Una delle parole che ci ha più accompagnato in questi anni di pandemia è stata: disinformazione. Non si tratta soltanto di singole notizie false o fake news, ma di strategie ben organizzate, di falsità ripetute, disegnate per essere credibili e credute, per polarizzare il dibattito pubblico, per definire le priorità dell’agenda politica, per alimentare sfiducia nei confronti delle istituzioni, della conoscenza, del modo in cui il sapere scientifico progredisce. Per questo, al di là dell’oggetto e del contenuto, le strategie di disinformazione sono intrinsecamente politiche, nei loro effetti e nelle loro intenzioni.
Click baiting, così le big tech finanziano la disinformazione
Il paradosso della disinformazione nell’era dell’accesso libero all’informazione
La questione della disinformazione non è, certo, nuova. Ma è davvero un paradosso che essa torni così centrale nell’epoca della digitalizzazione delle informazioni e dell’accesso più libero, rapido e decentralizzato ad esse, mai esperito dall’umanità intera. La libertà di espressione (free speech) non è più soltanto associata alla libertà di informare, di informarsi e di essere informato, ma è stata estesa anche alla libertà di disinformare o di esporsi alla disinformazione. Com’è possibile che la disinformazione trionfi anche in una società nella quale, spendendo qualche tempo sul web, si possono verificare le notizie, approfittando della grande disponibilità di informazioni che il web ci offre?
È facilissimo verificare, con un po’ di click, se siamo di fronte a una bufala o a un episodio vero decontestualizzato o falsamente contestualizzato ad arte perché ci appaia ciò che non è. Eppure, la cattiva e falsa informazione prolifera e diventa virale, grazie alla nostra pigrizia e alla nostra faziosità. Ci piace credere sia vero, come diceva Demostene, ciò che desideriamo. E il tempo della nostra attenzione è così scarso che abbiamo poca voglia di verificare le notizie che un sapiente algoritmo o un giornalista di parte ci propongono. Nemmeno l’eroica attività di fact-checkers indipendenti, secondo alcuni studi recenti, riesce a far cambiare idee basate su notizie false. Anzi, in taluni casi, l’insistenza sulle verità di fatto infastidisce i creduloni e alimenta il complottismo.
È un fatto che le strategie di disinformazione stiano registrando un crescente successo proprio nell’epoca della massima esplosione del free speech. Esse hanno riguardato ambiti rilevanti della nostra vita, oggetto di politiche pubbliche: le politiche ambientali (e in particolare l’esistenza e la pericolosità del riscaldamento globale causato da emissioni antropogeniche), le politiche sanitarie su virus e vaccini (Hiv, no Vax, Covid-19), le politiche migratorie (e in particolare i numeri relativi al fenomeno, i paesi di provenienza, i tempi di residenza, i costi dell’accoglienza e le fonti di finanziamento), le politiche di cooperazione tra Stati e le scelte di governance istituzionale sovranazionale (in particolare, i costi della free trade area tra America del Nord e America del Sud, e le opportunità o i risparmi della Brexit5), l’integrità delle procedure delle elezioni presidenziali americane del 2020.
Tutti temi di grande rilevanza pubblica, e di agenda setting, rispetto ai quali il successo delle strategie di disinformazione può pesantemente influenzare i comportamenti individuali e sociali e gli esiti stessi delle politiche pubbliche a tutela dei cittadini.
Disinformazione e resilienza delle democrazie
Per questa ragione, la questione della disinformazione finisce per essere strettamente legata alla fragilità e alla resilienza delle odierne democrazie: come possiamo disegnare le migliori politiche pubbliche se l’informazione sui fatti che dovrebbero orientare il dibattito è inquinata? Come possiamo scegliere quali politiche pubbliche indirizzare, se siamo sempre più disinformati? Il diritto a informare e a informarsi, che molte costituzioni, inclusa la nostra, garantiscono, deve estendersi anche al diritto a non essere disinformati, come sembrano suggerire, con diversa enfasi, Cass Sunstein e Luigi Ferrajoli? Quanta disinformazione può sopportare la fragilità delle nostre democrazie? E come possiamo contrastare le strategie di disinformazione, mantenendo un ambiente informativo pluralistico e libero di esprimersi? Le regole di moderazione dei contenuti nel web devono continuare ad essere un campo autonomo di decisione e applicazione delle grandi piattaforme online oppure è necessario introdurre regole pubbliche di trasparenza e responsabilità? E, infine, come trattare la disinformazione alimentata anche nei media tradizionali, che pure mantengono la responsabilità editoriale dei contenuti?
Il web campo privilegiato per la disinformazione organizzata
La propaganda e le strategie di disinformazione sono antiche. Ci siamo abituati a conoscerle, nei rapporti tra potere e libertà, in tante epoche, inclusa quella predigitale in cui, nei media tradizionali o mainstream, era assai più ridotta la possibilità di accedere direttamente alle informazioni, come invece avviene con l’avvento della società digitale. Anzi, in molti casi le sfide di libertà e di testimonianza diretta, permesse dalla società digitale, ci hanno consentito di controllare e smascherare proprio la disinformazione organizzata che si annida anche nei media tradizionali.
Allo stesso tempo, tuttavia, il web, per come si è evo luto, secondo il grido d’allarme del suo stesso fondatore Tim Berners-Lee, sembra offrire un campo privilegiato alla disinformazione organizzata, come un grande acceleratore di distorsioni cognitive e nuovi filtri selettivi che finiscono per ampliare l’efficacia degli strateghi della disinformazione.
La selezione automatica dei contenuti online, operata dagli algoritmi, è necessaria per permetterci di orientarci in un vastissimo oceano di sovraccarico di informazioni (information overload) tra le quali facciamo fatica a scegliere. Questa selezione è tuttavia basata sui nostri dati e sulle nostre scelte sul web e ci restituisce solo quella piccola parte di contenuti e di informazioni che potrebbero interessarci con un’elevata probabilità. Inevitabilmente, il lavoro degli algoritmi non è neutrale rispetto a ciò che cerchiamo e a ciò che ci viene proposto online e per tale ragione potrebbe esercitare un ruolo decisivo nell’incremento della polarizzazione politica e dell’estremizzazione tra gruppi politico-culturali rivali, su molte tematiche, in molti paesi. Specie laddove la selezione algoritmica e l’organizzazione (framing) dei contenuti online finiscono per esaltare distorsioni cognitive (confirmation bias, groupthink ed echo chamber).
Intrappolati nel mercato delle verità
Tutto questo ci porterà a una conclusione allarmante: non siamo immersi in un mercato delle idee aperto, nel quale la libertà d’informazione permette il confronto tra opinioni diverse facendo progredire la società; in cui la concorrenza tra libere informazioni è il meccanismo che da solo genera un’autentica libertà di scelta; in cui libertà d’espressione e verità dei fatti si alimentano a vicenda.
Al contrario, siamo sempre più intrappolati in un mercato delle verità dove si comprano e vendono fatti verosimili in funzione delle emozioni che sanno suscitare e delle nostre verità desiderate. La verità fattuale è domandata e offerta. Su misura. Anche grazie alla profilazione operata dagli algoritmi.
Ma questa trasformazione, dal vecchio mercato delle idee, di cui ci parlava John Stuart Mill, all’odierno mercato delle verità, produce anche delle vittime: sono il pluralismo informativo e l’apertura al confronto e alla discussione a partire da fatti verificati e condivisi, così essenziali per la salute delle nostre democrazie.
Come ne possiamo uscire? Dobbiamo solo aspettare? Lasciare al mercato delle verità la possibilità di superare sé stesso? Servono nuove regole, affidate a controllori terzi e indipendenti? E quali? Come possiamo sostenere il pluralismo informativo, difendendolo, al contempo, dal contagio della disinformazione?
La risposta non è facile, perché impatta sulle nostre libertà e sul rapporto tra poteri pubblici e poteri privati. Ma una cosa la sappiamo di certo: le regole che abbiamo disegnato per governare il vecchio mercato delle idee ci paiono oggi inadeguate, se non addirittura dannose se applicate al mercato delle verità. Pensare che il pluralismo delle idee coincida con la pluralità di fonti informative potrebbe generare nuovi equivoci e nuove illusioni. Come quelle per cui, al crescere dell’offerta informativa aumenta, automaticamente, il pluralismo. Nel mercato delle verità, infatti, ciò che manca non è certo l’offerta d’informazioni, ma l’apertura al confronto e la «resistenza» alla disinformazione, giacché si scambiano sempre meno idee e opinioni, almeno nel senso in cui pensava John Stuart Mill. Né si cambia, tanto facilmente, punto di vista. Nemmeno quando squadre di fact-checkers o testate giornalistiche autorevoli producono evidenze verificabili circa la falsità di pretesi «fatti».
Il nodo delle regole
Lo scontro quotidiano con chi la pensi diversamente da noi, semmai, sembra polarizzarci ancor di più, almeno secondo alcuni primi studi empirici. Di fronte a questo scenario, torna prepotente il tema delle regole. Sul web, certo, ma anche su quella parte di media tradizionali che per acchiappare l’attenzione (clickbaiting) o solo per faziosità politica, alimentano la disinformazione, in una concorrenza verso il basso dove l’informazione cattiva o falsa caccia quella verificata e di qualità.
Il dibattito sulle regole appare monco, dando per scontati la necessità di interventi, o il suo contrario, senza un’indagine preliminare sul rapporto tra potere, libertà d’espressione e democrazia. Insomma, serve un qualche fondamento teorico anche per le politiche di contrasto alla disinformazione, nei vecchi e nei nuovi media, e nelle prossime pagine tenteremo di offrire alcuni spunti a tal fine.
Per esempio, una lettura attenta di John Stuart Mill e della giurisprudenza della Corte Suprema americana, ci mostra che il paradigma liberal-romantico del mercato delle idee non si esaurisce affatto nella difesa di un illimitato free speech come obiettivo sociale, ma trova invece il suo fondamento nella capacità strumentale che avrebbe la libertà d’espressione di affermare la verità come bene ultimo per il progresso di una società democratica. Il che dovrebbe almeno indurci a chiedere quale sia, nell’infosfera digitale, la relazione tra libertà (d’espressione) e verità (dei fatti), negli anni della dinsinformazione e della post-verità. Accanto a Mill, altri autori aiutano a comprendere la misteriosa relazione tra libertà e verità: l’insistenza di Hannah Arendt sulla «modesta verità dei fatti» come fondamento della libertà d’espressione; la differenza tra il diritto di tutti a parlare (isegorìa) e la libertà del coraggio della verità (parresìa) rispetto ai potenti, nella lettura di Michel Foucault della democrazia ateniese; il paradosso di Ronald Coase sull’asimmetria regolatoria che sussiste tra mercato dei beni da un lato e mercato delle idee dall’altro e sulla contraddizione che essa genera nel diverso modo in cui trattiamo
il bene informazione per i consumatori e per i cittadini; il diritto a non essere disinformato come uno degli aspet ti che Cass Sunstein sembra attribuire alla tutela della libertà d’espressione.
Conclusioni
Queste analisi portano a indagare sull’origine e sui rischi del mercato delle verità per la democrazia, inteso come degenerazione antipolitica del mercato digitale delle idee.
Sullo sfondo, c’è la crisi dei media tradizionali e la tentazione di imitare le dinamiche tipiche dei social network e di molti servizi digitali; c’è l’«illusione della conoscenza» indotta dall’accesso immediato, e non mediato, al più grande archivio di informazioni mai esperito dall’umanità; c’è il paradosso della concorrenza tra fonti informative che competono per attrarre una risorsa scarsa come la nostra attenzione. Al crescere della dimensione del mercato delle idee, si riduce il tempo che dedichiamo alla ricerca e alla verifica delle informazioni mentre aumenta quello che destiniamo a notizie e a fonti che confermano la nostra pregressa visione del mondo.
Tutto ciò solleva, a sua volta, domande sulla capacità di quella che Jürgen Habermas chiamava la sfera pubblica di autoregolarsi, di confrontarsi e anche di rispettarsi. Le regole che abbiamo disegnato in passato per governare il libero mercato delle idee, oggi non solo non paiono funzionare, ma sembrano addirittura generare nuovi fallimenti di quel mercato.
Se è vero che la disinformazione è qui tra noi per restarci, allora servono nuove riflessioni sul rapporto tra disinformazione e democrazia o, se si vuole, tra libertà e verità.