“Il medium è il messaggio” non vale più. O meglio può convivere e a volte annullarsi, col suo contrario, “Il messaggio è il medium”.
Qualche avvisaglia c’era stata. Erano segnali deboli, perfino con la vecchia immarcescibile radio. Quando la radio era il medium unico e dominante i genitori urlavano ai figli “basta rimbecillirti con la radio”, non dicevano “basta con quelle canzonette”, anche se ancora lo sottintendevano. E il coniuge rinfacciava alla moglie piegata ai lavori domestici perfino “non rimbambirti con quella radio, dovrebbero chiuderle tutte!” Non intendeva più il suo contenuto, il suo messaggio (le commedie, o “soap operas”, usate dalla casalinga come ultimo anestetico) ma il mezzo tout court. Erano piccoli segnali anticipatori di capovolgimento del comandamento mcluhaniano (“Il medium è il messaggio”), dove il contenuto è confezionato, ritmato e “formattato” sul medium.
Questo comandamento, questo lascito di Marshall McLuhan, viene affidato alla Storia in pieno boom televisivo. La televisione non è il messaggio (canzonette, soapoperas, news, quiz, reality show o il far west dei talk show) ma è la televisione, cioè il medium. “La televisione è tutto”. “È il vero unico blob”. La televisione è babysitter per i bimbi, è badante per gli anziani, è una sniffata quotidiana per i politici.
Ma anche nella televisione sono emersi ed emergono, ogni tanto, dei segnali più o meno forti che potrebbero suggerire, almeno per un attimo, una formulazione inversa (“il messaggio è il medium”). Sono segnali che arrivano, per esempio, dal calcio (un contenuto, un messaggio che è un medium), da Piero Angela (super medium) e da Sanremo (“Sanremo è Sanremo!”, più medium di così).
Poi arriva il World Wide Web. Internet c’era già e senza Sir Timothy John Berners-Lee, poteva rimanere un utile idiota di scambio di contenuti, messaggi, materiali anche multimediali, una “convergenza” di telefono, posta, fax e videoconferenze.
Invece il web, è banale ricordralo, è qualsiasi-cosa-da-molti-a-molti, o meglio, da-tutti-a-tutti. Così il web è il nuovo medium? Forse no. Forse è il suo dato funzionale. Certo il web è il passaparola. Universale. Il medium nella rete potrebbe dunque essere il passaparola a cui tutti ci formattiamo. Potrebbe. Se voglio che un mio messaggio – che può essere anche solo un quadratino flaggato, spuntato – entri nel passaparola planetario, devo pensarlo, scriverlo, confezionarlo ed eseguirlo come passaparola. Questo è vero.
Mi insegnano quindi ad essere breve, incisivo, letteralmente devo avere le zanne. Devo magari sbranare. Ma per “passare parola” devo fare clic, cioè devo fare “invia”.
È in quel momento che tutto si capovolge. Tutto si è capovolto. È conclamato: nella rete sono io l’emittente. Tutti siamo emittenti. Allora quell’invia è il medium. Ogni mio messaggio è confezionato per quell’invia. E loro, gli oligarchi della rete, lo sanno bene. Sono nati per quello. Ma questa è un’altra storia.
Ecco l’epocale rivoluzione dei media. La svolta per l’umanità, “più importante dall’invenzione del libro”. È la rete (chiamata, senza distinguere, Internet oppure Web). Oggi vuole essere la protagonista nei media, nella politica, nell’economia, nelle religioni, nella scuola, nella pubblica amministrazione, nelle vacanze, nel terrorismo, nelle rivolte o rivoluzioni, e via appropiandosi. È la diva assoluta. “Senza rete non ci sarà crescita”. “Pensate se per un solo giorno non ci fosse la rete”. “La rete è il nostro futuro sicuro”. Le magnifiche sorti del web sembrano comporre il coro più forte, più o meno in buona fede, intonato da tutti. Cantano miliardi di invia al secondo.
Dopo poco si affianca però un altro coro, prima nell’ombra, con molte stonature e qualche sgangherato acuto, all’inizio messo quasi sempre a tacere. È un coro di pancia e non di petto, certo di poco cervello. Aumenta il volume col passare del tempo, rinvigorendosi all’unisono con la fama e il protagonismo della rete. La rete cresce a dismisura, raggiunge metà della popolazione mondiale, i suoi oligarchi sono più influenti dei capi di stato e il caino del web prolifera nel suo ventre.
Ora il webcaino si dispiega, senza più alcuna remora, nella sua collezione di macabri trofei, di omicidi, di lapidazioni e gole tagliate virtuali e reali – prediligendo in assoluto le prede donne – di complottismi globali, di sesso come arma di distruzione ad personam, di social splatter come apoteosi di libertà, spalleggiato da ogni possibile pratica perversa e ossessiva, incluso il merceologico clicbait.
E dopo l’ennesimo social splatting dei webcaini, si arriva ad invertire l’ordine dei fattori macluhaniani. “La rete è odio” si proclama in ogni prima pagina digitale e di carta, cioè il messaggio (l’odio) sarebbe diventato il medium (la rete). Dunque limitiamo, circoscriviamo, censuriamo, blindiamo, chiudiamo (?), reprimiamo la rete, cioè l’odio, cioè il medium. Un percorso non raro nell’affannosa e spicciativa necessità di trovare un unico e omnicomprensivo colpevole, tecnologico e non.
I più saggi invocano un percorso pedagogico. “La gente deve imparare a stare in rete, incominciando fin da piccoli”. Sacrosanto. Vale per qualunque tecnologia, da prima della ruota in poi, che inventiamo non a caso e che ci ingaggia e ci trasforma.
Ma la nostra è ormai una consolidata epoca della fatica-ad-arrivare-alla-fine-del-mese; delle percentuali a due cifre della disoccupazione; dello stuolo dei non-studio-non-lavoro; della metastasi terminale e globale delle diseguaglianze; delle appartenenze cieche e feroci che danno un placebo di protezione-da-tutti-gli-altri, che sono diversi, gli altri colpevoli di esserci; della polarizzazione, del conflitto su tutto, in carestia letale di autentica rappresentanza.
In quest’epoca interi popoli di hater sbandano per le strade e le piazze in cerca di guerra, in realtà affamati di pace. E scorribandano nelle vie e nelle piazze del web, forse il più grande ed efficiente sfogatorio, rissatoio (e consolatoio) della storia.
Non è la rete il problema (o la soluzione) e neppure le orde dei sui webcaini. Il problema invece è questa nostra miserevole società, questi miserevoli noi del Terzo Millennio.
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