Ovunque, nel mondo, l’esercizio del potere pubblico si sta trasformando, e nel farlo cerca di mutuare le caratteristiche di un gioco. Da Santa Monica in California a Suining in Cina, l’impegno civico si pratica via app e può aumentare il rating personale, dando diritto a premi o agevolazioni, proprio come avviene nel primo episodio della terza stagione di Black Mirror – ‘Nosedive’ – la cui protagonista, Lacie, è una ragazza ossessionata dal proprio social score. La ludicizzazione dell’impegno civico, insomma, non è solo fiction ed è molto più diffusa di quanto immaginiamo. Si rischia, però, di dare vita a una partecipazione di seconda classe.
Ma per comprendere meglio la realtà, partiamo dalla fiction.
Nosedive
Nel mondo in cui vive Lacie – il futuro verosimile e inquietante descritto da Black Mirror, in cui la tecnologia svolge un ruolo cruciale – la qualità delle interazioni sociali viene valutata in tempo reale, su una scala da uno a cinque, attraverso il telefono cellulare. Avere un punteggio alto non è solamente una questione di prestigio personale. Comporta benefici tangibili, nella vita di tutti i giorni.
All’inizio dell’episodio Lacie ha un punteggio di 4.2 – non male, ma pur sempre un gradino più in basso rispetto all’élite. Lacie è ambiziosa. Le basterebbe uno score di 4.5 per avere diritto a negoziare l’acquisto di un nuovo, lussuoso, appartamento. Ed ecco finalmente l’occasione giusta: un’amica d’infanzia chiede a Lacie di fare da testimone al suo matrimonio. Un discorso ben riuscito davanti agli ospiti – tutti con punteggi di 4.5 o superiori – consentirebbe a Lacie di accrescere il proprio punteggio e raggiungere l’obiettivo che si è posta.
Le cose, purtroppo, non andranno per il verso giusto. Una serie di incidenti incrina pericolosamente lo score di Lacie, impedendole prima di prenotare un biglietto aereo, poi di noleggiare una vettura e, alla fine, di partecipare al matrimonio. Siamo arrivati alla fine dell’episodio. Posta in stato d’arresto, la protagonista subisce la rimozione forzata della tecnologia che, installata sul suo corpo, le consentiva di valutare le relazioni sociali, e di essere valutata. Chiusa in cella, Lacie ha un diverbio con il proprio vicino; ed è in quel momento che scopre, con liberazione, di poter esprimere le proprie emozioni, litigando senza doversi preoccupare di punti e di classifiche.
Social score e rating personale, non è solo fantasia
Ci avete fatto caso? Ci sono molte similitudini tra il mondo descritto in Nosedive e un videogioco. Un trillo accompagna le valutazioni positive; a quelle negative, invece, segue un suono tetro. Vivere, nella realtà parallela che racconta Nosedive, equivale a impegnarsi costantemente per migliorare il proprio social score. Un punteggio alto, infatti, significa amici più simpatici, cibo più sano, accesso a servizi più efficienti – in pratica un’esistenza felice. Arrivare in cima, tuttavia, non è per nulla facile. Servono costanza e determinazione, e le probabilità di fallire sono tangibili.
È facile rubricare Nosedive a pura finzione, un universo frutto della fantasia di alcuni sceneggiatori, che esiste solamente sullo schermo. Non è così. Molto di quello che racconta l’episodio accade già, tutti i giorni, nella nostra realtà. Vi stupireste nello scoprire che il miglioramento del rating personale è parte integrante della vita di molte persone? Come reagireste sapendo che i partiti politici e i governi sperimentano tecnologie simili a quelle raccontate da Nosedive?
La ludicizzazione della partecipazione alla vita pubblica
I residenti di Santa Monica, in California, esprimono il proprio gradimento sulle varianti urbanistiche che l’amministrazione cittadina vorrebbe introdurre nei quartieri presso cui abitano, scorrendo a destra o sinistra sullo schermo dei propri smartphone. Lo fanno tramite un’applicazione molto simile a quella ideata per incontrare l’anima gemella: Tinder. Nel Nuovo Messico, ad Albuquerque, è possibile scaricare un’applicazione per cellulari con cui monitorare – e registrare – gli atti di gentilezza cui si assiste durante la giornata. Migliaia di chilometri più a sud, in Perù, si può tracciare il percorso di avvoltoi addestrati che, muniti di videocamera Go-Pro e rilevatore di posizione, cercano discariche illegali di rifiuti. I madrileni che hanno un’idea per migliorare la propria città possono condividerla attraverso un sito web dedicato. Le idee che ricevono il maggior numero di “mi piace” vengono discusse dal consiglio municipale, che le vota e, in caso di maggioranza favorevole, si impegna a realizzarle. A Mosca si ricevono punti se si partecipa attivamente alle consultazioni pubbliche organizzate dal sindaco. Con questi punti si può pagare il parcheggio, acquistare il biglietto per una corsa in metro, oppure partecipare a una riffa e vincere due biglietti per assistere alla prima dell’opera. Nella città cinese di Suining, invece, i punti si ricevono (o si sottraggono) in base all’adeguatezza del comportamento tenuto in società. Vi prendete cura di un familiare anziano? Cinquanta punti per voi. Vi arrestano per guida in stato di ebbrezza? Avete perso cinquanta punti. In base al vostro punteggio, potreste avere diritto a saltare la fila all’ufficio di collocamento, oppure vedervi privati della possibilità di accedere al pronto soccorso più vicino.
Anche la politica è sempre più legata all’uso dei giochi. Nel 2008 il team che avrebbe portato Barack Obama alla vittoria nelle presidenziali chiese agli americani di indicare la loro lista di priorità per il prossimo governo. Per farlo creò una piattaforma web chiamata ‘Change.gov’. Hillary Clinton ha provato qualcosa di simile nel 2016. I sostenitori della candidata del partito democratico potevano scaricare un’applicazione per telefoni cellulari ispirata al celebre gioco di Facebook: Farmville. Attraverso l’applicazione era possibile sostenere la candidata con azioni concrete, in particolare convincere altri potenziali elettori. In cambio dell’impegno profuso si ricevano piccoli premi: una t-shirt autografata dalla Clinton, o un posto nelle prime file alla successiva tribuna politica.
Da SAM a Rousseau, la metamorfosi delle politiche pubbliche
È chiaro che in tutti i casi appena citati lo scopo è uno: mobilitare l’elettorato. Esistono però casi in cui la ludicizzazione della politica si colloca nella fase post elettorale. Qui le finalità spaziano dal tentativo di alimentare il dibattito su temi politici di particolare importanza, al coordinamento di reti più o meno estese di volontari e simpatizzanti. Un ottimo esempio del primo tipo è SAM – un chatbot programmato per simulare un politico virtuale in Nuova Zelanda. “Mi puoi chiamare quando vuoi, ovunque ti trovi”, recita lo slogan di SAM. Attraverso Facebook Messanger, SAM offre risposte neutrali e veritiere alle domande poste dagli utenti.
Un caso del secondo tipo – quello cioè del coordinamento – lo offre la piattaforma web del Movimento 5 Stelle: Rousseau. Pensata per coordinare e unire gli sforzi di volontari, simpatizzanti ed eletti, la piattaforma fa ampio uso di elementi ludici. Rousseau è divisa in tre aree, a ciascuna delle quali corrisponde un diverso flusso di informazioni.
- Primo: dal basso verso l’alto (gli iscritti discutono proposte presentate dai rappresentanti del Movimento eletti a tutti i livelli di governo);
- secondo: dall’alto verso il basso (gli eletti del Movimento che hanno un’idea la presentano alla piattaforma, chiedendo agli utenti di votarla);
- terzo: un flusso orizzontale (al quale corrispondono attività di e-learning).
I principali elementi ludici sono nel sistema di voto, che determina il posizionamento delle proposte all’interno di una classifica di preferenze, e nelle notifiche settimanali. Queste ultime sono strutturate in modo da mantenere elevato l’interesse e la partecipazione degli utenti.
I problemi della gamification del potere pubblico
Ne siete convinti adesso? La metamorfosi delle politiche pubbliche in un passatempo è tutt’altro che fantasia. C’è un problema però. Ne ha scritto ironicamente Eugeny Morozov. L’attività di governo trasformata in gioco, vista da vicino, non ricorda affatto una innocente partita a Tetris. I partiti e i governi mirano alle potenzialità della ludicizzazione delle politiche pubbliche per adeguare il passo al progresso tecnologico, recuperare il rapporto di fiducia con i cittadini (e, per il tramite di questo, legittimare il proprio operato), ridurre i costi di gestione ed elaborare risposte efficaci a problemi globali.
Scavando sotto la superficie, tuttavia, emergono problemi importanti, sia pratici che teorici. Inizio dagli aspetti pratici, che sono due. Anzitutto, a fronte delle potenzialità in termini di stimolo alla responsabilità civica, non abbiamo dati a sufficienza per poter escludere l’ipotesi contraria – che cioè la ludicizzazione si traduca in un fiasco. Sabino Cassese ci ricorda che la libertà di scelta delle leggi e dei legislatori non si traduce necessariamente nella scelta delle regole. La meccanizzazione delle regole è un sistema imperfetto, in cui domanda e offerta non sempre, e non necessariamente, si incontrano. Per questo motivo Cassese ritiene “arena pubblica” una definizione più appropriata per descrivere fenomeni di trapianto di regole e istituti tra ordinamenti giuridici differenti. Il problema è capire se, e a quali condizioni, la gamification può essere “procedimentalizzata” per moltiplicarne il potenziale; ovvero se è più opportuno interpretarla usando il paradigma dell’arena pubblica. Proverò a sciogliere il dilemma nel sesto capitolo, mettendo a confronto i settori di regolazione che più frequentemente fanno uso di elementi ludici.
Pur ipotizzando, per semplificare, che sia possibile procedimentalizzare la ludicizzazione delle politiche pubbliche, non avremmo certezza del fatto che questa incentivi automaticamente l’impegno civico. Ecco qui il secondo dilemma pratico.
Possiamo utilizzare elementi di gioco per promuovere la partecipazione? Il premio Nobel per l’economia Richard Thaler risponde positivamente. I regolatori, ricorda il premio Nobel all’economia, hanno tre incentivi a disposizione per sostenere il senso civico: l’esortazione, la sanzione e, appunto, l’uso di stimoli divertenti. I numeri danno ragione all’economista statunitense. I videogames sono diffusi globalmente, e interessano fasce di popolazione ben più ampie degli adolescenti. La Entertainment Software Association ci dice che il 58% degli americani gioca regolarmente ai videogiochi. Il videogiocatore medio, negli Stati Uniti, ha trentotto anni. In Europa – stando alle stime della Interactive Software Federation of Europe – il 48% degli europei gioca ai videogame; il 25% di costoro lo fa regolarmente, almeno una volta a settimana.
I numeri però, da soli, non bastano. Abbiamo già visto come la ludicizzazione possa essere utilizzata per scopi contrari all’inclusione civica, e cioè per limitare la partecipazione dei cittadini. Sebbene, nelle politiche pubbliche, questo punto rimanga controverso, in altri settori è certificato. Ad esempio, sul mercato del lavoro. È stato quantificato in circa trenta ore settimanali l’impatto negativo che la dipendenza dai videogiochi produce sull’attività professionale dei giovani ventenni. Per cui, oltre a considerare la possibilità che i regolatori pubblici con la ludicizzazione perseguano l’obiettivo di politiche pubbliche più efficaci, ma non più inclusive, dobbiamo considerare anche l’ipotesi ulteriore di cittadini che, assuefatti agli stimoli della gamification, agiscano come consumatori, ignorando qualsiasi altra forma di coinvolgimento. È chiaro che né la prima né la seconda ipotesi depongono a favore dell’impatto positivo della ludicizzazione sul senso civico e la partecipazione.
La gamification del potere pubblico solleva anche problemi di natura teorica, relativi all’evoluzione del potere pubblico a livello nazionale e sopranazionale. Ci sono due aspetti da considerare. Primo: siamo certi del potenziale innovativo dirompente della gamification? E, in caso di risposta affermativa, la gamification può realmente rivoluzionare la partecipazione civica? Ricordiamoci che i giochi sono tutt’altro che democratici. È vero, semmai, il contrario. I giochi sono pensati per stimolare le esigenze di pubblici diversi, non necessariamente omogenei, e i giocatori sono per definizione in competizione tra loro. Pertanto l’idea di trasporre i principi dei giochi nelle politiche pubbliche al fine di renderle più inclusive e partecipate non è per nulla in linea con le dinamiche che quegli stessi elementi incoraggiano nei contesti da cui provengono.
Secondo: il discorso sull’impatto dirompente della gamification ci costringe a riflettere sul concetto di impegno civico. A pensarci bene, le azioni prodotte attraverso la ludicizzazione sono piuttosto basilari: mettere un “like” sull’idea di qualcuno, scorrere con l’indice a destra o sinistra sullo schermo dello smartphone, oppure dare un punteggio all’operato del sindaco. Dobbiamo considerarli atti di partecipazione veri e propri? Oppure dovremmo riformulare il concetto di partecipazione tradizionale? La prima opzione è, oggettivamente, irrealistica. La seconda soluzione ci costringe invece ad accettare implicitamente l’idea che esista una graduatoria di azioni che esprimono impegno civico. Il passaggio successivo è ammettere che, allo stato attuale, il tipo di impegno civico promosso con la gamification delle politiche pubbliche è, nella migliore delle ipotesi, un impegno di seconda classe.
LUDOCRAZIAGianluca Sgueo è autore del libro Ludocrazia (Egea, 2018) su questi stessi temi. Incontrerà i lettori l’8 dicembre a Roma, alla Nuvola di Fuksas, alle 14.30. |