la riflessione

Il diritto umano alla scienza: perché la politica non fa ancora abbastanza (nonostante il covid)

La scienza è un diritto umano universale e la ricerca di un vaccino anti-covid ci ha insegnato quanto sia importante che in tempi di crisi globale il mondo collabori per trovare soluzioni a problemi comuni, a vantaggio di tutti. Eppure, raramente la scienza è trattata come un alleato del legislatore, soprattutto in Italia

Pubblicato il 23 Feb 2021

Marco Perduca

Senatore radicale (2008-2013), co-fondatore, Science for Democracy, associazione Luca Coscioni

science covid

Per diventare parte integrante delle nostre società, la scienza ha bisogno di essere riconosciuta per quello che è stata negli ultimi sessant’anni: un diritto umano universale.

Una necessità mai così lampante come in questo periodo di pandemia: la decisione di Joe Biden di fare della scienza uno dei pilastri del suo mandato, e i suoi primi executive order, rappresentano sicuramente un cambiamento di scenario quanto mai benvenuto e dovrebbero essere presi a esempio da molti per prepararsi strategicamente al futuro. Eppure, la strada verso l’affermazione del diritto alla scienza è ancora lunga, soprattutto in Italia.

Coronavirus e scienza: storia di un rapporto complicato

Sin dai primi giorni della scoperta del nuovo coronavirus in Cina, scienza e scienziati sono stati al centro del dibattito pubblico per cercare di sequenziarne il DNA, per informare le decisioni per rallentare le infezioni, identificare possibili terapie e avviare la ricerca per un vaccino sicuro ed efficace. Nonostante questo, molto raramente la scienza è stata riconosciuta come un diritto umano universale. Ma lo è.

Non dovrebbe sorprendere che il tema scelto dalle Nazioni Unite per celebrare la Giornata dei diritti umani del 10 dicembre scorso sia stato “Recover Better – Stand Up for Human Rights” (Riprendiamoci nel migliore dei modi, lottiamo per i diritti umani).

Ci troviamo di fronte alla necessità strutturale di riaffermare l’importanza dei diritti umani nella ricostruzione dopo lo sconvolgimento causato dal virus: la solidarietà globale dovrà diventare una componente centrale di questa ripresa, allo stesso tempo però, dovremmo dedicare particolare attenzione a ciò che il SARS-CoV-2 ci ha imposto e a come stiamo finalmente iniziando a vedere la fine dell’emergenza sanitaria.

La pandemia ha causato problemi riguardanti la salute e il benessere di centinaia di milioni, se non miliardi, di persone, aggravando discriminazioni, disuguaglianze, povertà e miseria in tutto il mondo. L’imposizione di leggi di emergenza ha ampliato le tragiche ripercussioni del virus sui diritti civili e politici, sospendendo elezioni, annullando assemblee pubbliche, limitando la possibilità di manifestare in piazza, soffocando critiche rivolte ai governi anche attraverso massicce incarcerazioni. Allo stesso tempo questo virus mortale ha riaffermato il ruolo che la scienza può – e deve – avere nella nostra vita.

La scienza come diritto umano universale

L’articolo 27 della Dichiarazione universale dei diritti umani (UDHR) afferma che “Ogni individuo ha il diritto di partecipare liberamente alla vita culturale della sua comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico e ai suoi benefici”.

L’articolo 15 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali riconosce il diritto di tutti a “prendere parte alla vita culturale, godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue applicazioni, beneficiare della protezione degli interessi morali e materiali derivanti da qualsiasi produzione letteraria o artistica di cui è autore”. Infine, ad aprile dell’anno scorso, un comitato di esperti delle Nazioni Unite ha adottato un “Commento generale sulla scienza” per chiarire ulteriormente gli elementi del diritto, gli obblighi degli Stati per rispettarlo e il ruolo che la società civile può svolgere nell’impresa scientifica.

Nonostante tutto ciò, la scienza continua a essere raramente trattata come un alleato del legislatore. In luoghi con leadership populiste gli scienziati sono spesso presentati come un altro gruppo elitario che vuole imporre decisioni prese da pochi in spregio alla partecipazione popolare, al controllo o all’approvazione pubblica. Troppo spesso abbiamo visto appelli alla necessità di un “uomo solo al comando” e poca attenzione (o pazienza) al lavoro di migliaia di persone, i ricercatori, che dedicano la loro vita professionale allo studio di fatti per condividere le loro scoperte con colleghi e perseguire obiettivi teorici o concreti di pubblica utilità. Queste manipolazioni o mistificazioni governative non sono mai state considerate come una violazione dei diritti umani, ma lo sono.

La scienza è un’impresa complessa, sia culturale che economica e, come abbiamo visto, politica. Oltre a ricordarci alcune nozioni di base sui virus e su ciò di cui questi sono capaci se non affrontati nella fase iniziale delle loro epidemie, questa pandemia ci ha anche insegnato che “più democrazia” o “più libertà” non sempre equivale a “più scienza”.

Il presidente Trump e altri leader democraticamente eletti, come Bolsonaro, Duterte o un paio di presidenti centro-africani, e all’inizio perfino Boris Johnson, hanno ignorato i consigli scientifici e messo in pericolo la salute e il benessere di migliaia di persone. Alcuni di questi “scettici” col passare del tempo hanno cambiato idea, ma rimane un nucleo centrale di politici che continua a trattare la scienza come un’altra questione di opinioni personali e non di analisi di fatti. Allo stesso tempo, in luoghi dove non c’è democrazia, le reazioni si sono subito allineate col progresso che la scienza faceva sulla pandemia, senza però tener conto dei costi socioeconomici e psicologici dell’imposizione di politiche molto restrittive imposte anche con l’uso della forza.

L’approccio dell’Europa

La presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen ha optato per un approccio che predilige la promozione dell’armonizzazione della fornitura dei servizi sanitari in Europa, un esercizio sicuramente utile e necessario, che però non può andare a scapito dei finanziamenti per la ricerca che sono stati inspiegabilmente tagliati.

È difficile capire come un gruppo di paesi ricchi come l’UE, che la scorsa primavera ha promosso un’iniziativa cruciale di raccolta fondi per sostenere lo sviluppo e l’approvvigionamento di vaccini, abbia deciso di indirizzare la sua revisione della spesa al finanziamento della ricerca piuttosto che, per esempio, a tagliare le risorse per la politica agricola comune! La sicurezza alimentare e la sostenibilità agro-alimentare o la “strategia dal campo alla tavola” possono trarre grandi vantaggi dal progresso scientifico applicato.

Il rapporto tra risorse e legislazione: l’Italia caso emblematico

I finanziamenti alla ricerca sono sicuramente molto importanti per la scienza, ma non sono tutto ciò che conta – e l’Italia potrebbe essere un esempio lampante di quanto possa essere complesso, se non incredibilmente intricato e oscuro, il rapporto tra risorse e legislazione. Il nostro Programma Nazionale di Ricerca resta un elenco di obiettivi che raramente trovano il necessario impegno politico o sostegno finanziario per affrontare e risolvere, una volta per tutte, alcuni problemi strutturali della ricerca vissuta in Italia.

L’Agenzia nazionale per la ricerca recentemente proposta per aiutare a controllare la distribuzione dei fondi federali sarà guidata da qualcuno nominato dal governo, una decisione che potrebbe far dubitare dell‘indipendenza di un organismo che avrebbe dovuto sostenere i progetti per i loro meriti e per porre fine a “politicizzazioni” e finanziamenti a fondo perduto per microprogetti che stanno a cuore a questo o quello.

Se è vero che negli ultimi 20 anni c’è stato un leggero incremento dei finanziamenti pubblici per la ricerca di base, gli investimenti istituzionali restano ancora lontani dall’obiettivo del 3% fissato dall’Unione Europea. Anche i contributi privati ​​sono aumentati in modo significativo seguendo logiche diversa, e comunque non sostenendo tutti i campi in cui una partnership sarebbe stata auspicabile e lasciando spesso scoperto il Sud e le isole.

Il confronto con gli altri paesi Ue

Un paragone con gli altri stati membri dell’UE non conforta; secondo l’ultimo rapporto del Consiglio Nazionale delle Ricerche, l’Italia è stato un partecipante attivo ai primi tre anni di Horizon 2020 (l’8° programma quadro dell’UE per la ricerca e l’innovazione 2014-2017) ottenendo l’8,1% il finanziamento, ma resta a notevole distanza dalla Germania (16,4%), Regno Unito (14,0%) e Francia (10,5%). La Spagna, con il 9,8% del totale, ha ottenuto più finanziamenti di noi.

L’Italia contribuisce per il 12,5% al ​​bilancio complessivo dei programmi quadro dell’UE, ma riesce ad ottenere finanziamenti pari solo all’8,1%. Abbiamo un numero inferiore di ricercatori e quindi un gruppo più ristretto di potenziali candidati. Il fatto che la Spagna, con un numero di ricercatori inferiore all’Italia, riesca a ottenere finanziamenti pari al 9,8% dovrebbe sollevare interrogativi per accertare se gli incentivi forniti ai ricercatori e la struttura amministrativa del nostro Paese per sostenerli siano adeguati.

La percentuale di successo dei progetti per Horizon 2020 presentati dall’Italia è pari solo al 7,5%, contro una media UE complessiva del 13,0%. Oltre a queste questioni “amministrative” resta un problema di equilibrio di genere, con gli uomini che rappresentano circa il 65% dei ricercatori in un momento storico in cui i dottorandi hanno raggiunto una sostanziale parità.

Le colpe della politica

Oltre ai problemi radicati nel mondo scientifico e accademico, la politica ha raramente svolto un ruolo proattivo, o di sostegno, nel proteggere o promuovere la scienza italiana. Nel recepire la Direttiva UE 2010/63 sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici, l’Italia ha adottato norme molto proibitive che hanno fortemente inibito quel tipo di ricerca. Se la donazione di cadaveri umani alla ricerca poteva, in parte, diminuire anche l’utilizzo di animali nelle attività di studio e formazione professionale, fino a pochi mesi fa gli studenti di medicina che volevano specializzarsi in chirurgia non potevano addestrarsi su cadaveri italiani.

Dal 2004 non è consentita la ricerca sulle cellule staminali embrionali su blastocisti italiane soprannumerarie. Dall’adozione della Direttiva UE degli 2001 sugli Organismi Geneticamente Modificati, le piante OGM possono essere studiate nei laboratori italiani ma non possono essere coltivate a scopo sperimentale in campo aperto, lo stesso vale per le nuove tecniche di allevamento. Mentre la ricerca sugli OGM non è praticamente più nemmeno proposta nelle università italiane per l’evidente impossibilità di sviluppi commerciali, quella che utilizza CRISPR-Cas9 sulle piante rimane in un limbo. L’Italia, infatti, non ha chiarito come attuerà la sentenza della Corte europea di giustizia che nel luglio del 2018 ha stabilito che gli organismi ottenuti per mutagenesi sono OGM e, quindi in linea di principio, soggetti agli obblighi previsti dalla direttiva OGM del 2001. Se la Commissione agricoltura del Senato ha adottato un parere favorevole all’adeguamento ai progressi tecno-scientifici della normativa sulle nuove tecniche di colture, quella della Camera è arrivata a conclusioni diametralmente opposte.

L’editing genomico in altri campi è meno penalizzato, ai primi di dicembre l’ospedale Bambin Gesù di Roma ha reso noto che un trattamento sperimentale della talassemia con CRISPR ha mostrato risultati promettenti. Anche se possono sollevare questioni di tipo etico, tanto la medicina quanto l’agricoltura di precisione saranno sempre più centrali per il futuro.

Come sostenere la scienza in modo sistemico

Tornando al Piano nazionale per la ricerca, invece di un catalogo completo di settori da sostenere, per una volta potrebbe rivelarsi utile concentrare le risorse su ciò che i ricercatori italiani sanno fare meglio. Piuttosto che entrare in competizione diretta con partner europei, Stati Uniti, Canada, Israele o Cina che in molti campi agiscono già egregiamente e con risorse incomparabili, andrebbero rafforzate alcune eccellenze come l’aerospaziale, il biomedicale o alcune nanotecnologie per concorrere, se non altro, a una peculiare “competizione collaborativa” che ci possa inserire tra gli attori di primo piano a livello mondiale in ambiti molto specifici, magari di nicchia. Assumere più ricercatori potrebbe essere un primo passo nella giusta direzione, ma i modi in cui vengono selezionati o monitorati nel loro lavoro, oppure la valutazione dei loro studi dovrebbero cambiare radicalmente.

Il dibattito nazionale su come spendere i soldi stanziati dal NextGenerationEU, uno strumento progettato proprio per rilanciare la ripresa dopo la pandemia con investimenti strutturali, raramente ha incluso la ricerca come argomento di dibattito istituzionale. Resta quindi ancora molto da fare per sostenere istituzionalmente la scienza in modo sistemico – nominare Senatori a vita premi Nobel nelle discipline scientifiche potrebbe non essere necessariamente il modo migliore per farlo.

La lezione della pandemia: più collaborazione per il progresso scientifico

Una delle lezioni che si devono trarre da questa pandemia è che in tempi di crisi globale il mondo deve collaborare per trovare soluzioni a problemi comuni, e che questa cooperazione dovrebbe avvenire in modo coordinato al fine di massimizzare la condivisione della conoscenza e del progresso locale a vantaggio di tutti. Può sembrare un’affermazione ingenua, ma è esattamente il motivo per cui le Nazioni Unite sono state istituite oltre 70 anni fa – e comunque da una pandemia si esce definitivamente quando ne saremo fuori tutti dappertutto.

Quanto messo in atto in 10 mesi nel 2020 per combattere il virus dovrebbe avere un impatto durevole sul modo in cui il settore privato può contribuire all’affermazione del diritto alla scienza. Abbiamo assistito a uno straordinario sforzo di collaborazione globale mai visto prima: dalla condivisione dei dati, anche in una fase iniziale della loro ricerca, alla ridistribuzione delle risorse per sostenere gli studi pubblici e di grandi e piccole aziende farmaceutiche che si sono prodigate per trovare rimedi efficaci alla crisi globale. Anche le persone comuni hanno fatto la loro parte, rispettando le misure di distanziamento, indossando le mascherine e aumentando l’igiene personale – si sono messe volontariamente a disposizione in massa per le sperimentazioni cliniche per accelerare lo sviluppo di un vaccino.

La Global Alliance for Vaccines and Immunization (GAVI) è un nuovo esempio di azione multilaterale e multi-stakeholder. Tra le altre cose, GAVI co-guida COVAX, un’iniziativa che garantisce l’accesso all’acceleratore degli strumenti anti-COVID-19 che coordina un meccanismo globale di condivisione del rischio per l’approvvigionamento comune e la distribuzione equa di vaccini contro il coronavirus. COVAX è un esempio concreto di come il diritto a godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue applicazioni possa essere rispettato in tutto il mondo attraverso partnership innovative che coinvolgono donatori istituzionali e privati.

Occorre trarre degli insegnamenti da quanto accaduto e sperare che si possa confermare la volontà da parte dei governi, del mondo accademico e delle imprese private di continuare in questo sforzo di collaborazione per il bene comune. Come sappiamo, alcuni dei vaccini più promettenti sono il prodotto di studi finanziati pubblicamente e di sinergie tra grandi aziende farmaceutiche e start-up ad alto tasso di innovazione, che potrebbero mettere in crisi quanto si pensa circa l’efficienza e gli interessi attorno a Big Pharma. Ora però spetta ai governi e alle agenzie di regolamentazione dimostrare di essere all’altezza della sfida e rispondere rapidamente alle decisioni future senza sacrificare sull’altare della necessità di bloccare il virus, la sicurezza e l’efficacia dei vaccini.

Conclusioni

Come detto, il 2020 ha anche visto l’adozione di un “Commento generale sulla scienza” che chiarisce perché la scienza è un diritto umano universale. Ne elenca gli elementi, mette in luce gli obblighi che gli Stati parti del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali hanno nei confronti della scienza e sottolinea come “we the people” possiamo partecipare alla realizzazione del progresso tecno-scientifico e goderne i benefici.

Proprio come il diritto alla libertà di parola e di riunione, il diritto alla nazionalità, a ricevere assistenza medica, al lavoro, il diritto a non essere discriminati a causa del colore della nostra pelle, della lingua che parliamo o alla fede o credo, la scienza deve essere pienamente rispettato da tutti e per tutti.

Occorre continuare a fare affidamento sulla scienza e sulle evidenze che produce per progredire verso un mondo più sostenibile. A volte questo può innescare accesi confronti o scontri intellettuali, ma è parte integrante dello Stato di Diritto internazionale e come tale ha obblighi da cui gli stati non possono sfuggire.

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