Le sfide

Ferraris: “Valorizzare l’umano nel mondo post-covid guidato dalla techne”

Una nuova forma del mondo si è venuta disegnando attraverso i due grandi eventi che hanno inaugurato la nuova epoca: la rivoluzione documediale prima, e la pandemia poi. Studi postcoroniali in grado di superare autocommiserazione e vittimismo politico sono ora cruciali per aprire una nuova era

Pubblicato il 15 Apr 2021

Maurizio Ferraris

professore ordinario di filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Torino

covid

Ci sentivamo minacciati dall’intelligenza artificiale che ci avrebbe portato via il lavoro, e ora ci sentiamo minacciati dalla natura, che sotto la veste di un virus a cui, è facile immaginarlo, ne seguiranno tantissimi altri, ci porterà via la vita.

Come sia possibile che, in questo frangente, la popolazione umana continui a crescere e diventi più longeva, e che si assista non alla scomparsa della classe media, annunciata da decenni, bensì a una sua crescita vertiginosa, non va considerato come la risposta ottimista a delle analisi pessimiste, ma come un problema.

C’è qualcosa che non vediamo, ed è proprio questo elemento che ci sfugge che merita di stare al centro della nostra attenzione. Se non lo faremo, saremo destinati a ripetere degli schemi ottocenteschi e novecenteschi, e a stupirci continuamente della contraddizione tra ciò che pensiamo del mondo e ciò che il mondo è.

Degli studi postcoroniali, che diversamente dagli studi postcoloniali non siano uno spazio protetto di autocommiserazione e di vittimismo politico, devono costituire la base per la nuova epoca che si apre non tanto con la soluzione della emergenza sanitaria (quella, sperabilmente, ci sarà, ma ripeto che non possiamo pensare a nulla di definitivo, è ovvio che la vita associata tra gli umani produce contagi proprio come la vita solitaria produce morte per inedia) bensì con la nuova forma del mondo che si è venuta disegnando attraverso i due grandi eventi che hanno inaugurato la nuova epoca: la rivoluzione documediale prima, e la pandemia poi.

Intelligenza artificiale, è davvero la fine del lavoro? La sfida è sul filo delle competenze

Il futuro del lavoro

L’intelligenza artificiale è diventata un incubo per due ragioni, una fondatissima, e cioè la minaccia che le macchine ci portassero via il lavoro, e una completamente infondata, e cioè che le macchine prendessero il potere. Se comprendiamo perché le macchine non possono portarci via il potere possiamo essere in grado di escogitare il modo per non permettere che, per semplice ignoranza da parte nostra circa la natura del lavoro, ci riducano alla disoccupazione. Che cosa può spingere un ente qualunque a desiderare il potere? La paura, il desiderio, la pulsione organica ad alimentarsi, la consapevolezza di essere soggetto a processi irreversibili al cui termine c’è la morte. Ecco perché i virus fanno tanta paura agli umani mentre i cosiddetti “virus” dei computer, di cui parlavamo con leggerezza e metaforicità fino a non molto tempo fa, convinti che i virus ormai riguardassero solo le macchine, non hanno mai spaventato un computer, proprio come nessun sentimento lo ha mai emozionato, nessun desiderio lo ha mai stimolato, ecc. Dunque, i computer non sono interessati a prendere il potere più di quanto un leone possa essere interessato a giocare a sudoku. Pensarla diversamente è un antropomorfismo che si paga caro.

Perché si paga caro l’antropomorfismo dei computer che vogliono prendere il potere? In fondo, se tanto il potere non lo prenderanno non si vede che danno dovrebbero procurarci. Semplice: perché se non capiamo che i computer non prenderanno il potere non possiamo neppure capire come fare per impedire che ci portino via il lavoro. Qui la difesa del lavoro non passa attraverso qualche forma di luddismo o di conservatorismo, che sono sempre degli atteggiamenti perdenti, ma dalla comprensione di che cosa significhi, propriamente, “lavorare”.

Come sopravvivere all’automazione con il lavoro e l’anima intatti

Se, come tradizionalmente è avvenuto in situazioni di automazione rudimentale, lo scopo del lavoro è compiere azioni che possono essere vantaggiosamente compiute dalle macchine, è evidente che la crescita dell’automazione coinciderà infallibilmente con la scomparsa del lavoro, perché, a parità di condizioni, una macchina è sempre più vantaggiosa di un umano, per ottimi motivi: non si stanca, muore, non ha diritti e non va in pensione. Ciò che viene richiesto è un cambiamento radicale del concetto di lavoro, che lo concepisca non come produzione di beni e di servizi (automatizzabili), bensì come produzione di valore, che va intesa in due sensi. Tutti i beni che sono prodotti e tutti i servizi che sono erogati non avrebbero alcun valore se non ci fossero degli umani, che quindi sono il polo positivo e non subordinato della automazione. Un mondo di macchine senza umani è inconcepibile, mentre un mondo di umani senza macchine è solo molto scomodo.

Se comprendiamo questo, ci rendiamo conto che nel confronto con la macchina l’umano è il signore, e non il servo, anche se per un suo peculiare gusto vittimistico preferisce immaginarsi in una posizione subalterna. Questa subalternità, quando esiste, non ha nulla a che vedere con il rapporto con le macchine (che, come abbiamo visto, non hanno alcuna aspirazione al potere) bensì con il rapporto con altri umani e con la natura, e sono punti che affronterò tra poco. Per il momento vorrei chiarire che il lavoro come produzione di valore non costituisce semplicemente, da sempre, l’orizzonte ultimo di qualunque produzione di beni ed erogazione di servizi, ma è anche, oggi, il risultato di qualunque attività umana sul web. Ogni nostro atto, nella misura in cui è registrato, concorre a produrre l’intelligenza artificiale (che è mimesi dei comportamenti umani). Quanto dire che con ogni nostro atto sul web contribuiamo alla automazione dei processi produttivi e distributivi.

Ciò non significa che lottiamo contro noi stessi, per la nostra disoccupazione. Questa è una visione limitata e limitante che, per l’appunto, concepisce il lavoro come imitazione della macchina e non si rende conto che la macchina esiste solo in vista dell’umano. È concepita a sua immagine e somiglianza e per servire ai suoi bisogni (non a quelli di un virus, di un castoro, o di un’altra macchina come utilizzatrice finale, tanto per capirci), e la distopia alla Metropolis, di umani ridotti ad automi è solo il frutto di una automazione imperfetta, in cui la macchina non si limitava a registrare, imitare e riprodurre le nostre forme di vita ma, dapprima per carenze energetiche (l’acqua e il vento sono risorse energetiche meno efficaci del vapore o dell’elettricità), poi per carenze nell’automazione (un tagliaerba ha a lungo richiesto qualcuno che lo guidasse) rendeva l’umano una protesi momentanea, insufficiente e insofferente, della macchina.

Il futuro del welfare

Se ci mettiamo nella prospettiva del lavoro come produzione di valore siamo in grado di creare un nuovo welfare, una ridistribuzione della ricchezza molto più efficace (perché sorretto da una maggiore automazione) di quanto non avvenisse nel welfare novecentesco, che è entrato in crisi proprio per la riduzione dei lavoratori in seguito alla automazione e del prolungamento della permessa dal progresso scientifico. Qui vorrei limitarmi a sottolineare tre punti.

Il primo è che viviamo già in una condizione di welfare anche se non lo sappiamo. Vent’anni fa nessuno avrebbe potuto prevedere la quantità di servizi gratuiti che ci vengono offerti, e che costituiscono un reale accrescimento della qualità della vita. Discoteche, biblioteche, cinemateche gratuite. Telefonate e videochiamate intercontinentali gratuite. Uno sterminato flusso di informazioni gratuite (ci sono delle fake news? Ebbene, sì. Ma c’erano anche prima, e per giunta bisognava pagare il giornale). E beni di prima necessità a prezzi progressivamente più bassi. Si confronti il prezzo di una camicia oggi con il prezzo di una camicia vent’anni fa, e si consideri quanto remoto si sia fatto lo spettro dell’inflazione, che invece costituiva la costante delle economie novecentesche.

Di qui il mio secondo punto. La causa dell’inflazione era l’aumento del costo del lavoro. Oggi che il lavoro è un bene poco desiderato, non stupisce che le medesime mansioni che trent’anni fa venivano pagate 100 oggi siano pagate 50, mentre si attende il momento in cui saranno pagate zero. Bisogna salutare questa circostanza come una grandissima opportunità. Proprio perché gli umani non sono più le protesi di falci e martelli, il loro lavoro è diventato un’altra cosa: il consumo e la mobilitazione sul Web. Invece di combattere battaglie di retroguardia agitando lo spauracchio di una automazione che produce disoccupati, bisogna impegnarsi a comprendere che quella automazione è resa possibile dalla produzione di valore degli umani sul web, che va dunque riconosciuta e ridistribuita con un nuovo Welfare che, diversamente da quello novecentesco, non si limiti a riconoscere nel risparmio l’altro volto dell’investimento, ma comprenda che il consumo è insieme il fine e il mezzo della produzione. Il fine, perché si produce in vista del consumo; il mezzo, perché proprio la registrazione del consumo e della mobilitazione è la base del perfezionamento della automazione e della distribuzione.

Il terzo punto discende naturalmente dai due precedenti. Oggi si può vivere con meno soldi di quelli che occorrevano pochi decenni fa (di qui, appunto, la stasi dell’inflazione su cui non si riflette a sufficienza). La grande produzione di valore è generata dalle piattaforme che registrano, analizzano e finalizzano la nostra mobilitazione sul web. Questa mobilitazione va riconosciuta come lavoro (cioè come produzione di valore) e va retribuita. Ma non con una assegnazione diretta di proventi ai mobilitati, visto che una simile assegnazione sarebbe insieme irrisoria (i dati contano non in quanto individuali, ma in quanto aggregati) e iniqua (si pagherebbero tanto i disoccupati quanto gli occupati), bensì attraverso una tassazione delle piattaforme volta a ripianare il debito degli stati, residuo dell’epoca non lontana in cui la mobilitazione non era ancora immediatamente produzione di valore, e a sostenere il numero crescente di disoccupati, di ex produttori di beni e di servizi che devono ricomprendersi come produttori di valore e riqualificarsi in quella direzione (torno su questo punto quando parlo dell’educazione).

Il futuro dell’ambiente

La crisi pandemica ha fatto per l’ambiente più di tutte le politiche che l’hanno preceduta, non solo per l’evidente miglioramento delle condizioni naturali dovute alla sospensione di molte attività a forte impatto ambientale, ma, soprattutto, perché ha indicato due vie concettuali necessarie per superare un equivoco dominante nell’ideologia dell’ultimo secolo, secondo cui saremmo padroni della natura e schiavi della tecnica. A parte l’arcaismo dei termini in gioco, è vero semmai il contrario. Siamo schiavi della natura, banalmente perché noi stessi siamo natura, e basta un virus per cambiare radicalmente le nostre forme di vita. E per ricordarci, se fosse necessario, che quando pure riuscissimo a immunizzarci contro questo e altri virus non riusciremmo a immunizzarci contro la vita e il suo esito naturale, ossia la morte. Oltre a ridurre un’enfasi inappropriata su noi come responsabili della catastrofe del pianeta (che finirà, ma nel Sole e fra tantissimi anni, dopo che noi saremo scomparsi e dopo che saranno scomparse le forme di vita che avranno preso il nostro posto) questa circostanza ci permette di mettere nella giusta prospettiva il problema ambientale, che si riduce al mantenimento, il più a lungo possibile, di condizioni di vita adatte per la sopravvivenza della nostra specie. Questo ha due conseguenze di rilievo.

La prima è che dobbiamo dismettere ogni forma di naturalismo farisaico. Questo non significa in alcun modo essere crudeli con gli animali o con le piante, ma significa evitare l’antropomorfismo per cui, negli ultimi decenni, si è fatto di animali e piante il surrogato degli operai e degli oppressi in via di sparizione. Il carattere farisaico di questo atteggiamento, che ripone il proprio valore morale nelle idee che professa invece che nelle azioni che compie, si evince dalla circostanza per cui nessuno ha seriamente animato un movimento d’opinione in difesa del Covid-19. Ciò che peraltro sarebbe stato del tutto ovvio in una prospettiva della tutela della natura: il Covid-19 è natura, e quando pure, come vogliono i complottisti, fosse stato creato in laboratorio da uno scienziato pazzo, sarebbe ancora natura, visto che il contrario di “naturale” non è “artificiale”, come sostengono molti, a torto, bensì “soprannaturale”.

La seconda è che quanto chiamiamo “tecnica” non è che quella parte di natura che dipende direttamente da noi. Nulla di più contraddittorio, dunque, del dichiararsi schiavi della tecnica, visto che la tecnica esiste solo in vista e in funzione degli umani, e che questa dipendenza diviene tanto più grande quanto più la tecnica si sofistica. Mentre un bastone è fungibile anche per un primate, un telefonino ha senso solo per un umano dotato di un livello minimo di cultura, dunque è una costruzione fragile e dipendente dal più debole fra i suoi utenti. Come è storicamente dimostrato, la recente rivendicazione della subalternità degli umani rispetto alla tecnica è stata semplicemente un accorgimento per addossare alla tecnica delle responsabilità umane troppo gravi per essere perdonate: e non a caso la prima occorrenza del discorso sul dominio della tecnica sulle decisioni umane si è avuta nell’autodifesa di Albert Speer a Norimberga. Coloro che oggi parlano di governamentalità algoritmica prendono per buone, sia pure con le migliori intenzioni, quelle scuse, e imputano alla tecnica (antropomorficamente dotata di volontà di potenza) delle responsabilità che sono esclusivamente umane, e che come tali vanno giudicate.

Una volta compreso che fra “natura” e “tecnica” non c’è contrapposizione, si tratta di ripensare radicalmente il discorso dominante negli ultimi decenni, che ha postulato che la difesa dell’ambiente dovesse passare attraverso la riduzione della tecnica, quando è vero esattamente il contrario.

Poiché la tecnica è lo specifico sistema di adattamento all’ambiente degli umani, è solo attraverso un affinamento della tecnica che si può ottenere la difesa dell’ambiente (ripeto: dell’ambiente, non della Natura o del Pianeta). E anche da questo punto di vista la riduzione di attività inquinanti derivante dal virus si è tradotta in un vantaggio obbiettivo per l’ambiente che non è avvenuto a discapito della tecnologia, ma proprio grazie alla sua sofisticazione digitale. Senza le piattaforme, la crisi sarebbe stata molto più dura, e soprattutto non si sarebbero realizzate le plusvalenze che, in un’ottica di Welfare, potranno dare un contributo decisivo non tanto alla “ripresa” quanto piuttosto allo sviluppo di un processo in corso. Le sfide ambientali sono anche sfide transgenerazionali, e inversamente le sfide transgenerazionali hanno un impatto sull’ambiente, e non è mai esistita una decrescita felice. Se vogliamo essere responsabili nei confronti delle future generazioni non basta assicurare loro un ambiente incontaminato (dunque umanamente invivibile) e predatori e virus in quantità a poco invidiabili umani la cui vita sia tornata a essere solitaria, povera, ingrata, brutale e breve.

Per chiarire questo punto vorrei suggerire uno scenario alternativo. Immaginiamo l’impatto del virus in una situazione senza web. Il blocco delle attività produttive e, a maggior ragione, della produzione di valore, sarebbe stato infinitamente maggiore. I vaccini sarebbero stati trovati molto più tardi, prolungando la pandemia e i suoi effetti economici e politici. E, alla fine, una umanità impoverita si sarebbe confrontata con problemi per lei molto più gravi della tutela dell’ambiente, che è sempre benvenuta non solo di per sé, ma anche perché è indizio di uno stato di maggiore benessere. Per venire incontro ai bisogni di una umanità impoverita e preoccupata ogni cautela sarebbe venuta meno, e le necessità immediate avrebbero fatto scegliere qualunque tipo di produzione, fosse pure nociva o inquinante, magari rilanciando la produzione a basso costo nei paesi più poveri che, per eccellenti motivi, sono anche i meno rispettosi dell’ambiente.

Il futuro della politica

L’ambiente non è solo ambiente naturale, ma, anche e indissolubilmente, ambiente sociale e politico. In questo quadro, si ha bisogno non di meno politica, ma di più politica. Non si tratta di irreggimentare teoricamente il mondo, bensì di mobilitarlo politicamente partendo dalla consapevolezza che se siamo schiavi, non siamo schiavi delle macchine, ma di altri umani. In questa direzione, i grandi nemici di una azione politica efficace sono tre: il complottismo, il farisaismo, il vittimismo. Che sono, come purtroppo sappiamo bene, il pane quotidiano dei dibattiti sul futuro dell’umanità “nell’età della tecnica” (espressione curiosa, in fin dei conti, perché la tecnica è coestensiva all’umanità, e dire “età della tecnica” è enunciare un sinonimo di “età dell’umano”).

Il complottismo è la malattia infantile della politica, che si mette al riparo preventivamente rispetto alle proprie incapacità di analisi e di risposta creando delle immani entità mitologiche e onnipotenti che tramano contro la felicità umana. Quello che oggi viene imputato al capitalismo di sorveglianza e allo stato biopolitico veniva imputato un tempo remoto a Wotan e a Giove, e in tempi relativamente più recenti alla Santa Alleanza. Senza considerare che se in effetti la Santa Alleanza ha potuto esercitare il proprio governo sull’Europa per meno di un decennio ciò è derivato semplicemente dall’incapacità delle controparti di proporre delle alternative, e che se il franchismo ha avuto la meglio in Spagna dipende dalla perfetta inettitudine dei repubblicani. Da sempre, lamentare la soverchiante potenza degli avversari è stata la strategia preferita dei generali incapaci, anche in questo la storia è maestra di vita e faremmo bene a non dimenticarne le lezioni.

L’altra grande sindrome della politica, che sta alla base delle continue lamentele sulla onnipotenza del web e del capitale che inondano giornali, siti, social, e che per inciso costituisce il cavallo di battaglia dei peggiori populismi, è il farisaismo, ossia la convinzione che il proprio valore morale consista, anche in politica, nelle idee che si professano invece che nelle azioni che si compiono. Per una legge implacabile, la nobiltà dei princìpi invocati è inversamente proporzionale alla bontà delle azioni politiche intraprese. Gli esempi in questo campo sono troppo numerosi per meritare di essere menzionati, e il solo punto rilevante, che distingue l’epoca presente da quelle che l’hanno preceduta, è che il web si presenta come lo spazio elettivo per la manifestazione di un farisaismo che, in precedenza, e per mancanza di mezzi tecnici, rimaneva circoscritto al mugugno, mentre oggi può costituire la base programmatica di movimenti e iniziative politiche.

La conseguenza più grave di questa situazione è il clima di vittimismo politico che ha caratterizzato la riflessione (di sinistra e di destra, spesso unite sotto lo stesso segno) degli ultimi decenni. Per fare un esempio concreto. Insistere sul fatto che la tecnologia non è neutra, e di conseguenza invocarne la moralizzazione, è commettere insieme un errore concettuale e un errore politico. Dal punto di vista concettuale, la tecnologia è ovviamente neutra, non nel senso che una camera a gas possa essere adoperata per scopi filantropici, ma nel senso che la progettazione e l’uso criminale di una camera a gas ricade interamente sugli agenti umani che hanno contribuito all’una e all’altro. Dal punto di vista politico, è permettere, come ricordavo poco sopra, che i responsabili umani addossassero alla tecnica responsabilità che erano esclusivamente loro.

Il futuro dell’umanità

La grande occasione che viene offerta per una riflessione post-coroniale consiste proprio nel superamento del vittimismo che aveva caratterizzato la riflessione post-coloniale, e che aveva avuto come risultato paralizzante per il pensiero critico e progressista non di riconoscere i torti, anche culturali, del colonialismo, ma nel proporre l’equazione affrettata e profondamente ingiusta tra soggetto politico e vittima. Il soggetto politico non è necessariamente una vittima, e, quando lo è, non si può nemmeno escluderlo che lo sia per responsabilità interamente sue. Ciò premesso, i soggetti politici più interessanti sono i vincitori, a meno che si tenga a scrivere una storia vittimaria che in musica antepone Salieri a Mozart, in politica antepone Carlo Pisacane a Lenin, e in letteratura Silvio Pellico a Kafka. L’idea è molto semplice: invece di mettere tutti quanti in condizioni di piangere il male comune, che sembra di gran lunga l’attività prevalente dei populismi e dei vittimismi contemporanei, cerchiamo di costruire un futuro dell’umanità in cui tutti siano vincenti, fatto salvo il diritto, che è inalienabile, di fallire ancora, di fallire meglio, se è questo che desideriamo.

  • Il primo punto è la trasvalutazione. Una volta che, superato il vittimismo politico, si sia compreso che le macchine non vanno da nessuna parte in assenza di umani, e che la dipendenza delle macchine dagli umani è tanto maggiore quanto più grande è il grado di complessità dell’automa (un telefonino dipende in tutto e per tutto da un umano, senza il quale non ha senso, mentre un bastone o un martello sono fungibili anche da un primate), si diviene capaci di rilanciare una dialettica di signoria e servitù in cui l’umano riconosca la propria superiorità rispetto alla macchina. In concreto, questa circostanza si tradurrebbe nel riconoscimento della imprescindibilità della mobilitazione umana per la produzione di valore, e dunque nella attuazione del welfare di cui dicevo più sopra. La dipendenza delle macchine da noi, da ognuno di noi, diviene in questo quadro un motivo di lotta e di rivendicazione molto più forte delle rivendicazioni sindacali del Novecento. Lì, infatti, la risposta era la delocalizzazione prima, l’automazione poi. Adesso siamo entrati in una nuova era della contrattazione tra capitale e lavoro, dove per l’appunto il lavoro è produzione di valore, ossia qualcosa che non può essere in alcun modo automatizzato.
  • Il secondo è l’educazione. Si tratta in questo quadro di ripensare la partecipazione e la mobilitazione politica, e insieme di creare le forme per una educazione permanente che abiliti concettualmente alla partecipazione politica le moltitudini che ora sono tecnicamente in condizione di farlo. Parlando di “moltitudini” non le contrappongo alle élite, perché ognuno di noi, in questa fase storica, è parte della moltitudine, il che è un bene, perché si stanno ponendo le condizioni perché le differenziazioni dipendano molto meno dal privilegio che non dal merito, intellettuale e morale (per non dare l’impressione che stia parlando in generale ed enunciando dei vaghi ideali, osservo che attualmente persino nell’Università il merito sta sempre più diventando un criterio decisivo).
  • Il terzo è l’invenzione. L’umanità non è nulla di dato, nulla da ripristinare e a cui tornare. L’umanità è un progetto aperto, e non da oggi, ma da sempre. Le direzioni che questo progetto potrà prendere dipendono, in misura diversa, dall’impegno di ognuno di noi, e anche in questo caso mi guardo bene dall’impedire a chicchessia di seguire opzioni diverse o antitetiche. Il mondo è bello perché è vario, e dopotutto la biodiversità delle idee perderebbe qualcosa se non ci fosse modo di leggere, di quando in quando, che la tecnica non è neutrale, che il capitale ci sorveglia, che gli algoritmi ci determinano, che la biopolitica ci assilla e che l’unica cosa buona che possiamo fare, in questo contesto, è pregare un dio che ci permetta “tutti insieme” (mi raccomando, siamo nella economia della condivisione) di diventare più buoni e più saggi.

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