Siamo nell’era dell’incertezza e dell’ansietà, dati gli interrogativi che affollano la mente di tutti noi: quando saremo fuori dalla pandemia? Come cambierà la nostra vita, cioè il modo di produrre e consumare, l’incombente crisi ambientale? Quale destino l’odierna dinamica tecnico-scientifica e produttiva prepara per il lavoro e l’evoluzione dell’umanità nel complesso, alla luce dei grandi avanzamenti sul terreno dell’intelligenza artificiale, della capacità di influenzare i processi decisionali individuali e collettivi, di modificare le basi stesse della vita (tecnica CRISPR/Cas9 di modificazione genomica)?
Al tempo stesso l’aumento, apparentemente senza limiti, della potenza computazionale disponibile e in corso di progettazione è destinato a cambiare profondamente gli scenari geo-politici e la modalità attuali di gestione delle città, dei sistemi di trasporto e più in generale delle infrastrutture strategiche.
Boom automazione con il covid: urge una strategia nazionale per il futuro del lavoro
Il futuro del lavoro
In tale quadro assumono particolare rilevanza alcune domande circa il “futuro del lavoro”: come diventerà? Quale configurazione assumerà il posto di lavoro? Quale potrà essere l’identità del lavoratore?
Si tratta di quesiti sui quali esiste già una cospicua letteratura, all’interno della quale non esistono analisi univoche, anzi è evidente il contrario: sono delineate prospettive molto differenti e addirittura previsioni di autorevoli studiosi si sono rivelate fallaci, come gli stessi autori riconoscono. Tutto ciò non è sorprendente se si pensa che viviamo una fase di transizione critica, cioè un “tipping point” (punto di svolta) di durata, di estensione e profondità non prevedibili, per cui è inevitabile un orizzonte evolutivo caratterizzato da una molteplicità di traiettorie potenziali. Proprio in queste condizioni occorre aumentare al massimo gli sforzi di acquisizione di nuove conoscenze, cercando di abbandonare schemi di analisi e azioni strategiche ormai obsolete, che rischiano di essere fortemente deleterie.
Queste considerazioni valgono in particolare proprio per lo studio delle modalità di evoluzione del mondo del lavoro, che comporta necessariamente l’emergere di visioni e interventi orientati ad interessi particolari, i quali si sommano ai fattori più generali, generatori di complessità del contesto dinamico in atto.
In questo contributo cerchiamo mettere in evidenza tesi e contraddizioni in merito a tre temi:
- ipotesi di accelerazione pandemica dell’automazione.
- Evidenze che indeboliscono l’ipotesi dell’accelerazione pandemica.
- Evidenze dirette circa gli effetti sui lavoratori dell’automazione e dell’intelligenza artificiale.
La pandemia come acceleratore di automazione
Non sono pochi coloro, giornalisti e studiosi, che propendono per uno scenario molto problematico, in conseguenza del fatto che la pandemia ha incrementato -per vari motivi- l’impiego di robot e di sistemi di intelligenza artificiale. L’evidenza è prevalentemente di natura aneddotica, ma non mancano analisi statistiche, basate su campioni selezionati e studi più approfonditi.
Il New York Times del 7 luglio scorso (Ben Casselman, Pandemia: wave of automation may be bad news for workers) riferisce che a Cincinnati, Atlanta e altre città americane, oltre che in Canada, negozi di alimentari, bar, ristoranti tendono a fare ampio uso di “una varietà di scienze applicate per tagliare ulteriormente il costo del lavoro”. Non si tratta solo di gestire acquisti, depositi, magazzini e aree di stoccaggio, né solo di ricevere e coordinare ordini online e in diretta al ristorante, bensì siamo in presenza di un ampio uso di robot perfino “per girare gli hamburger” in catene di ristoranti canadesi e americani. Il NYT intervista anche preoccupati rappresentanti dei sindacati dei lavoratori del commercio e dell’alimentazione, che delineano prospettive buie per i lavoratori, dei quali le imprese intendono liberarsi.
Il NYT accenna a qualche economista che vede lati positivi nelle innovazioni risparmiatrici di lavoro, perché prevedono aumenti di produttività, ma altri (Acemoglu del MIT) pongono l’accento sull’aumento della disuguaglianza in conseguenza dell’automazione e della diffusione di nuovi sistemi di software, ma il quadro resta fosco: “Such modifications, multiplied throughout hundreds of companies in dozens of industries, may considerably change employees prospects” (Warman, Dalhousie University).
Anton Korinek e il Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz (Covid-19 driven advances in automation and artificial intelligence risk exacerbating economic inequality, Artificial Intelligence and Covid-19, 15 March 2021, p. 2), mettono al centro della loro analisi il fatto che l’epidemia ha accelerato lo sviluppo dell’adozione di nuove tecnologie per l’automazione, con effetti depressivi sulla domanda di lavoro, e quindi ha favorito un aumento della disuguaglianza.
Al tempo stesso l’economista canadese Joel Blit (Automation and Reallocation: Will Covid-19 usher in the future of work, June 2020, University of Waterloo) ha stimato che durate le ultime tre recessioni si è verificata la riduzione delle occupazioni routinarie, cioè basate su routine, sequenze di atti che un robot può apprendere facilmente (se trasformati in adeguati sistemi di algoritmi).
Il Covid-19 può aver agito, attraverso spinte recessive, nell’innescare processi di ristrutturazione delle attività e di riduzione degli input di lavoro.
La combinazione tra evento pandemico e spinte recessive può aver generato i fenomeni rilevati dal McKinsey Global Institute (The future of work after COVID-19, February 18, 2021), che stima l’impatto della pandemia sulla domanda di lavoro in corso e in futuro, mostrando che le attività maggiormente interessate dai processi di automazione sono: e-commerce, telemedicina, online banking, delivery, logistica-trasporti, lavori di magazzino. Una global survey, che ha interessato nel giugno 2020 i manager di 800 imprese in 8 Paesi, mette in evidenza che i due terzi si accingeva ad aumentare significativamente gli investimenti in automazione, mentre molte imprese avevano già investito in nuove tecnologie e intelligenza artificiale nei seguenti settori: warehouses, grocery stores, call centers, and manufacturing plants to reduce workplace density and cope with surges in demand” (ivi, p. 11).
Altri spunti di riflessione possono essere desunti dalle stime circa le variazioni occupazionali al 2030 (Fig. 1), da cui si evincono due tendenze fondamentali: 1) declino delle posizioni lavorative con salari medio-bassi (soprattutto nelle vendite al dettaglio, ospitalità, servizi per l’alimentazione). 2) Incremento di quelle con salari alti, come nella sanità e nelle professioni STEM.
Fig. 1
Fonte: McKinsey Global Institute, 2021, Exhibit E7.
Un’altra società di consulenza internazionale (ATKearney, Robots vs. COVID-19: how the pandemic is accelerating automation, accesso 9-9-2021) ipotizza che la crescita dell’automazione possa durare più della pandemia, in quanto i robot stanno ora sostituendo anche i colletti blu, dato che l’intelligenza artificiale ormai sta sostituendo attività legali e ampi set di professioni del terziario, come è stato messo in evidenza in un precedente contributo.
L’esito previsto è una significativa tendenza verso lo spiazzamento del lavoro umano ad opera di sistemi robotici (Fig. 2)
Fig. 2
Fonte: ATKearney, 2021, Fig. 1.
D’altronde il trend a livello globale sembra ben definito (Fig. 3)
Fig. 3
Fonte: IFR (International Federation of Robotics), World Robotics, 2018
A fronte di questo filone di pensiero c’è chi mostra un sostanziale scetticismo.
Dubbi sull’accelerazione pandemica dell’automazione.
Le tendenze indicate non convincono, alla luce i quanto accaduto nel corso delle precedenti pandemie, dal virus H1N1 nel 2009 (cosiddetta “influenza suina”, con migliaia di morti soprattutto nelle Americhe) a Ebola nel 2014. L’Economist, ad esempio, nutre molti dubbi su questo tipo di analisi, invitando a evitare la diffusione di panico (Is the pandemic accelerating automation? Don’t be so sure, The Economist, 19 July 2021), visti anche i divari positivi tra domanda e offerta di lavoro che si registrano in Canada, negli USA e in Europa. Che si usino robot in qualche ristorante dell’Ohio e nell’aeroporto di Pittsburg per pulire con raggi ultravioletti, oppure che in Inghilterra siano stati introdotti robot per raccogliere le fragole e togliere le erbacce, non comprova la tesi della pandemia come acceleratore, se si tengono presenti due fatti: 1) il gap tra offerta e domanda di lavoro, 2) la crescita (negli USA) dei salari dei lavoratori low-skilled più della media generale, contrariamente a quanto è avvenuto dopo la crisi finanziaria.
La tesi dei robot “job killing” quindi non è del tutto sostenibile per l’Economist. Anche se è vero che durante le recessioni le imprese hanno convenienza ad automatizzare, perché i costi sono più rigidi dei prezzi dei propri output verso il basso, i dati sull’occupazione negli USA, in Australia e Nuova Zelanda non sembrano confermare le visioni di “un mondo senza più lavoro”, anche perché i periodi di lockdown rendono difficile distinguere i loro effetti da quelli di sostituzione del lavoro con le macchine (più o meno “intelligenti”).
In effetti, da altri studi emerge una dinamica dell’automazione, misurata attraverso l’aumento dei robot, non coerente con la tesi prima enunciata e le previsioni contenute negli ultimi due grafici (Fig. 4)
Fig. 4
Fonte: IFR (International Federation of Robotics), World Robotics, July 2021
È evidente che la pandemia ha agito da freno in un trend di accelerazione, anche se le previsioni per il prossimo biennio sono di una forte ripresa, data la situazione degli ordini al Giugno 2021 (Fonte: IFR, Press Release, 2021, July 1).
En passant, è interessante rilevare che il mercato più ampio è costituito dall’Asia, mentre largamente più indietro sono USA ed Europa, come si evince dalla Fig. 5
Fig. 5
Fonte: IFR (International Federation of Robotics), World Robotics Report, 2020.
Alla luce di tutti questi elementi contraddittori in merito agli effetti della pandemia, vale la pena affrontare un quesito: è proprio sicuro che l’automazione generi disoccupazione? Alcuni spunti di riflessione critica a questo riguardo possono essere desunti da studi appena pubblicati, che si basano su dati concernenti un numero elevato sia di imprese che di lavoratori singoli, dei quali i ricercatori hanno potuto seguire l’evoluzione occupazionale. Emergono aspetti molto interessanti, su cui è necessario riflettere, nonostante non si possano desumere principi di validità generale, perché è importante il contesto economico e istituzionale in cui è collocato il sistema produttivo analizzato.
Cosa accade ai lavoratori nelle imprese che adottano nuove tecnologie?
Uno studio molto recente (IZA, Institute of Labor Economics), elaborato da Genz S. et al. (How Do Wokers Adjust When Firms Adopt New Technologies?, WP 14626, August 2021), presenta elementi innovativi di un certo rilievo: esso si fonda su micro-dati congiunti a livello individuale (impresa e lavoratori), mentre le indagini più note a livello internazionale e nazionale sono a livello aggregato (settore, macro-nazionale), con cui si effettuano comparazioni e sulle quali di norma sono svolti esercizi di previsione, basati su rappresentazioni astratte dell’evoluzione tecnologica e dei task lavorativi (distinti in “routine” e “non-routine”).
La ricerca in questione e l’altra parallela (IZA WP 14649, Genz S., Schnabel C. Digging into the Digital Divide: Workers’ Exposure to Digitalization and Its Consequencs for Individual Employment, August 2021) riguardano 2032 imprese tedesche e 172.214 lavoratori, con dati puntuali per entrambi dal 2011 al 2016. Le prime sono state analizzate sulla base delle tecnologie impiegate e su cui sono state investite risorse significative: 1) non digital (tecnologie 1.0/2.0, dispositivi a raggi X, fax, fotocopiatrici); 2) older digital, 3.0-technologies (e.g., computers, CNC machines, or industrial robots); 3) recent digital and connected (4.0-technologies (AI, AR, or 3D printing).
Per quanto riguarda i lavoratori, i micro-dati individuali hanno consentito di ricostruire i profili evolutivi individuali in seguito agli investimenti effettuati o meno dalle tre tipologie di imprese:
- quelle che hanno investito in tecnologie non digitali (29%, chiamate non-adopters).
- Il 49%, che ha impiegato risorse in tecnologie 3.0 (3.0- adopters). 3) Il 22%, che ha investito soprattutto in tecnologie 4.0 (4.0 adopters).
Gli autori di queste analisi, appartenenti a diverse Università tedesche e a quella di Utrecht, hanno quindi analizzato gli effetti delle innovazioni sugli occupati in termini di perdita o meno del posto di lavoro, periodi di transizione, variazioni salariali, distinguendo anche tra chi da un’impresa è passato a un’altra oppure ha subito una fase di disoccupazione. I risultati molto interessanti ottenuti possono essere così sintetizzati:
- maggiore stabilità occupazionale e crescita salariale per coloro che rimangono occupati nelle imprese che adottano innovazioni, ma con una differenza significativa tra le imprese 3-0 (maggiore stabilità occupazionale e crescita salariale più marcata) e quelle 4.0, caratterizzate da maggiore crescita retributiva, ma con minore stabilità occupazionale. Questo tipo di effetti sembrano peraltro interessare imprese dei servizi più che quelle manifatturiere.
- La descritta dinamica positiva riguarda soprattutto lavoratori con determinate caratteristiche: “… workers conducting highly complex job requirements, non-routine analytic tasks, and workers with vocational training (rather than university) degrees experience enhanced labor market performance” (Genz et al, 2021: 4).
- Per quanto attiene alla domanda di lavoro, gli investimenti in nuove tecnologie generano soprattutto una domanda di professionalità adatte per compiti lavorativi di complessità crescente, soprattutto nelle imprese 4.0, con preferenze espresse verso le fasce più giovanili specie nei servizi.
Le ricerche sinteticamente riportate, con le loro sistematiche e penetranti fonti di analisi, mostrano la eterogeneità di andamenti possibili nelle occupazioni di frontiera, articolate per gruppi per gruppi di professionalità, e in quelle prossime ad essa, con un’aggiunta interessante: le nuove tecnologie digitali influenzano soprattutto i lavoratori impiegati in attività non di routine e le componenti femminili, che risentono maggiormente della dinamica in atto in termini di periodi di disoccupazione.
È importante sottolineare un ulteriore fatto molto importante: i limitati periodi di disoccupazione, seppur differenziati tra occupati in imprese 3.0 e 4.0, sono correlati all’efficacia del vocational training, ovvero del sistema tedesco di formazione professionale, su cui esiste una letteratura molto ampia.
Da queste analisi non si possono trarre molte proposizioni di portata generale, se si pensa che l’universo indagato comprende solo imprese tedesche e il periodo analizzato include anni antecedenti alla-pandemia. I risultati non sono inoltre generalizzabili, perché nel determinare il quadro non negativo per il mondo del lavoro è stato cruciale il vocational learning tedesco, ovvero il sistema di formazione duale. Esso infatti fornisce ai lavoratori un background tecnico-professionale di livello tale da conferire loro “forza adattativa” rispetto ai mutamenti tecnico-scientifici e tecnico-produttivi, mentre un efficace sistema di protezione e welfare sostiene i processi di transizione lavorativa (Genz e Scchnabel, 2021: 27-28).
Non-conclusione: studiare le metamorfosi del lavoro
La fase di transizione che l’intero Pianeta e tutti i Paesi stanno attraversando genera segnali che si prestano a differenti interpretazioni teoriche e operative. Occorre dunque moltiplicare gli sforzi nell’acquisire conoscenze, tenendo presente che forse siamo ad un punto di svolta nella storia dell’umanità, come altre volte è accaduto in passato.
Una delle novità della presente era è che l’intero globo terrestre è coinvolto e quindi è oltremodo difficile trovare punti di riferimento stabili e largamente condivisi. Uno degli elementi centrali per comprendere le dinamiche odierne è, dal nostro punto di vista, il cercare elementi di riflessione in merito ai tre interrogativi iniziali: quando saremo fuori dalla pandemia? Come cambierà la nostra vita, cioè il modo di produrre e consumare, l’incombente crisi ambientale? Quale destino l’odierna dinamica tecnico-scientifica e produttiva prepara per il lavoro e l’evoluzione dell’umanità nel complesso?
Osservare le metamorfosi del lavoro, che per secoli è stato alla base delle identità individuali, è a tale fine un punto di osservazione essenziale, su cui torneremo più volte.