Chi lavora da remoto, si occupa di digitale, startup o ecommerce, ha più o meno 30 anni e non ha figli molto probabilmente avrà pensato, almeno una volta, di diventare un nomade digitale.
A oggi, secondo varie stime i nomadi digitali sono più di 30 milioni. L’equivalente di una piccola nazione. Ma chi è e cosa fa un nomade digitale? E, soprattutto, tutti i remote workers possono permettersi di diventare nomadi digitali?
Si tratta di persone che hanno deciso di trasformare il remote working nell’opportunità di vivere nel mondo, facendo soggiorni brevi di 1-2 mesi nelle destinazioni più belle e ricercate, lavorando dovunque c’è una connessione, in totale elasticità e senza mai mettere piede in ufficio.
Secondo il profilo elaborato dal portale Nomadi Digitali, i nuovi nomadi lavorano nel campo del marketing (in particolare nel settore digitale, da cui il nome di “nomadi digitali”), sono bianchi e benestanti. Appartengono alla generazione “millennials” e in larghissima misura sono freelance. Spendono mediamente 2.000 dollari al mese per sostenere i costi relativi ad affitti brevi, soggiorni in hotel, viaggi, vitto e ufficio volante nei coworking.
Nomadi digitali, neocolonialismo e gentrificazione internazionale
Qualcuno ha sollevato il tema del neocolonialismo e della gentrificazione internazionale. I centri di alcune città – come Madeira, Bali e Lisbona, che sono particolarmente richieste dai nomadi – si stanno svuotando degli abitanti locali che fanno spazio ai nomadi, che evidentemente possono permettersi i privilegi a cui i locali devono, invece, rinunciare. Colpiscono in effetti alcuni elementi del profilo stilato da Nomadi Digitali: il budget di spesa mensile, l’etnia prevalente e la provenienza geografica. I nomadi digitali spendono per il proprio stile di vita più dello stipendio medio di molti stati europei, sono in gran parte bianchi e per almeno un terzo provengono dagli Stati Uniti, dove gli stipendi consentono un cambio favorevole per gli spostamenti internazionali. Il punto è che, accuse di neocolonialismo a parte, le spese di un nomade digitale sono fuori portata proprio per la maggior parte di chi lavora in smart working e dunque questo stile di vita sembra poco accessibile, ancor prima che ingiusto e iniquo.
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Kift, la startup delle case di comunità per i nomadi digitali
Stanno però nascendo startup che intendono risolvere questo problema. Una di queste è Kift, che si propone come una sorta di AirBnB per i nomadi digitali. Oggi, i nomadi usano piattaforme come Booking e AirBnB per trovare gli alloggi. Questo però fa lievitare le spese e lo sradicamento. L’idea di Kift è quella di ospitare i nomadi digitali in “community houses”, dove possono vivere contemporaneamente decine di persone. Le “community houses” organizzano anche eventi, presentazioni, mostre, offrono spazi di lavoro e ricreativi comuni, svolgendo la funzione di coworking, oltre che di alloggi. Oggi, Kift gestisce alcune community houses negli Stati Uniti, ma l’obiettivo è chiaramente quello di espandersi a livello nazionale e internazionale. A far la differenza tuttavia è il prezzo. Invece di affitti a breve e medio termine che implicano continue prenotazioni, regole di cancellazione che variano ogni volta e costi che si impennano, Kift propone un abbonamento mensile di 425 dollari tutto incluso, che consente di accedere e vivere nelle “community houses” del network. Con 925 dollari, la startup mette a disposizione anche un caravan per spostarsi da una “community house” all’altra. A quel punto, per il nomade digitale resterebbero escluse soltanto le spese di vitto e orientativamente i costi complessivi sarebbero molto inferiori ai 2.000 dollari medi mensili che paga oggi. A questo si aggiunge il tema di una vita più integrata e a contatto con altre persone che hanno scelto lo stesso stile di vita. Un tema che Kift affronta attraverso l’organizzazione di eventi nelle community houses.
Kino, la startup italiana che spinge alla contaminazione
Questo tema viene affrontato anche dall’italiana Kino, startup nata nel 2022 che si propone di portare i nomadi digitali, non nelle grandi città, ma nei borghi, dove possono scoprire tradizioni locali e vivere in maniera simbiotica con gli abitanti del luogo. “Il nostro obiettivo è fare in modo che ci sia contaminazione tra le culture dei nomadi e quelle locali” dicono Andrea Mammoliti e Serena Chironna founder della startup. Kino si propone come una sorta di nuova agenzia, che invece di essere al servizio di turisti è al servizio di questa sorta di ibrido tra il viaggiatore e il residente che è rappresentato dal nomade digitale. La startup organizza eventi, esperienze, aiuta i nomadi a inserirsi nel tessuto locale e ovviamente a trovare gli alloggi e gli spazi di coworking. Nel frattempo, cerca di valorizzare i borghi e le economie locali. L’obiettivo di Kino è win win: rafforzare le community locali e rendere più semplice la vita dei nomadi in un paese straniero.
Nomad List, il Facebook per i nomadi digitali
Nomad List è invece l’equivalente di Facebook per i nomadi digitali. Sul social network si trovano informazioni sugli hub più frequentati, si possono contattare i nomadi che hanno fatto check in nelle varie città ed esiste una sezione per trovare amici e per gli incontri online. Se Kino lavora sull’integrazione tra community locali e nomadi, Nomad List insiste invece sull’idea della comunità dei nomadi digitali come nazione a sé stante. In effetti si tratta di un mondo parallelo, a cavallo tra permanenza e impermanenza. Anche l’amore è differente per i nomadi digitali single.
Nomad soul mate, l’app per il dating in modalità nomade
Ci sono startup che si occupano specificatamente di dating per i nomadi. Una di queste è Nomad Soul Mate. Risparmio e prevenzione dello sradicamento sono i due filoni conduttori dei tanti servizi che nascono per il nomadismo digitale.
WorldPackers, se il nomade digitale ha bisogno di arrotondare
Nell’ambito del risparmio un servizio interessante è quello di Worldpackers, piattaforma nata 10 anni fa, ma che oggi si sta riposizionando fortemente sul target dei nomadi. Worldpackers propone un modello basato sul baratto, che potrebbe rendere accessibile la scelta di vita del globetrotter a chi ha meno possibilità economiche, ma più tempo da dedicare a lavoretti extra in paesi stranieri. In pratica, WorldPackers fa incontrare la domanda di persone che hanno bisogno di una mano per svolgere lavoretti (lavoretti stagionali nelle fattorie o nei centri estivi, etc) l’offerta di persone che vogliono vivere brevi periodi in terre straniere in cambio di una sistemazione alla pari. Anche questa è una formula conosciuta da anni, ma che si sta riplasmando sulle richieste del mercato dei nomadi. Oggi la sfida del nomadismo digitale è perdere la connotazione snob, altolocata e occidentale e trasformarsi in una grande opportunità di scambio culturale alla pari.