In quale modo i linguaggi e i comportamenti associati alle tecnologie digitali possono aiutare i musei nella relazione con la società?
In questo articolo cerchiamo di costruire un sentiero, una opinione in forma di pensiero per orientarci all’interno di ciò che vediamo accadere intorno a noi. Quotidianamente si possono leggere articoli su cosa sta accadendo all’interno dei nostri musei. C’è chi la chiama crisi, chi la chiama rivoluzione, chi offre soluzioni e chi ha già il prodotto nel cassetto per dare la risposta.
Chi scrive pensa che mai come ora siamo immersi in una realtà sistemica dove ogni elemento è influenzato dalla cornice e dallo sfondo alla quale appartiene.
Da questa idea di immersione in un flusso continuo di cose e relazioni che accadono si può cercare una risposta alla domanda iniziale.
Il cuore della risposta risiede in questo pensiero semplice: i musei oggi hanno bisogno di attirare pubblico, di coinvolgerlo all’interno delle proprie attività di produzione di senso per uscire dalla più semplice idea di consumo per entrare in una più allargata di partecipazione e quindi di produzione. Questo non solo all’interno dei propri spazi e del tempo di visita, ma anche all’interno della stessa costruzione delle narrazioni.
I musei italiani sono molto capaci nel raccogliere e conservare, nello studiare e costruire percorsi di senso di alto contenuto scientifico; non lo sono altrettanto nel mettersi in relazione con il pubblico, nel semplificare i contenuti per costruire una prima ossatura, uno scheletro primario sul quale mettere in piedi un nuovo pubblico che poi col tempo imparerà ad approfondire. In sostanza non riescono a parlare ai pubblici che non conoscono e che quindi non frequentano i musei se non in momenti occasionali legati ad occasioni turistiche.
Spesso manca all’interno delle strutture chi ha il compito di osservare i flussi del pubblico, che ne osserva i comportamenti, cosa cerca e cosa gli manca.
Anche in questo caso il motore intorno al quale si può ragionare è la tecnologia digitale.
La cosa importante però da chiarire è che come tutte le tecnologie, quella digitale si presenta come un potente dispositivo che lavora a livello delle relazioni, dei rapporti che intercorrono tra noi e gli ambienti che attraversiamo.
Indubbiamente siamo dei consumatori di tecnologie. Ma questa stessa tecnologia, lo sappiamo, ci porta a superare questa definizione di consumatori per farci assumere anche un ruolo di produttori; ma anche di narratori nel momento in cui condividiamo con altri le nostre esperienze che diventano anche emozioni da condividere. In questo senso le tecnologie che usiamo sono degli oggetti che permettono di mettere in relazione stati d’animo e conoscenze.
Tutto questo è abbastanza inevitabile. È chiaro che la cultura contemporanea sta sempre più abbracciando una mentalità partecipativa che si aspetta di valutare, rivedere, commentare e condividere pensieri e opinioni nello stesso momento nel quale tutto questo accade. La raccolta, il remixare e la condivisione di queste informazioni con gli amici e la famiglia in qualsiasi momento porta il pubblico che entra in un museo ad assumere comportamenti imitativi. Questa modalità imitativa fa sì che i contenuti stessi del museo vengano veicolati nella rete e quindi si ha una circolazione e un flusso dei contenuti del museo che attraversa, anche se distrattamente, un pubblico molto più allargato.
Un tema è anche quello della qualità di ciò che circola. All’interno del museo è possibile sviluppare pratiche di “capability building”: la comunità impara come si possa raccogliere, conservare, interpretare e tramandare i propri valori culturali alle generazioni successive.
Non si limita quindi a esprimere un pensiero istantaneo ma lo può fare imparando che questo è importante in quanto lavora all’interno di una documentalità.
Prima ancora di quale tecnologia usiamo, di quale app usiamo, è importante capire come questa entra in gioco all’interno della museologia, di quale ruolo assume nella relazione tra il territorio, la comunità e le collezioni esposte. Di soluzioni ve ne sono ormai tante che si affiancano e implementano le più semplici didascalie, i cartellini a fianco delle opere.
Quello che sosteniamo è che al di là delle app specifiche, è la dimensione social della condivisione delle esperienze in flusso continuo -prima, durante e dopo – che può diventare una condizione di apprendimento.
Tra gli obiettivi è bene che:
- creino accessibilità sul piano della comprensione a chi si trova in qualche forma di difficoltà ad entrare nei contenuti delle collezioni;
- che possa rappresentare una modalità differente di approccio ai contenuti all’interno di una scelta: la multimodalità è l’orizzonte più importante per coinvolgere i diversi tipi di pubblici, anche quelli più svantaggiati;
- creino una differente modalità di coinvolgimento all’interno della dimensione narrativa del museo: incontrare diversi modi di conoscere quella storia; scelgo quale.
- che crei un’occasione per la generazione di contenuti altri che si affiancano a quelli più tradizionali, da parte di chi visita il museo. Questa dimensione social di creazione di senso è probabilmente il dato più interessante perché crea quell’empatia necessaria tra un museo e il suo territorio: il museo si completa con il contributo intorno all’immaginario della propria collezione in relazione al proprio pubblico. Può diventare più famigliare a chi lo visita, facendolo sentire parte di una realtà molto più grande, apparentemente senza tempo.
Tutto questo sicuramente non serve alla collezione, per acquistare un valore, non serve ad un museo per approfondire i contenuti scientifici intorno alle discipline. Serve piuttosto a conoscere meglio e a coinvolgere il grande flusso di persone che domandano e consumano cultura. È cosa molto delicata da gestire e richiede grandi competenze trasversali, non solo tecnologiche. Leggiamo nei libri di Jared Diamond l’importanza della conoscenza scientifica della storia per poter comprendere il nostro presente e immaginare il futuro. Un futuro che ignora o fa finta di ignorare ciò che è accaduto prima di lui porta solo a ripetere gli stessi errori. Anche il fattore tempo, i progetti passati e anche i fallimenti alimentano le nostre capacità di costruire un senso attraverso i linguaggi delle tecnologie: che siano cuffiette, videogiochi o storie di Snapchat l’onestà intellettuale resta il più alto valore umano da rispettare.
Lavorare sulla dimensione empatica tra museo e territorio, tra le sue Storie e le storie individuali e collettive all’interno di una visione cosciente nei social network dilata l’esperienza del museo, ne allarga il respiro. Come per il vino migliore: non si produce senza conoscere il proprio “terroir”, un insieme di fattori materiali e umani che concorrono a creare intorno all’attività enologica una qualità unica e irripetibile. Ma questo rende ancora più evidente quello che è sempre stato: qualsiasi esperienza di visita al museo non è fatto solo del tempo che passiamo nelle sale.
È il desiderio di andare che comincia giorni prima e che già ci coinvolge nel cercare e filtrare le informazioni. Le tecnologie, le memorie, i dispositivi infine la nostra mente e il nostro modo di abitare il mondo è coinvolto prima durante e dopo la nostra visita.
Perché questo funzioni al meglio è importante che l’esperienza museale, come qualsiasi altra esperienza, resti differente e originale, unica e irripetibile. I dispositivi digitali, non devono consolarci e riproporci i contenuti che sappiamo già riconoscere, come accade nei social. A fianco della ricompensa di trovare qualcosa che ci piace dobbiamo sempre pensare al museo come luogo dove si fa un’esperienza che comunque non deve essere semplicemente consolatoria, ma anche di crescita individuale e collettiva.
Quindi la risposta? L’uso delle tecnologie digitali, l’esperienza dei suoi linguaggi ci ha portato a diventare tutti ricercatori intorno ai nostri desideri. I musei devono imparare a intercettare queste ricerche personali e individuali all’interno di nuove strategie di coinvolgimento del pubblico nella generazione dei racconti intorno all’esperienza museale e all’esperienza delle collezioni. Questo è quello che è già accaduto in ambito scientifico e che sta accadendo con gli OpenData.