il commento

Il rider morto e la responsabilità dell’algoritmo: tempo che a pagare siano le aziende

Il caso del rider di Firenze, Sebastian, e le dichiarazioni del ceo della sua azienda Glovo sono utili per rimarcare un concetto. L’algoritmo non è responsabile di queste storture. Lo sono e sempre più saranno riconosciuti tali le aziende che li usano e li producono. La tendenza è chiara, ecco perché

Pubblicato il 09 Ott 2022

Massimo Borgobello

Avvocato a Udine, co-founder dello Studio Legale Associato BCBLaw, PHD e DPO Certificato 11697:2017

Alessandro Longo

Direttore agendadigitale.eu

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Sebastian, rider di Glovo a Firenze morto sul lavoro, viene licenziato via mail dopo il decesso. L’azienda si giustifica dicendo che il messaggio è stato mandato per errore; un caso di automatismo ottuso, insomma. Non contento, il Ceo dell’azienda a un’intervista di Repubblica dichiara: “non è l’algoritmo a obbligare ad andare veloci“. Come a dire: non è la modalità del lavoro, dettata dall’algoritmo, a essere causa dell’incidente. Frase infelice perché sembrerebbe scaricare la responsabilità sul morto, che sarebbe stato poco prudente alla guida.

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Ma su una cosa tocca dare ragione al Ceo: non è l’algoritmo il colpevole. La colpa è e sempre sarà umana: dei capi che quell’algoritmo hanno istruito secondo logiche disumanizzanti. L’algoritmo non è neutro, beninteso. Solo con la sua forza è ora possibile automatizzare, rendendole inesorabili, direttive dirigenziali orientate alla sola massificazione dei profitti, per soddisfare nuovi e insulsi bisogni dei consumatori.

Istruttiva, su questa dinamiche, la lettura delle varie inchieste sui rider (l’ultima è Insubordinati, libro di Rosita Rijtano) e su Amazon – dove i tempi sono resi dall’automazione così stringenti che il tasso di infortuni nei magazzini e di incidenti dei corrieri è più alto della media.

Fatto curioso. L’economia digitale doveva migliorare il lavoro, rendendolo più pulito, forse persino più etico. a a volta sembra reinterpretare, in peggio, certi valori neoliberisti degli anni ’80. Traditi anche dal cinismo di certe dichiarazioni post-mortem.

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Ma sembra che il vento stia cambiando. Dopo i profitti esponenziali del periodo pandemico, le piattaforme hanno dovuto cedere sottoscrivendo un contratto collettivo e assumendo i riders come dipendenti.

D’altra parte, una volta creata l’abitudine al delivery, le piattaforme hanno anche dovuto fare i conti con la realtà: un conto è mandare ragazzi a fare le consegne in pieno lockdown, con le strade libere, un altro è spedirli ad ogni ora in giro per le città con il traffico della ripresa economica.

Qualcuno avrà anche evidenziato come, in assenza di copertura Inail (ora presente), di formazione di dipendenti e di consegna di dispositivi di protezione (DPI), la responsabilità penale, soggettiva per dirigenti e amministratori e di impresa, in caso di infortunio sul lavoro, avrebbe avuto risultati processuali catastrofici per le piattaforme.

La responsabilità delle piattaforme

Dopo la sentenza ThyssenKrupp delle Sezioni unite della Cassazione de 2014, i limiti per la gestione allegra delle aziende si sono ristetti sempre di più, fino ad essere praticamente azzerati.

In altri termini, se una piattaforma di delivery non assume il rider, non lo forma adeguatamente, non gli fornisce i dispositivi di protezione e adotta un algoritmo di consegna disumano, in caso di incidente stradale da stress, il procedimento penale è certo (e con esito scontato).

In caso di sinistro, infatti, tutti i soggetti coinvolti, dall’amministratore delegato ai dirigenti ai responsabili per la sicurezza sul lavoro sarebbero considerati responsabili di omicidio colposo (o di lesioni in caso di esito non mortale del sinistro) e la società responsabile ai sensi del decreto legislativo 231 del 2001, con sanzioni economiche pesantissime.

Anche per scongiurare questo rischio, Assodelivery ha sottoscritto un contratto collettivo che determina condizioni di lavoro uniformi, teoricamente sicure e chiaramente improntate a dare una retribuzione – considerata – equa.

E non parliamo solo di rider. Inchiodare le piattaforme tecnologiche e i produttori tech alle loro responsabilità è crescente tendenza che si incarna in norme in Europa, Cina, Stati Uniti. Da noi val la pena segnalare il Digital Services Act da poco approvato e la proposta sulla responsabilità civile connessa ai sistemi di intelligenza artificiale. 

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Insomma: no, davvero, l’algoritmo non è responsabile. Lo sono e sempre più saranno riconosciuti tali le aziende che li usano e li producono.

Conclusioni

Siamo ottimisti. Per legge o per buon senso, verrà il giorno in cui anche i più ottusi manager capiranno che l’eccessiva automazione è un costo più che una risorsa.

 Un conto è automatizzare e rendere più efficiente un sistema, un altro è dover fare i conti con una macchina che passa sopra a tutto e tutti e manda messaggi standard ai morti.

Chiunque, anche i non addetto ai lavori, capisce che un messaggio come quello arrivato al cellulare di Sebastian getta un’ombra su una morte sul lavoro che già è durissima da accettare – sempre che sia possibile.

Il danno di immagine, poi, è pieno e non rimediabile: ma continuiamo pure ad avere fede nell’algoritmo, che non sbaglia mai.

Noi, intanto, continueremo serenamente ad ordinare qualunque cosa a domicilio per non scendere di casa a comprare quello che ci serve al negozio di quartiere.

Magari, per una volta, potremo provare a fare le scale (fa pure bene) e a non usare il glovo di turno, pensando proprio a Sebastian.

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