cultura e digitale

Il digitale entra al museo: superare i vecchi modelli, con le chiavi giuste

I dispositivi tecnologici sono dei potenti magneti di interesse, ma da soli non bastano. Servono le parole giuste – privacy, intimacy, creatività, coinvolgimento – perché le storie passino di tasca in tasca, di messaggio in messaggio

Pubblicato il 22 Mar 2017

Lucilla Boschi

curatore museo Tolomeo

Fabio Fornasari

architetto, museologo e Membro ICOM

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In un precedente articolo abbiamo fatto un rapido passaggio indicando cosa sta accadendo nei luoghi per eccellenza dove si raccoglie, documenta e comunica il nostro patrimonio culturale. Si è trattato di un primo contributo che si avvicina più a un indice, a un elenco di questioni che sovente scriviamo e sentiamo. Si potrebbe dire che sia un errore, che sia sconveniente, ma in sostanza è la forma che abbiamo appreso, ciò che abbiamo imparato navigando in questi anni all’interno della cultura digitale: fare liste, raccogliere elementi e metterli in connessione tra loro, costruire ponti che generano nuove associazioni di pensieri per andare incontro a pubblici sempre più allargati. È un approccio multidisciplinare che non è necessariamente sviluppato in rete. Può anche essere unplugged. Abbiamo imparato a capire che è un linguaggio che ci ha cambiati offrendoci metodi costruttivi da compiere con passi semplici e non ambigui. Ed è chiaro e per nulla ambiguo che ha influenzato il modo di pensare alla programmazione di una attività museale: anni di social network ci hanno mostrato e abbiamo imparato che i musei hanno bisogno di un pubblico. Non sono più semplicemente delle collezioni, degli archivi.

Già dalla prima domanda che ci siamo più volte posti all’inizio di qualsiasi progetto museale “quale tipo di museo vogliamo essere?” si sente la necessità di dare una risposta non più legata ad una abitudine. Un tempo era semplice. Pensare e quindi fare un museo significava ragionare all’interno di modelli che aderivano alle tassonomie disciplinari.

Figlie dell’enciclopedismo illuminista partivano da una collezione per costruire il museo.

A titolo di esempio, così sono nati il Musée du Louvre, il Whitney Museum, il KunstHistorische Museum i Landesmuseum in area germanofona eccetera: non semplicemente musei ma istituzioni che rappresentano la potenza di una nazione, la capacità di imporre modelli da copiare nel mondo per comunicare e la capacità di fare cultura.

L’arrivo di musei come lo ZKM di Karlsruhe cominciano a mostrarsi più attenti alla curiosità del pubblico: il tema non è più educare alla cultura ma fare partecipare alla cultura, coinvolgere il pubblico all’interno dell’esperienza.

Come abbiamo già scritto questo cambiamento è in corso. Se ne trova traccia anche a livello europeo all’interno di progetti specifici come l’Emotive Project Il progetto ha il compito di ripensare la comunicazione all’interno dei musei, un progetto triennale che apre a una narrazione che coinvolge il pubblico.

Se insistiamo sul digitale è perché riconosciamo in questo il modello possibile di evoluzione verso il superamento dei modelli tradizionali di museologia. Privacy, intimacy, creatività, coinvolgimento sono tutte parole che si accompagnano allo studio di una nuova definizione di museo.

Sono anche quelle parole sulle quali occorre lavorare per avvicinare chi ancora non va al museo.

I dispositivi tecnologici sono dei potenti magneti di interesse. Ma servono le parole giuste, le chiavi che identificano con chiarezza, senza ambiguità, per quale motivo mi devo/posso interessare.

Dopotutto, che li amiamo oppure no, i dispositivi tecnologici sono tra noi. Facendone esperienza adottiamo anche i loro linguaggi  per pensare alla cultura e al coinvolgimento dei pubblici, vecchi e nuovi.

La collezione è diventata un minimo requisito necessario ma non sufficiente per costruire intorno ai temi scientifici il racconto, l’esperienza di visita. I musei sono sempre più stazioni dei nostri percorsi, stazioni dove sperimentare emozioni, dove incontrarsi e conoscersi all’interno di una comune esperienza.

Allora forse la domanda su quale tipo di museo, oggi si declina in “quale tipo di museo digitale vogliamo essere?”. Ossia, quali nuove tecnologie vogliamo coinvolgere all’interno del racconto per arrivare a coinvolgere nuovi pubblici. Dalle narrazioni che si richiamano agli ipertesti a forme più rigide che ricalcano la lettura di un classico della letteratura. Certo è che le storie oggi ce le portiamo dietro, nelle nostre tasche e nelle nostre teste. Sappiamo riconoscere ovunque uno spunto per lasciare una nostra versione, una nostra testimonianza. Siamo immersi nelle storie e loro tra noi. Il digitale dopotutto è il processo che caratterizza il nostro tempo e nei suoi aspetti positivi ricorda i tempi dell’oralità: le storie passano di mano in mano, di tasca in tasca, di messaggio in messaggio.

Gli autori sono, rispettivamente: curatore Museo Tolomeo e architetto museologo, Membro ICOM

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