proprie app e servizi sui propri dispositivi preinstallandoli e rendendoli le opzioni predefinite per una varietà di azioni. Ad esempio, quando gli utenti di iPhone fanno clic su un collegamento a una pagina Web, una canzone o un indirizzo, i loro dispositivi apriranno in genere le app Apple. Un tale vantaggio, combinato con la profonda integrazione dei servizi nel software Apple, rende difficile la concorrenza per app e servizi di terze parti.

Facebook

  • Il potere monopolistico di Facebook nel social networking è “saldamente radicato” e l’azienda ha eliminato i concorrenti attraverso acquisizioni strategiche e prodotti copycat. Servizi come Onavo, una società di analisi dei dati acquisita da Facebook, hanno aiutato la società a individuare i segnali di “allerta precoce” su potenziali concorrenti in rapida ascesa nell’app store.
  • L’azienda è diventata così potente che i risultati interni suggeriscono che i suoi principali concorrenti sono al suo stesso interno. Servizi come Instagram, di proprietà di Facebook, sono cresciuti così rapidamente da minacciare di superare la popolarità di Facebook. Mark Zuckerberg ha cambiato rapidamente la sua strategia, in quella che un dipendente ha definito “collusione, ma nell’ambito di un monopolio interno”.
  • A causa dell’assenza di concorrenza, la privacy degli utenti è stata erosa mentre disinformazione e contenuti tossici sono proliferati in tutti i servizi dell’azienda, che vengono utilizzati regolarmente da oltre tre miliardi di persone.

Google

  • Google ha mantenuto il monopolio della ricerca acquisendo informazioni da terze parti senza l’autorizzazione a migliorare i risultati della ricerca. In altri casi, ha introdotto cambiamenti nella ricerca per dare un vantaggio ai propri servizi e svantaggiare le offerte dei concorrenti.
  • Il comitato ha scoperto che l’azienda fa di tutto per mantenere la ricerca di Google in primo piano e al centro per gli utenti. In passato, ha costretto i produttori di smartphone a installare la ricerca di Google per utilizzare il suo software Android e avere accesso al suo app store di Google Play. Paga miliardi di dollari ad Apple per essere il motore di ricerca predefinito su iPhone e adotta misure per impedire agli utenti di cambiare provider di ricerca su Chrome.
  • Google ha nove prodotti con più di un miliardo di utenti. Ciò fornisce all’azienda una raccolta di dati che possono essere utilizzati come “informazioni di mercato quasi perfette” e rafforza il suo dominio perché Google può tenere traccia dei nuovi prodotti o servizi che le persone stanno utilizzando in tempo reale per monitorare da vicino i concorrenti.

Conclusioni

John Naughton professore di comprensione pubblica della tecnologia presso la Open University, nonché autore di From Gutenberg to Zuckerberg: What You Really Need to Know About the Internet in un articolo pubblicato su The Guardian lancia una lucida provocazione sull’influenza politica esercitata degli stati in questi tempi di democrazia social mediatica:

“gli unici stati che ora hanno la capacità di domare o controllare i giganti della tecnologia sono quelli autoritari. Le democrazie liberali non sono più all’altezza del compito perché devono rimanere entro i limiti delle strutture legali neoliberiste che hanno assiduamente costruito per mezzo secolo. Le grandi multinazionali hanno le risorse per mandare avanti le cose per anni o addirittura decenni, mentre i governi e le loro élite sono sempre più intrappolati nella sindrome da deficit di attenzione provocata dai cicli elettorali quinquennali” .

E dunque viene naturale chiedersi:

  • Quanto sono realmente efficaci le risposte politiche dei Paesi liberali nel fronteggiare le minaccie che insidiano la visione democratica: dalle influenze illiberali interne ed esterne, al capitalismo di sorveglianza?
  • E quando il veleno della disinformazione potrebbe essere meno dannoso per la democrazia delle cure politiche proposte?

La sorveglianza ab origine legata a idee come la tutela dell’ordine e la difesa dello Stato pur nelle sue versioni autoritarie e “sbilanciate”, nell’era dell’iperconnessione, indubbiamente travolge le democrazie occidentali, diviene cardine di una nuova dimensione di potere inteso come controllo, privo di una base di legittimità democratica e con scarsa responsabilità, appannaggio esclusivo delle grandi multinazionali del web.

Non a caso proprio la cultura della sorveglianza è quella in cui tutti siamo immersi e alla quale tutti più o meno consapevolmente contribuiamo.

Ma se veramente vogliamo affrontare il declino democratico in tutto il mondo, allora dobbiamo cominciare a vederlo con sobrietà perseguendo visioni condivise e perspicaci fondate sulla promozione dei diritti umani e di quei valori che fanno si che ogni potere pubblico o privato possa avere la misura e il limite della legge, e dove la legge, come disposizione generale, si ponga alla stregua di un’assunzione di responsabilità chiara ed equa.

Dalla libertà di espressione, libera circolazione e protezione dei dati, alla definizione di regole strettamente pertinenti in relazione all’economia digitale e alla governance della tecnologia.

Volendo alzare arditamente il tiro, magari proprio mirando ad una forma di alleanza globale, una coalizione che metta la democrazia al primo posto come sostenuto nella rivista MIT Technology Review, da Marietje Schaake, direttrice delle politiche internazionali presso il Cyber Policy Center della Stanford University e fino al 2019 membro del Parlamento europeo per il partito liberal democratico olandese.

Il nostro Consiglio d’Europa si è pure offerto in questo ruolo, sempre più urgente e necessario.

Forse serve addirittura un’integrazione differenziata tra stati, con un proprio progetto di sovranità digitale, come scrive Luciano Floridi nel suo articolo La lotta per la sovranità digitale: cos’è e perché è importante, soprattutto per l’UE.

Intanto una cosa è certa: l’intelligenza artificiale e la corrispondente capacità di elaborare le informazioni, sin d’ora potrebbe essere l’ago della bilancia in grado di determinare chi tra democrazia, dittatura e capitalismo di sorveglianza, riuscira ad emergere con maggior vigore.

“Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus”. Grandi risorse, giunte nelle mani di un cattivo padrone, si dissipano e vengono perse. Qualora invece siano affidate ad un amministratore competente, crescono e plasmano il mondo.

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