tendenze del marketing

Il “deinfluencing” non è la fine dell’influencer marketing, ma qualcosa sta cambiando

Negli ultimi anni i consumatori hanno iniziato a cercare contenuti più autentici come risultato della saturazione eccessiva dell’influencer marketing. Quest’ultimo non è finito, ma sta cambiando pelle e ora i brand si rivolgono ai micro-influencer. Ecco chi sono

Pubblicato il 11 Apr 2023

Alessio Pecoraro

coordinatore PAsocial Emilia-Romagna, marketing & communication manager

adverstrising pubblicità marketing

Gli influencer, i personaggi della social-sfera, pronti a consigliare cosa comprare, cosa indossare, cosa guardare e chi seguire potrebbero avere le ore contate. La nuova tendenza è nata su TikTok dove dall’inizio del 2023, soprattutto gli utenti collocabili nella cosiddetta Generazione Z, i nati tra il 1995 ed il 2010, hanno fatto sapere di essere stufi degli influencer, dando vita ad una vera e propria community raccolta attorno all’hashtag #deinfluencing.

Si tratta probabilmente di una risposta al consumismo eccessivo favorito anche dal lavoro degli influencer e dei contenuti sponsorizzati sui social media che stanno creando non pochi grattacapi a quest’ultimi in cerca di “piani b” per dipendere sempre meno dalla pubblicità che rischia seriamente di svuotare le piazze virtuali.

Tante sfumature di influencer: la sociologia ci aiuta a capirle meglio

Dagli albori dell’influencer marketing al deinfluencing

Dieci anni fa, agli albori dell’influencer marketing, c’era un piccolo numero di influencer che attraverso i loro annunci, raccontavano prodotti e incoraggiavano agli acquisti. Un contenuto capace di attrarre i consumatori perché ritenuto più autentico della pubblicità.

Un esempio su tutti Chiara Ferragni che nel 2009 con 500 euro di investimento lanciò, dopo aver ottenuto una certa popolarità sui social media con le fotografie di sé stessa, “The Blonde Salad” il suo blog dedicato alla moda e di fatto anche il fenomeno delle fashion blogger (assieme a tutto il contorno fatto di influencing marketing). Oggi The Blond Salad è un business che ospita oltre 40 brand, spazia dalla moda, ai viaggi, fino al lifestyle e che è stato case study per la business school di Harvard.

La Ferragni poi si è evoluta fino a diventare essa stessa un brand, quindi – di fatto – un’azienda.

Nei giorni scorsi, invece, ha fatto notizia lo sfogo di Clio Zammatteo nota come Clio MakeUp nel quale, rivolgendosi ai suoi followers, confessava che ormai i personaggi più in vista non sono liberi di esprimere un parere senza che ogni cosa «venga usata per creare hype e fare click». Un segnale, ulteriore, che qualcosa sta cambiando.

La generazione Z diffidente verso l’influencer marketing

Ma torniamo al nuovo trend del deinfluencing. Oggi chiunque abbia Instagram o TikTok può essere un influencer e invitare la propria audience all’acquisto di uno o più prodotti. Al tempo stesso anche i brand hanno iniziato ad inserire l’ingaggio di uno o più influencer nelle loro strategie di marketing.

I potenziali clienti però iniziano a sentire la stanchezza di messaggi sempre meno autentici e guidati, spesso, più che dalla reale convinzione dei vari influencer da veri e propri contratti di sponsorizzazione.

Così partnership a pagamento dopo partnership a pagamento, i followers stanno iniziando a nutrire sempre meno attenzione e sempre più diffidenza verso i brand e i prodotti di cui parlano.

Rimettere il potere nelle mani dei consumatori

Per la Generazione Z il deinfluencing è un modo per rivendicare il proprio potere nei confronti del mercato.

Il deinfluencing però non è la fine dell’influencing marketing, anzi ne è una parte. Emma Austin, una social media marketing freelance, è stata esplicita sul fenomeno ed ha messo a disposizione, sui propri canali social, una serie di consigli su come risparmiare denaro e pensare in modo più consapevole prima dell’acquisto, soprattutto visto lo stato attuale dell’economia. Per lei la tendenza è quella di “rimettere il potere nelle mani dei consumatori invece di valorizzare l’opinione di ogni singola persona”.

Già nel 2021 Seth Godin, autore di “La Pratica” e di altri best seller internazionali che hanno cambiato il modo di pensare e fare il marketing, intervistato da ilSole24Ore sentenziava: «Il futuro degli influencer appartiene già al passato. Perché nella maggior parte dei casi coloro che vengono definiti influencer non lo sono affatto. Piuttosto sono hacker egoriferiti legati alle pubbliche relazioni, e per giunta spesso scarsamente remunerati. D’altronde raccontarsi sui social media è una corsa che non porta alcun vantaggio, perché nel lungo periodo non genera né attenzione e né fiducia. Nella stragrande maggioranza dei casi i social sono una trappola. Certamente ci forniscono un microfono, ma sta poi soltanto a noi decidere come utilizzarlo al meglio.

Ora è la volta dei microinfluencer

Non è però il momento, per i marketer, di abbandonare gli influencer, ma senza dubbio il fenomeno sta cambiando. Negli ultimi anni i consumatori hanno iniziato a cercare contenuti più autentici come risultato della saturazione eccessiva dell’influencer marketing. Il più grande cambiamento che stiamo vedendo è che i consumatori si fidano meno dei contenuti rispetto al passato e i brand devono essere molto più attenti riguardo alle partnership. La regola da seguire è non contare solo i follower.

Inoltre, le piattaforme social hanno funzionalità progettate per incoraggiare i consumi, come lo scorrimento continuo, i video a riproduzione automatica e le raccomandazioni sviluppate dagli algoritmi. Instagram e TikTok offrono agli utenti un flusso di contenuti coinvolgenti che possono scorrere all’infinito, esponendoli a una serie infinita di prodotti, servizi e stili di vita che altrimenti non avrebbero incontrato. Questo flusso continuo di posizionamenti di prodotti può spingere le persone a comprare cose di cui non hanno realmente bisogno o creare un desiderio di omologazione per stare al passo con le ultime tendenze e raggiungere uno status sociale.

Per gli uffici marketing, in questo momento, è utile guardare ai microinfluencer che sanno come parlare alle nicchie di pubblico e possono essere più bravi a camminare sulla linea sottile tra contenuti a pagamento e organici rispetto alle loro strategie editoriali.

Cos’è un microinfluencer

Ma cos’è un microinfluencer? Un micro-influencer ha una presenza sui social media tra 1.000 e 100.000 follower, quindi meno di una celebrità, e – fattore molto importante per il marketing – una audience allineata con i loro interessi o competenze. Inoltre, produce interazioni più frequenti e genuine con il pubblico perché quei follower sono in gran parte amici o conoscenti con i quali condividono un interesse specifico, di nicchia.

In un momento storico in cui le persone sono sempre più stanche della pubblicità e sempre più diffidenti nei confronti delle sponsorizzazioni i micro-influencer sono davvero in grado di tagliare il “rumore” con l’autenticità di cui i brand hanno sempre più bisogno.

Spesso i microinfluencer condividono prodotti, look, luoghi o servizi preferiti di loro spontanea volontà. Quindi, quando si presenta una partnership a pagamento, il brand beneficia dell’affidabilità dell’influencer.

Il caso di Tractor Supply Company

Un caso di studio è quello di Tractor Supply Company, una catena statunitense di vendita al dettaglio per agricoltori. A prima vista l’agricoltura non sembra il settore migliore nel quale applicare strategie di marketing con micro-influencer, ma non è così.

L’ufficio marketing di Tractor Supply Company ha svolto una ricerca ed ha scoperto che i suoi clienti più affezionati sono gli allevatori di polli. L’azienda di Brentwood, Tennessee, ha ingaggiato Andy Schneider, punto di riferimento assoluto quando si parla di polli, realizzando – assieme a lui – un podcast quotidiano “Backyard Poultry With The Chicken Whisperer” che registra oltre 20 mila ascoltatori.

Anche Victoria’s Secret punta sui microinfluencer

Per una recente campagna di marketing per Pink, la linea dedicata alle più giovani, Victoria’s Secret ha collaborato con Viral Nation per connettere il brand con alcuni nuovi “ambasciatori” provenienti dai college. La scelta non è ricaduta su influencer tradizionali, ma l’agenzia newyorkese ha reclutato decine di micro-influencer.

Il risultato un esercito di testimonial che raccontano il brand alle loro nicchie, portandolo di fatto anche dove nessuna pubblicità globale sarebbe arrivata.

Per garantire che un microinfluencer incarni i valori di un brand, un’azienda controllerà spesso come un influencer interagisce con i commenti e che tipo di valori si riflettono nei loro contenuti. Solo se un microinfluencer produce interazioni di alta qualità e contenuti moderati un brand dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di dare vita ad una collaborazione meglio se organica al proprio piano editoriale.

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