PRIMO MAGGIO

Il lavoro ai tempi dell’intelligenza artificiale: i problemi da affrontare subito

L’IA può supportare l’uomo e liberarlo da una serie di task automatizzabili per dargli la possibilità di creare nuovi servizi, nuovi modi di lavorare e, non ultimo, fargli recuperare tempo libero, ma ciò non toglie che i fenomeni di cambiamento portati dall’automazione vadano fin da ora gestiti per evitare storture

Pubblicato il 01 Mag 2023

Paolino Madotto

manager esperto di innovazione, blogger e autore del podcast Radio Innovazione

chatgpt plugin

ChatGPT e l’intelligenza artificiale ci ruberanno il lavoro o penalizzeranno i salari, con il solo vantaggio di chi controlla i profitti?

Il timore non è balzano. Di fatto è condiviso ora da tutti i lavoratori “colletti bianchi”, anche quelli della creatività come attori, musicisti, scrittori.

In un’epoca nella quale la precarietà è esplosa sia quantitativamente che nelle sue diverse forme, l’ipotesi di una diffusione elevata dell’intelligenza artificiale nel mondo del lavoro sta facendo molto preoccupare. E la preoccupazione non è solo in termini di numerosità dei posti di lavoro ma anche in termini di qualità del lavoro.

Il problema non è solo la sostituzione dell’uomo ma anche come il lavoro umano verrà integrato dalle macchine: queste saranno lo strumento con il quale porteremo avanti il lavoro o determineranno come dovremo lavorare, dettandone le condizioni?

L’IA generativa dannerà i lavoratori o li salverà? Opposte visioni a confronto

Le logiche che guidano gli algoritmi nell’organizzazione del lavoro

Secondo un recente report di Goldman Sachs l’IA potrebbe sostituire 300 milioni di posti di lavoro ma molti di più saranno i lavori che vedranno l’IA complementare alle normali attività. In particolare, il 46% delle attività legali e il 44% di quelle amministrative potrebbero essere automatizzate mentre per altre professioni la percentuale e molto minore. Il rapporto fa anche notare come il 60% dei lavori attuali non esistevano nel 1940 e l’IA creerà nuove professioni e nuove attività che potranno limitare l’impatto sui posti di lavoro persi. Già, ma dato che non è detto che gli stessi lavoratori che perderanno il lavoro da una parte lo otterranno dall’altra, come gestiremo la transizione? In generale l’IA contribuirà, sempre secondo il report, ad una crescita del 7% del valore annuo di beni e servizi prodotti a livello globale (e anche qui c’è da chiedersi se la crescita sarà distribuita o sarà sempre più concentrata in alcune aree del pianeta).

Il caso dei rider

Ora, pensiamo agli algoritmi che organizzano il lavoro dei rider e vedremo cose molto preoccupanti. La possibilità di poter prendere un ordine di consegna in base ad un punteggio che aumenta o diminuisce in base al tempo impiegato per consegnare, al giudizio del cliente, a quante volte si rifiuti di prendere in carico una consegna, al tempo o alle condizioni del tempo nelle quali si è disposti a procedere e così via con altre variabili che definiscono la “performance” del lavoro. Cose simili si verificano anche in altri settori.

Vedere il proprio lavoro governato da algoritmi e intelligenza artificiale, alla luce di queste applicazioni, appare come un meccanismo infernale al quale non si può sfuggire. Almeno dai controllori umani si può talvolta fuggire per una loro distrazione o benevolenza ma dalle macchine è impossibile.

Il problema non sono gli algoritmi ma quali sono le logiche che li guidano. Come spesso accade l’utilizzo della tecnologia diventa un grimaldello per mettere in azione dei cambi organizzativi approfittando del basso livello di conoscenza dei meccanismi che la governano e del fatto che molte persone considerano a torto le macchine come neutrali.

L’IA come sostituto del lavoro umano

Accanto all’uso dell’intelligenza artificiale come “organizzatore” dell’attività produttiva fa spavento anche il suo possibile utilizzo come sostituto del lavoratore. ChatGPT ha messo di fronte a milioni di persone le potenzialità dell’uso dell’intelligenza artificiale anche nelle professioni intellettuali. Avvocati, giornalisti e altre professioni vedono l’avanzare di sistemi di AI, ora solo embrionali, che possono minacciare l’occupazione o le condizioni di lavoro.

In questo secondo ambito l’IA è vista come sostituto del lavoro umano. In un saggio del Direttore dello Stanford Digital Economy Lab, Erik Brynjolfsson[1], “The Turing Trap: The Promise & Peril of Human-Like Artificial Intelligence” l’autore affronta a tutto tondo il tema della sostituzione del lavoro umano evidenziando come questa è stata una trappola nella quale si sono infilati i ricercatori di IA.

L’autore sottolinea come questo concetto di sostituzione, unito a scelte di carattere politico, abbia determinato il continuo scivolamento in basso della classe media e la concentrazione di ricchezza in sempre meno mani.

Questo processo di sostituzione ha portato a concepire l’automazione come strumento per ridurre i costi del lavoro (con conseguenze sui salari e le condizioni di lavoro di una larga fetta della popolazione) mentre ha penalizzato la capacità delle nostre società di immaginare la crescita di nuovi servizi e prodotti innovativi che possono scaturire dall’affiancare l’automazione al lavoro umano.

Il paradosso di Moravec

Molti sono i lavori che possono essere sostituiti ma secondo il paradosso di Moravec le abilità di ragionamento anche sofisticato sono facilmente automatizzabili, mentre le abilità che richiedono empatia o capacità sensomotorie di basso livello sono difficilmente replicabili. In questo secondo genere di abilità l’uomo supera qualsiasi macchina. L’IA e l’uomo più che lavorare per sostituzione dovrebbero lavorare per complemento. In questo senso è sbagliato anche il termine di intelligenza artificiale che rimanda ad una macchina che sostituisce l’intelligenza della persona, meglio sarebbe chiamarla “Intelligenza aumentata” proprio per la caratteristica di poter supportare l’uomo e liberarlo da una serie di task automatizzabili per dargli la possibilità di creare nuovi servizi, nuovi modi di lavorare e, non ultimo, fargli recuperare tempo libero.

La complementarità tra uomo e macchina

Sempre Bryanjolfsson nel saggio citato sottolinea che: “Quando l’intelligenza artificiale aumenta le capacità umane, consentendo alle persone di fare cose che non avrebbero mai potuto fare prima, allora gli esseri umani e le macchine sono complementari. La complementarità implica che le persone rimangano indispensabili per la creazione di valore e mantengano il potere contrattuale nei mercati del lavoro e nel processo decisionale politico. Al contrario, quando l’intelligenza artificiale replica e automatizza le capacità umane esistenti, le macchine diventano migliori sostituti del lavoro umano e i lavoratori perdono potere contrattuale, economico e politico. Imprenditori e dirigenti che hanno accesso a macchine con capacità che replicano quelle degli umani per un determinato compito possono e spesso sostituiranno gli umani in quei compiti”.

La sostituzione del lavoro è più adatta per i lavori che nessuno vuole fare più, quelli rischiosi e che non hanno grande valore aggiunto per gli altri, in tutti gli altri casi la complementarità consente di raggiungere migliori risultati. Soprattutto consente di ripensare le organizzazioni e i processi cambiando in modo strutturale il modo di vivere e lavorare producendo nuova ricchezza.

Sempre Bryanjolfsson afferma che la buona notizia è che complementarità e sostituzione aumentano la produttività e la ricchezza ma la cattiva è che questa ricchezza non viene redistribuita in automatico e tende a rimanere nelle mani di chi controlla il governo delle organizzazioni e la tecnologia.

Accanto a questa riflessione, ne va anche aggiunta un’altra: la differenza tra uomo e macchina non è dovuta solo dalla creatività, ogni organizzazione umana è basata sul principio della delega. Il comando presuppone delega e responsabilità. Il presupposto di ogni task affidato è che colui che lo compie è in grado di assumersene la responsabilità. Un software non può assumersi una responsabilità e rispondere di un errore e non è nemmeno capace di escogitare approcci in grado di garantire la qualità in presenza di eventi inaspettati. Lo vediamo sulle auto a guida autonoma dove da circa un decennio si parla di vederle per strada ma nei fatti non è ancora chiaro se di fronte ad un incidente la responsabilità sia in capo al proprietario, alla azienda costruttrice a chi ha programmato il software, ecc. Mentre tutto è molto più semplice con un autista: se non ha assunto alcol, rispetta le regole stradali e il veicolo è stato manutenuto come previsto è sua responsabilità fare di tutto per decidere al meglio per sé e gli altri.

ChatGPT e i Large Language Model sono strumenti molto potenti ma per come sono fatti, il rischio di errore è sempre presente e sempre più subdolo. L’uomo non solo è tenuto a non fidarsi completamente e ad avere un bagaglio culturale che gli consenta di saper comprendere o avere il sospetto che vi sia un errore valutando quando questo sia talmente grave da dover intervenire ma anche ad assumersene la responsabilità. In questo senso non è pensabile sostituire l’uomo affiancato alla macchina a meno che la responsabilità non caschi su qualcun altro. E una persona non può controllare molte IA insieme, perché lo sforzo di concentrazione e attenzione sarebbe troppo grande (ma qui c’è sempre il rischio che possano nascere dei lavori nei quali gli uomini siano chiamati continuamente prendere decisioni e valutazioni e molto velocemente con un aumento esponenziale di stress).

Automazione e salari

A raffreddare gli entusiasmi viene Daron Acemoglu, economista del MIT, secondo i suoi studi il crescente divario salariale degli ultimi 40 anni dei lavoratori americani è dovuto dall’automazione dei compiti una volta svolti dalle persone. Acemoglu se la prende con quella che definisce una “eccessiva automazione”. Acemoglu afferma che l’indebolimento dei sindacati (a questo proposito è da ricordare anche la segnalazione del FMI sul ruolo positivo dei sindacati per sostenere i salari e, per questa via, spingere la produttività generale) e la globalizzazione hanno avuto un ruolo ma il fattore più importante è l’automazione precisando che: “È il risultato delle scelte che le aziende e noi come società abbiamo fatto su come utilizzare la tecnologia”. In particolare Acemoglu afferma che molte aziende hanno investito troppo in tecnologie “so-so” che sostituiscono i lavoratori ma fanno poco per migliorare la produttività o creare nuove opportunità di business (a sostegno di questa tesi viene portato il declino di produttività degli USA avvenuto nello stesso periodo) e che il 50-70% della crescita della disuguaglianza salariale negli Usa tra il 1980 e il 2016 è dovuta all’automazione, questo è accaduto prima dell’IA e l‘economista è molto preoccupato per il futuro.

Secondo Acemoglu le aziende tecnologiche e i ricercatori stanno facendo poco per esplorare il potenziale delle tecnologie di IA per espandere le capacità dei lavoratori, ritorna il tema della complementarità. Il governo, gli scienziati e le big tech, secondo Acemoglu, sono colpevoli di non prendere decisioni che contrastano questo modo di ragionare ma anzi di alimentarlo. In particolare, le big-tech hanno tutto l’interesse a implementare tecnologie che sostituiscono persone come il loro modello di business.

Tutto il mondo della ricerca IA va verso benchmark con l’attività dell’uomo, gli avanzamenti dell’IA sono misurati in base a quanto i software siano in grado di fare l’attività come e meglio dell’uomo; tuttavia, non esistono criteri per valutare come i software possono integrare e potenziare le attività umane benché sia il settore più promettente.

Verso un ripensamento delle dottrine liberiste?

Gli studi e le ricerche su questi ambiti sono numerosi e sarebbe troppo complicato sintetizzarli in un articolo ma abbiamo visto quanto sale la preoccupazione degli scienziati sociali che vedono i progressi tecnologici non governati da una chiara strategia.

Una preoccupazione che ha portato studiosi molto ortodossi nel liberismo economico a rivedere le proprie posizioni e a richiamare con forza il governo ad un intervento molto deciso contro le big tech per far sì che queste tecnologie non siano lasciate al solo libero mercato. Paul Romer, dopo aver conseguito la laurea e il dottorato all’Università di Chicago (la culla del neoliberismo) e un tempo l’economista preferito della Silicon Valley e premio Nobel nel 2018 con William Nordhaus, considerato un tempo tra le persone più influenti della California sostiene oggi la necessità di imporre nuove tasse statali sulla pubblicità nei social network. È anche molto critico sulla categoria degli economisti che per anni hanno sostenuto la necessità di lasciare libero il mercato perché questo ha fatto crollare la concorrenza.

Romero non è affatto avverso all’uso della tecnologia (utilizza il software per le sue ricerche e programma normalmente in python) ma ritiene che i governi non possano tirarsi indietro dal gestire i fenomeni di cambiamento se non si vogliono provocare disastri.

Conclusioni

Ciò che sappiamo sul futuro del lavoro con l’introduzione di massa dell’Intelligenza artificiale è che anzitutto il futuro non è tracciato ma dipende da quanto i governi, i sindacati e le forze che possono contribuire sono in grado di mobilitarsi per dare una direzione diversa allo sviluppo della tecnologia e alla sua applicazione sul campo; che gli sforzi maggiori sono direzionati verso la sostituzione delle persone mentre il settore più promettente è quello della integrazione del lavoro umano (più che intelligenza artificiale sarebbe più adatto parlare di intelligenza aumentata); che il paradosso di Turing spinge la ricerca dell’IA verso l’emulazione dell’uomo e la sua sostituzione perdendo di vista il vantaggio principale di affiancarlo; che comunque sarà difficile sostituire l’uomo sia per il paradosso di Moveric (che afferma che le macchine possono facilmente sostituire compiti complessi di ragionamento ma non possono sostituire compiti basilari) e sia per il principio di responsabilità che la delega di attività impone; che la tecnologia non è neutrale ma dipende dalla idea del mondo che la guida che ne determina la direzione e gli investimenti e non possiamo lasciare tutto in mano al mercato (e in particolare in mano a poche big-tech); che l’IA determinerà una grande crescita e prosperità ma che questa non è affatto scontato che sia ripartita e che non si concentri solo in pochissime aree del pianeta a discapito degli altri.

La preoccupazione generale è sicuramente giustificata, il dibattito nei paesi più sviluppati è intenso e preoccupa la totale assenza di questi temi dal dibattito pubblico italiano. Eppure, la data dell’impatto con questo cambiamento travolgente è distante due o tre anni al massimo.

Note

  1. “Erik Brynjolfsson is the Jerry Yang and Akiko Yamazaki Professor and Senior Fellow at the Stanford Institute for Human-Centered AI (HAI), and Director of the Stanford Digital Economy Lab. He also is the Ralph Landau Senior Fellow at the Stanford Institute for Economic Policy Research (SIEPR), Professor by Courtesy at the Stanford Graduate School of Business and Stanford Department of Economics, and a Research Associate at the National Bureau of Economic Research (NBER)”.

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