Il libro di Alfonso Fuggetta, “Il paese Innovatore”, che Egea ha pubblicato a fine 2020 è un libro molto interessante che definisce un implicito quanto necessario progetto politico di portata rivoluzionaria in Italia; un macigno nello stagno. Alla prima lettura non ho creduto ai miei occhi.
Ma l’occasione fornita da questa celebrazione per un ottimismo della volontà non può evitare di dar rapidamente luogo ad un forte senso di pessimismo della ragione di fronte alle gravi condizioni economiche in cui si trova il paese. Pessimismo che si acuisce quando si realizzi che queste condizioni trovano origine in alcune attitudini culturali e istituzionali profondamente radicate. L’emergenza sanitaria quest’anno non ha fatto che rendere ancor più evidente quanto queste attitudini caratterizzino senza pietà la gestione politica e il dibattito pubblico del paese.
La distinzione tra ricerca e innovazione
Il libro di Fuggetta si cala nel dibattito con la forza di una astronave di marziani. Parla di crescita in un paese dove si discute di solo di redistribuzione; distingue ricerca e innovazione dove la politica ha come obiettivo principale la difesa di rendite acquisite; delinea meccanismi di efficienza dove gli intellettuali sanno ragionare solo in termini di dicotomia stato-mercato; sogna tecnologia dove regna l’ideologia.
Torno sulla distinzione tra ricerca ed innovazione che mi pare essere il cuore, l’aspetto più evocativo, del libro per un non addetto ai lavori. “Equiparare l’investimento pubblico in ricerca ad una azione imprenditoriale e di innovazione è […] semplicistico” (corsivo nel testo). Ma è esattamente in questo semplicismo che sta il dibattito pubblico più avanzato e celebrato nel paese. Quando Mariana Mazzucato intitola il proprio libro Lo stato innovatore (non è questione di traduzione: l’aggettivo usato nella edizione inglese è entrepreneurial) confonde proprio ricerca e innovazione. Prova ne siano gli aneddoti (peraltro scelti selettivamente) con cui Mazzucato argomenta l’importanza che lo Stato ha avuto nello sviluppo di prodotti innovativi come l’iPhone, attraverso lo sviluppo di attività più propriamente di ricerca (internet, touch screen, GPS). Ed è tutta qui, nella chiarificazione di cosa significhi ricerca e cosa significhi innovazione la forza concettuale del libro di Fuggetta.
Ma questa è anche la sua debolezza, perché questa confusione è utile ideologicamente; proietta l’analisi lì dove si è fermata la capacità di elaborazione concettuale nel dibattito del paese, lo stato contro il mercato dei profitti.
In questo contesto culturale, delineare meccanismi efficienti in cui il ruolo dello stato nella ricerca e del privato nell’innovazione sviluppino complementarità utili alla crescita del paese, i meccanismi su cui si concentra l’analisi di Fuggetta, è come cercare di parcheggiare l’astronave in un borgo medievale.
La relazione tra economia e contesto culturale e istituzionale
Alla fine, è il contesto culturale che determina il successo di un’operazione come quella del libro di Fuggetta – e non mi riferisco solo al successo editoriale, ma al successo nel mondo delle idee, alla capacità di intervenire ed essere percepito come propositivo nel dibattito pubblico. Per mia personale deformazione professionale tendo a considerare centrale il ruolo di questo stesso contesto culturale nell’influenzare (determinare è troppo) lo sviluppo socioeconomico del paese. È utile così a portare la discussione sulla relazione tra economia e contesto culturale ed istituzionale – struttura e sovra-struttura si diceva una volta quando eravamo (quasi) tutti marxisti. Una recente vivace attività intellettuale in economia, scienze politiche, storia, ci porta in questa direzione. La ricerca delle radici culturali ed istituzionali del progresso economico è una delle frontiere più interessanti delle scienze sociali (non solo a mio modesto parere) – a partire dagli studi di Daron Acemoglu e Jim Robinson sugli effetti di lungo periodo della struttura istituzionale imposta alle colonie da parte dei paesi colonizzatori. Al di là di una mia avversione metodologica sull’uso della parola “origine” in questo contesto, l’analisi storica delle attitudini culturali ed istituzionali del nostro paese è di grande interesse per comprendere il modo in cui esso affronta il governo dell’attività socio-economica e con quali risultati.
Perché l’Italia rifiuta scienza e tecnologia
Non è certo questo il luogo dove produrre un’analisi approfondita di questo tipo – che peraltro credo non esista affatto nella sua interezza. Vorrei però toccare in modo speculativo e forse anche in parte provocatorio la questione, abbozzando idee e riferimenti presi dalla recente letteratura economica, adattandoli in modo soggettivo. A questo proposito penso si possano identificare tre elementi che hanno almeno in parte contribuito a quel rifiuto di scienza e tecnologia che vedo molto marcato oggi in Italia, più che altrove nel mondo occidentale: la religione cattolica, il ritardo di sviluppo di cultura e capitale civile in buona parte del paese (per semplificare, quella parte meno toccata dall’esperienza Comunale nel Medioevo), e l’egemonia culturale neoidealista che, teorizzata da Benedetto Croce, si è compiuta nella Riforma Gentile della pubblica istruzione del 1923.
Il ruolo della religione nel contrasto alla cultura scientifica
Il ruolo della religione nel contrastare lo sviluppo della cultura scientifica è uno di quei luoghi comuni nella storia delle idee che tendono ad avere un saldo riscontro nell’analisi storica. In quelle regioni dove il clero religioso ha avuto un ruolo fondamentale nel fornire legittimità all’autorità politica, esso ha avuto maggior agio nel fermare lo sviluppo scientifico.
A questo proposito sono apparsi interessantissimi studi recentemente con l’obiettivo di spiegare quella che viene chiamata “long divergence”, e cioè la grande divergenza nei tassi di crescita del mondo islamico rispetto a quello occidentale, a partire dal Medioevo (attorno all’anno 1.000, il mondo islamico era largamente avanti rispetto all’occidente in termini di sviluppo socio-economico). Tra le importanti cause di questa divergenza Timur Kuran – in “The long divergence: how Islamic law held back the middle east”, Princeton University Press, 2011 – nota il ruolo del clero religioso nel rallentare lo sviluppo di quelle istituzioni economiche, a partire dal sistema bancario, che hanno favorito lo sviluppo economico in occidente. Jared Rubin – in “Rulers, religion, and riches: why the west got rich and the middle east did not”, Cambridge University Press, 2017 – evidenzia invece il ruolo del clero nel rallentare lo sviluppo culturale del mondo islamico, ad esempio impedendo l’accesso alla stampa a caratteri mobili.
In Europa la Chiesa Cattolica ha avuto spazi minori di controllo – secoli di lotte tra Papa ed imperatore, tra Guelfi e Ghibellini, ne hanno limitato il potere di influenza (anche se Galileo non sarebbe forse d’accordo). Ma, dallo studio degli effetti della Riforma Protestante (lungo le linee di Weber, in Sascha Becker e Ludger Woessmann, Quarterly Journal of Economics 2019), o dallo studio statistico delle determinanti dell’innovazione tecnologica (Roland Benabou, Davide Ticchi, e Andrea Vindigni, American Economic Review 2015), si può comunque inferire un ruolo della Chiesa Cattolica, di minore entità rispetto a quello del clero islamico ma comunque rilevante, nel determinare una più lenta adozione della cultura scientifica e tecnologica.
L’esperienza Comunale in Italia
L’importanza dell’esperienza Comunale in Italia – ed il suo ruolo nello sviluppo di capitale civico e sociale – è una tesi tanto discussa quanto importante nell’analisi della storia delle istituzioni, le cui implicazioni vanno ben al di là della comprensione della storia del nostro paese. Lo sviluppo storico delle città italiane nel corso del Medioevo e del Rinascimento è oggetto di studio e laboratorio di dati per tanta parte della teoria economica dello sviluppo e della sociologia e della politologia delle istituzioni.
Al caso italiano non per niente riferisce l’analisi del capitale sociale in Robert Putnam, in “Making democracy work: civic traditions in modern Italy”, Princeton University Press; così come il discutibile studio del “familismo amorale” in Edward C. Banfield, “Moral Basis of a Backward Society”, Free Press 1958.
Più recentemente, l’auto-governo dei Comuni come causa storica e fortemente persistente dei differenziali di sviluppo del capitale civile è stata studiata da Luigi Guiso, Paola Sapienza, e Luigi Zingales, Journal of the European Economic Association, 2016.
La questione meridionale
Per l’Italia la questione dell’esperienza dei Comuni è naturalmente fortemente connessa anche alla questione meridionale, a causa della distribuzione geografica delle esperienze di indipendenza Comunale, concentrate nel Centro-Nord del paese per varie ragioni storico-politiche.
In questo senso, lo studio dello sviluppo del capitale civico e sociale assume un ruolo particolarmente rilevante in Italia nel contesto di ogni analisi dello sviluppo culturale, politico, e istituzionale del paese e nello studio delle diseguaglianze di reddito e ricchezza prima e dopo l’Unità, fino ad ora. Più direttamente, la relazione tra lo sviluppo del capitale civico e sociale e le generali attitudini verso scienza e tecnologia restano invece questione maggiormente aperta ed interessante.
Il regime fascista
Per varie ragioni che sarebbe difficile (almeno per me) delineare con chiarezza il regime fascista in Italia ha privilegiato la cultura umanistica, vista come fondamento del carattere nazionale, rispetto a quella scientifica. Questa visione si è manifestata ad esempio nella distinzione tra liceo classico e scientifico e più in generale nell’impostazione alla pubblica istruzione data da Giovanni Gentile nella riforma del 1923. La persistenza di questa impostazione, che solo oggi va lentamente scemando, si deve forse anche al fatto che essa era coerente con la tradizione filosofica neoidealista di Benedetto Croce, tanto intellettualmente egemonica in Italia quanto contrapposta alla “filosofia scientifica” di Federigo Enriques. La struttura della pubblica istruzione così come idealizzata e costruita da Gentile ha caratterizzato la composizione di competenze delle élite economiche e politiche del paese – semplificando ed estremizzando: molti avvocati e pochi ingegneri al comando. I risultati di tutto questo vanno ben al di là della competenza specifica delle élite; agiscono, a mio modesto avviso, a livello di cultura popolare, favorendo una tendenza a sostituire analisi, piani, progetti, con tanto elaborate quanto spesso vuote costruzioni retoriche. Questo punto non è puramente frutto di una mia soggettiva e superficiale analisi – ma è in qualche forma supportato da suggestiva evidenza empirica in Kevin Murphy, Andrei Shleifer e Robert Vishny, Quarterly Journal of Economics, 1991.
Conclusioni
Se è estremo e ingiusto attribuire alla chiesa, all’eterogeneo sviluppo di capitale civico e sociale, e alla cultura umanistica una responsabilità nell’incapacità delle élite politiche di favorire una cultura scientifica in Italia, di finanziare la ricerca e costruire le basi di un “paese innovatore”, non è certo un eccessivo scientismo a caratterizzare l’atmosfera culturale del paese.
Dovrà essere oggetto di studio, a questo proposito, il drammatico fallimento del governo del paese nella gestione dell’emergenza sanitaria, davanti al quale si è reagito progettando palazzi a forma di primula dove vaccinare prima di avere un piano di vaccinazione di massa, e minacciando azioni legali contro le società farmaceutiche, per alcuni ritardi di produzione dei vaccini dopo il loro sviluppo in tempi record, sull’onda della propaganda anti-mercato.