La copia in stampa 3D del David di Michelangelo Buonarroti, accuratissima e di dimensioni pari alla scultura reale in marmo (altezza 520 cm incluso il basamento di 108 cm), realizzata da ricercatori di grandissima vaglia dell’Università degli Studi di Firenze ed esposta al Padiglione Italia di Expo 2020 Dubai è forse l’esempio più recente e lampante che tra digital humanities e human digitalities non c’è proprio partita, naturalmente a favore della seconda fattispecie.
In altre parole, il fattore umano costituisce la sostanza, il contenuto del messaggio, il fattore ICT un mero mezzo figlio della tecnologia corrente del tempo presente, eventualmente sostituibile da altre tecnologie a venire.
Ma perché la copia del David ci spinge a fare queste riflessioni?
Un importante dettaglio finora poco conosciuto: il messaggio negli occhi del David
Già il primo ottobre 2021, giorno di apertura di Expo 2020 Dubai, Paolo Glisenti, Commissario Generale di Sezione per l’Italia per Expo 2020 Dubai, comprese di avere vinto la scommessa sul successo del Padiglione Italia, confermato dal riconoscimento internazionale ricevuto dai 192 Paesi partecipanti in sede di chiusura il 31 marzo 2022, perché vide pubblicata quello stesso giorno, simultaneamente sul New York Times e sulla Pravda, l’immagine del David, che era stato eletto a simbolo dell’eccellenza italiana, artistica e tecnologica.
Particolare di non poco conto fu l’attenzione prestata alla circostanza che Il David reale è normalmente osservato dalle persone dal basso verso l’alto, situazione che impedisce la visione frontale del volto del David stesso e, in particolare, dei suoi occhi e di ciò che Michelangelo vi ha scolpito all’interno: due cuori, come a lanciare un messaggio al mondo. Questo dettaglio, di rilievo culturale non banale, era noto da tempo agli specialisti, ma è certamente sconosciuto ai più. Nel Padiglione Italia, a Dubai, la copia digitale 3D del David è stata esposta in modo che il visitatore potesse vederla direttamente in volto, attraverso un percorso di salita all’uopo studiato, capace di focalizzare l’attenzione dell’osservatore su tale importante dettaglio.
Cosa non va in Italia nel rapporto tra scienze umane e digitale
L’esempio della copia del David, vissuto in prima persona da chi scrive, è foriero di altre considerazioni di rilievo circa il ruolo dell’ICT così come oggi praticate, ossia attraverso elaboratori (smartphone e anche supercomputer) binari: un mondo a due stati, 0 e 1, bianco – nero, lontano dalle forse non numerabili sfumature di grigio del pensiero umano e delle sue corrispondenti azioni.
Eppure, da quanti anni in Italia si assiste alla presenza di un Ministero per la Digitalizzazione, seppure connotato da risultati tutto sommato assai limitati come impatto sulla realtà operativa (per esempio, della Pubblica Amministrazione) rispetto alle risorse impiegate? Ma c’è di più e di peggio da scrivere. Il tasto ancora più dolente è quello formativo, specie a livello universitario e, purtroppo, a livello di laurea magistrale.
Diversi atenei italiani hanno intravisto nel settore delle humanities un’ampia prateria arabile da parte di docenti ICT, con corrispondente mietitura di punti organico e corrispondenti possibilità di carriera. Intendiamoci: nulla di nuovo sotto il sole e, per giunta, in linea di principio, anche intuizione buona, ove però correttamente intesa e, soprattutto, messa in pratica.
L’intuizione buona è certamente quella che richiama l’esempio della copia ICT del David a Dubai: un uso intelligente di una tecnologia ICT quale mezzo per offrire al visitatore del mondo un bene quasi assoluto e altrimenti assai più difficilmente fruibile. È chiaro, dunque, come le discipline-guida siano le humanities e a loro servizio ci stiano le discipline ICT (IA, robotica, stampa 3D, etc. incluse).
Le aspettative disattese dei corsi “digital humanities”
Stando così le cose, a livello universitario si sarebbero dovuti progettare e attuare percorsi formativi seri centrati come discipline core sulle scienze umane con corrispondenti professori e ricercatori di tali materie, da corredare con opportune discipline ICT complementari, con docenti loro propri. Invece, è accaduto l’opposto, nella maggior parte dei casi. Ovvero, dipartimenti universitari ICT si sono fatti promotori di corsi di studio, denominati Digital Humanities, (per lo più a livello di laurea magistrale) aventi come base lauree triennali in scienze umane con la “scusa” di offrire promettenti (?) sbocchi occupazionali agli iscritti perché corroborate da saperi ICT (ovviamente tradizionali).
Tristemente, questa fattispecie ha trovato terreno favorevole nella “bolla” – almeno fino al 2015 – dei corsi di studio universitari in Scienze della Comunicazione, sorti nell’ambito delle scienze umane. Una pletora di giovani neolaureati in Scienze della Comunicazione (laurea triennale) era condannata a un futuro non corrispondente alle aspettative. Su questi giovani, quali accademici rapaci, si sono gettati numerosi docenti di ICT contrabbandando per operazione salvifica (falsa) di tali giovani i propri interessi di carriera accademica, ovviamente a spese dei giovani medesimi. Questa ultima considerazione necessita di un appropriato approfondimento di merito, vale a dire la valenza culturale nel tempo delle tecnologie ICT binarie di cui sopra.
Il potenziale delle tecnologie quantistiche
Fermi restando i limiti del digitale tradizionale già espressi più sopra in termini generali rispetto alle potenzialità della persona umana, si deve aggiungere la notazione che altre tecnologie stanno progressivamente entrando in gioco: basti pensare alle quantum technologies. In un elaboratore quantistico, come noto, le unità di informazione sono i qubit, i quali, per effetto dei postulati della meccanica quantistica, possono assumere un numero infinito di valori, e non soltanto due come i tradizionali bit, rendendo quindi possibile raggiungere potenze di calcolo elevatissime. Nel 2019, per esempio, Google comunicò che un suo computer quantistico aveva eseguito in 200 secondi un calcolo che avrebbe richiesto 10000 anni con un supercomputer binario.
Non si usa ormai neppure più la dizione quantum computing, assai limitativa. Esse riguardano utilizzi (Capgemini Research Institute analysis) per computing, comunicazioni, sensoristica. Le quantum technologies vanno prese in seria considerazione, seppure con orizzonti temporali adeguati, legati alle difficoltà tecnologiche nel mantenere lo stato fisico ideale per gli atomi o le particelle su cui si basano i chip: ma certamente, parlando di formazione di giovani, l’orizzonte temporale non può – pena tradire lo spirito primo di una qualsivoglia formazione culturale seria, specie a livello accademico – essere di corto respiro e agli allievi va offerta una visione anche sul lungo tempo, specie riguardo le ricerche più promettenti, segnalando loro in modo equilibrato rischi e benefici intrinseci alla dimensione della ricerca scientifica, ma tacere sul futuro e insistere quasi a panacea di tutto quanto solo sul presente – ossia sull’ICT binario – costituisce un delitto formativo di non poco conto.
Conclusioni
Non si vuole qui tuttavia semplicemente dare rappresentazione dei limiti dell’ICT binario rispetto alle lontane e probabilmente potentissime quantum technologies: anche tutto ciò sarebbe assai riduttivo e sarebbe opponibile in futuro a esse il medesimo ragionamento fin qui svolto. Il messaggio è diverso, e insiste ancora una volta sulla centralità della persona umana rispetto a qualsiasi tecnologia in qualsiasi tempo (certamente almeno fin qui registrato dalla storia). Un esempio molto chiaro in questo senso, rimanendo nell’area dell’elaborazione dell’informazione e della computazione è quello della ottimizzazione di processi e del controllo di sistemi offerto dalla “invenzione” di metodologie – attuate per via digitale – del tutto originali quali quelle legate al settore denominato Dynamic Programming: in questo caso, non di tecnologia avanzata a livello materiale si tratta, ma del frutto delle intuizioni creative del sistema nervoso (tecnologia wet?) di Richard Bellman, che gli valsero la medaglia d’onore della IEEE (Institute of Electrical and Electronics Engineers) nel 1979.