-“Ok, voi due avete familiarità con la scala trofica?”
-“beh, fa finta di no!”
-“È un indice che mostra la posizione nella catena alimentare.
I super-predatori sono a livello cinque, al vertice. Squali, tigri, uccelli rapaci, predatori che mangiano predatori.
Gli esseri umani, contrariamente a quanto si crede, sono solo a livello 2.2, insieme ai maiali e alle acciughe.
Solo due cose ci consentono di essere come dei super-predatori, in cima al vertice: il ragionamento e la nostra tecnologia.”
James Patterson (2015), “Catena alimentare”, ZOO, Episodio 6, Stagione 1, Netflix, minuti 31’14’’
Tutto si trasforma, tutto cambia. Noi, il mondo intorno a noi e i linguaggi che ci mettono in comunicazione con le comunità che abitiamo.
La scala trofica non ci parla solo di catena alimentare ma ci suggerisce l’importanza di mantenere viva l’attitudine del ragionamento e l’utilizzo delle tecnologie accompagnate dalla ricerca senza sosta in entrambi gli ambiti. Ci dice anche che nel mondo delle idee non c’è nulla di eterno sul quale possiamo fare affidamento. La nostra capacità di ragionamento ci dà la possibilità di pensare e ricostruire la nostra storia, di giorno in giorno e quindi è sempre attivamente impegnata a ripensare se stessa. In questo cammino, osservando e ragionando, abbiamo capito che il museo e i suoi strumenti stanno spostando l’attenzione dal singolo alla comunità nel suo senso più ampio. I musei sono la testimonianza che la cultura dialoga con i territori e il ragionamento intorno al museo come luogo di comunità contribuisce a una riqualificazione urbana.
La necessità di ragionare intorno all’idea del museo – pensiamo al museo dove Paolo Giovio raccoglie la sua collezione di ritratti degli uomini illustri – nasce avendo scritto nelle sue più intime pieghe il tentativo di contrastare il confine più incisivo dell’antropologia e quindi dell’immaginario: la morte. È questo ragionamento che, accompagnato dalle tecnologie disponibili al tempo – architettura, arte della stampa – porta a posizioni dominanti nel mondo delle idee, nel modo di percepirsi e raccontarsi al mondo.
Quello che un tempo poteva sembrare adeguato, se non viene alimentato da una ricerca continua, se non viene affiancato dallo studio e dall’applicazione dei nuovi linguaggi che si generano, improvvisamente scivola via lasciando il posto ad altro. Il museo ha sempre ripensato se stesso e abbracciato il nuovo che la società gli offriva. Come avesse una coscienza sua propria, una propria capacità di libero arbitrio, coglie sempre i tempi per diventare uno spazio per la comunità. Mai come oggi si trova immersa in questo flusso.
Studio e ricerca, sperimentazione ed applicazione restano quindi i punti intorno ai quali si deve lavorare per superare i cambiamenti in atto. Le sempre nuove tecnologie sono gli elementi che mantengono lubrificato il meccanismo che produce una qualità in movimento. In questo modo il superamento plasma le nostre estetiche in un continuo rinnovamento.
Ci sono oggetti che hanno una forte potenza evocativa e metaforica che, studiati da vicino, testimoniano il modo attraverso il quale ci relazioniamo al mondo.
Uno di questi oggetti è il boomerang.
Ricordiamo una lettura ai tempi dell’università, un ampio studio di anglicistica* sul tema degli oggetti in antropologia; come dobbiamo guardarli dalla parte della nostra cultura e conseguentemente come li dobbiamo raccontare?
In questo studio erano trattate le prime impressioni degli studiosi inglesi in relazione ai popoli aborigeni. Per quanto riguarda il boomerang, il saggio riportava l’annosa questione se considerare l’oggetto antropologico come il testimone di un evoluzionismo in corso oppure se fosse il testimone del degenerazionismo degli aborigeni.
Sono passati decenni ma il boomerang è il testimone di qualcosa che non abbiamo ancora compreso fino in fondo: continuamente parliamo di effetto boomerang per parlare di qualcosa che ha un effetto non positivo in quanto ritorna sempre indietro. È una osservazione molto importante. Ciò che è negativo non risiede nella possibilità che il boomerang torni indietro. Quella è la sua natura, anzi, la caratteristica per la quale è stato pensato e utilizzato.
Non saperlo riprendere con una presa decisa e ferma è indice di una incapacità di chi lo usa, non dell’oggetto: se il lanciatore non è capace di ricevere l’oggetto in fase di ritorno non può incolpare il Boomerang ma deve domandarsi dove sta sbagliando.
Questa caratteristica vale per tutte le tecnologie, compreso il digitale. Per poterlo usare nel migliore dei modi va conosciuto bene nei suoi aspetti, comprenderne il vero potenziale e conoscere il comportamento e funzionamento in relazione agli altri, lo specchio che restituisce il messaggio lanciato nel digitale. La presa salda che si dimostra, la fermezza che si manifesta nel riceverlo al suo ritorno, è metafora della qualità del rapporto che si ha con la tecnologia.
È qualcosa che sta accadendo molto in fretta, velocemente che fa emergere nuove qualità che stanno portando a trasformazioni straordinarie in termini di potenza comunicativa ma anche nuove fragilità che si affiancano ad altre già esistenti.
I musei sono stati i luoghi dove si intrecciavano i confini del tempo; passato presente e futuro si incrociavano all’interno ad una visione meravigliosa da camera: nati per raccogliere tracce del sapere all’interno di una visione abitabile per sottrarli dall’oblio. Era uno spettacolo per pochi eletti, il teatro di una vita riservata lontana dalle strade più polverose della città.
Oggi i musei vogliono essere spazi dove si vive una contemporaneità condivisa, sono spazi vivi che scambiano giornalmente con l’esterno: scambiano ragionamenti, pensieri, emozioni utilizzando anche le tecnologie digitali.
L’uso delle tecnologie velocizza il processo di apertura alla società e alla sua caratteristica socialità.
In ogni tratto della sua storia, l’idea del museo è cresciuta a fianco delle osservazioni degli scienziati e al pensiero degli studiosi. Ha modificato le sue forme in relazione a come questi guardavano il mondo e costruivano le visioni per contenerle. Ora questa possibilità di dare forma ad una rappresentazione del museo e quindi alla sua esperienza si è estesa al pubblico che diventa parte attiva anche grazie all’impiego dei nuovi linguaggi permessi dal digitale.
Un pubblico sempre più allargato che comprende anche le parti più fragili della società.
Il museo è sempre stato uno schermo di protezione che protegge una cultura. Così come uno schermo di protezione è la tecnologia che ci riveste di componenti che potenziano il nostro corpo. Nel tempo, i musei sono cresciuti come parti di mondo protette, tutelate, come memorie vive sottratte al normale destino delle cose, sottratte alla loro caducità. Talvolta sono rimasti anche slegati dal vivere quotidiano, da una vita veloce che scambia continuamente emozioni, pensieri.
La duplice funzione conservativa – conservare oggetti e conservare la stessa idea di museo – ci ha accompagnato per lungo tempo come vertice di un triangolo (tutela, esposizione, ricerca) che è ormai superato. Per poter sopravvivere anche il museo ha una nuova identità digitale che dialoga costantemente con tutte le sue altre anime e con le altre identità che popolano la rete. È una identità che, caso per caso, si manifesta con un suo proprio carattere che testimonia la possibilità umana di pensare e ragionare utilizzando le nuove tecnologie. Ancora una volta è l’ubiquità dell’esperienza culturale, la possibilità di incrociarla in ogni istante e ovunque a fare oggi la differenza.
“The exhibition is not only responsibility of the artist, it’s also kind of responsibility of the visitor, and there’s no one single way of interpretation of the work. The work can be interpreted in different ways depending on the visitor” (Miroslaw Balka)