Il quadro è semplice: da un lato gli italiani hanno la rete in tasca, perché in 22 milioni accedono a contenuti e servizi digitali usando uno smartphone. Dall’altro, le aziende rincorrono il cambiamento innovando nel segno del mobile sia l’offerta consumer, sia i propri processi interni, per trasformare i quali devono aggiornare tanto gli strumenti quanto le competenze necessari a gestirli.
«Nelle aziende l’introduzione di smartphone, delle applicazioni e del concetto stesso di Appstore stanno realmente generando un cambio di paradigma nella modalità stessa con cui si sviluppa il software aziendale», spiega Andrea Rangone, responsabile scientifico dell’Osservatorio Mobile Device & Business App del Politecnico di Milano. Innanzitutto le app «devono essere ‘single task’, semplici da usare e immediate, cioè l’opposto del classico applicativo aziendale che era concepito per operare a 360 gradi ed essere multi funzionale». In secondo luogo, cambiano i cicli di sviluppo e aggiornamento del software, perché «è l’utente stesso a dare feedback sull’app: si mette nello store, si ricevono dei feedback, si effettuano le modifiche, si pubblica l’aggiornamento. In questo modo i tempi di update sono molto rapidi e non richiedono anni-uomo di sviluppo. Anche questa è una rivoluzione».
Ci sono aziende, specie quelle più grandi, che hanno colto la trasformazione in corso e hanno modificato almeno in parte la modalità di approvvigionamento delle applicazioni. Lo confermano i dati forniti di recente dall’Osservatorio del Polimi sugli investimenti nella Mobility in azienda, secondo cui le imprese che li ritengono prioritari passano dal 37% del 2012 al 50% del 2013, cioè una su 2. Diventeranno 2 su 3 nel 2014. Per contro, sono ancora molte le realtà che, abituate a una filiera di sviluppo del software ormai stabilizzata da decenni, ora si trovano spiazzate. E ciò in primo luogo «perché spesso non capiscono questa rivoluzione e la ritengono un fenomeno solo consumer, distante dal mondo aziendale – spiega ancora Rangone – Purtroppo è un errore, perché l’utente business è abituato nel privato ad usare questi sistemi caratterizzati da semplicità e immediatezza, e ora si aspetta di trovare in azienda strumenti molto simili».
Il secondo problema, strategico, è che le aziende non hanno ancora ben capito a quali fornitori rivolgersi. «Veniamo contattati da un numero crescente di grandi aziende che ci chiedono consiglio su dove trovare agenzie e team di sviluppatori più agili e veloci dei tradizionali system integrator – conferma infatti Rangone – ne hanno bisogno, ma non sanno a chi rivolgersi». Altra anomalia è che proprio le Piccole e medie imprese, cioè coloro che trarrebbero maggiore vantaggio dall’impiego di tecnologie più agili e dai costi più contenuti, sono anche quelle che mostrano maggiore difficoltà ad adottare device mobili e app. E questo perché manca la cultura necessaria a fare il salto.
Mentre le aziende italiane cercano di capire come adeguarsi al “nuovo che avanza”, nel frattempo sul fronte dell’offerta si registrano segnali incoraggianti. Come rivela Riccardo Donadon, co-fondatore e Ceo di H-Farm nonché Presidente di Italia Startup, dal 2005 a oggi la cultura e l’ecosistema delle startup tecnologiche sono cresciuti sensibilmente: «L’anno in cui abbiamo iniziato come H-Farm, ricevemmo appena 150 proposte – ricorda – mentre ora viaggiamo sulla media di 1200 candidature ogni sei mesi. C’è stata una crescita di consapevolezza e, ora che le aziende utilizzano al loro interno device mobili in modo più consolidato, si aprono nuove opportunità». Donadon porta come esempio fra tutti il caso di H-umus, azienda incubata da H-farm che sviluppa Nuxie. Quest’ultima è una piattaforma su iPad dedicata alla vendita per showroom, agenti in mobilità e punti vendita che “sostituisce i tradizionali strumenti di presentazione e vendita basati su carta o ‘mouse e tastiera’ con una soluzione efficiente, interattiva e funzionale che utilizzi i più avanzati dispositivi mobili”. Nel 2012 H-umus è entrata a far parte di TeamSystem, diventando di fatto l’emblema di come vecchie e nuove competenze possano incontrarsi, combinarsi e generare valore. Per il resto parlano i numeri: nel 2012 il mercato complessivo delle app e dei contenuti digitali distribuiti via rete e telefono cellulare (giochi, news, video, social network, ecc.) valeva secondo l’Osservatorio del Polimi 623 milioni di euro, registrando una crescita pari al 20%.
Se il panorama è incoraggiante, non mancano tuttavia le criticità: come evidenzia ancora Donadon, in Italia uno dei principali problemi è che le startup faticano a farsi acquisire: «Quando una grande azienda compra una startup, è una “win-win situation” – spiega – chi compra, porta in casa le nuove competenze di cui aveva bisogno; chi viene acquisito, ha a disposizione nuovi mezzi per portare avanti il proprio progetto; gli investitori vedono rientrare i fondi stanziati che poi possono reimmettere nel circuito sotto forma di nuovi finanziamenti». Purtroppo in Italia si tende ad assumere i singoli talenti piuttosto che a inglobare l’impresa «con il risultato – avverte Donadon – che spesso questi si “perdono” tra centinaia di dipendenti e il loro potenziale innovativo si riduce drasticamente».
Un altro problema da affrontare e risolvere è più a monte, e riguarda non solo le competenze dei lavoratori, ma il modo stesso in cui queste vengono acquisite. Secondo Pietro Paganini, professore in Business Administration presso la John Cabott University e founder di Competere.eu, il lavoratore del futuro dovrà essere formato in modo radicalmente diverso, sia esso uno startupper oppure un dipendente sul libro paga di una grande azienda. «Il nostro sistema scolastico, basato sul trasferimento di competenze, non è in grado di plasmare lavoratori capaci di affrontare e gestire i continui mutamenti cui oggi sono soggette ormai tutte le professioni», spiega Paganini. La ricetta per sopravvivere in questo nuovo mondo del lavoro impone invece di «non limitarsi ad acquisire competenze, ma di sviluppare un approccio interdisciplinare alla conoscenza, nonché una forte propensione al problem solving». Abilità queste, che i “nuovi professionisti” dovranno mettere in pratica sempre più spesso, mentre passano da un’azienda all’altra: «Verrà sempre meno la figura del dipendente fisso che svolge la stessa mansione per 40 anni – conclude Paganini – mentre si avranno sempre più innovatori che vengono assunti per breve o medio periodo con il compito di far evolvere un prodotto o processo. Professionisti che dovranno rinnovare continuamente le loro competenze e fare cose sempre diverse».