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Il robot Astro e il significato di “coscienza”: quale impatto sulle nostre relazioni

Quali saranno le relazioni che intratterremo con il robot domestico Astro? Con i suoi movimenti intelligenti e la capacità di rispondere alle nostre richieste e agli ambienti domestici, potrà fornire un aiuto anche affettivo alle persone? Ecco in che modo, il prossimo prodotto Amazon potrebbe intervenire nelle nostre vite

Pubblicato il 11 Nov 2021

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

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Il prossimo prodotto Amazon? Un robot domestico, Astro. Occhi grandi su uno schermo led, ruote e Alexa inclusa: sarà impossibile non conferirgli un nome e non sentirlo parte della famiglia, anche senza provenire da una cultura animista come quella orientale.

Ma cosa significa questo? Perché ci interroghiamo sulla dignità di un robot anche parzialmente umanoide mentre un braccio robotico di un’industria 4.0 non ci fa sollevare alcun dilemma etico? Cosa significa coscienza? Come potrebbe intervenire, Astro, nelle nostre vite?

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Cos’è la coscienza?

Entrare in relazione con altri individui, animali e oggetti è parte del nostro essere umani. Per farlo non ci domandiamo della realtà e della mente altrui. Nella pratica, infatti, non emerge il dubbio del Genio Maligno. Per quelli che sono i nostri scopi non è importante soffermarci sul fatto che dall’altro capo della nostra azione ci siano cibi reali e altri soggetti simili a noi, ma se l’attività vada o no a buon fine. Anzi è necessario all’attività stessa presupporre e dare per scontato che tutti rispondano a una comune rete di pratiche sociali, leggi fisiche e regole. Alla luce di ciò lo scetticismo esiste solo in sedi che non siano quella della vita dinamica.

Un passo indietro: cos’è la coscienza? È qualcosa che si trova in me? Possiamo dire sia una funzione, un’attività che si compone di innumerevoli fattori che comprendono tanto le mie credenze, la mia storia, quanto quella del mio gruppo, la mia fisiologia, il mondo, gli altri. Pertanto, è un errore logico quello di attribuire sostanza a quella che appare quale un’attività. È l’errore di Cartesio già redarguito da Hobbes: dall’Io penso non si può desumere che l’io sia pensiero. È come concludere dal fatto che io cammini che io sia una camminata.

In effetti la coscienza assomiglia di più al camminare che a uno spiritello folkloristico. Anche quando ci muoviamo dobbiamo tenere conto di moltissime variabili e tutte quante concorrono a definire il “camminare”. Nell’atto intervengono la struttura del corpo, la forma del mondo, le circostanze sociali, le loro norme esplicite o implicite che mi permettono di entrare in luoghi e non in altri e che mi impongono una certa qualità di movimento.

Come sostiene il filosofo Alva Noë, distacco teoretico e relazione pratica sono in antitesi. Dal momento in cui entriamo in un qualunque rapporto con altri individui, animali, robot, ci viene naturale rapportarci a essi come se fossero vivi, senza che ce lo si chieda. Chiederselo fa scomparire il flusso attivo. All’emergere del dubbio cartesiano si interrompe la relazione, la quale invece è sempre una dinamica fondata sul dare per scontato che gli altri condividano uno mondo comune e stessi impulsi. Quando emerge lo scetticismo in quell’azione dinamica che chiamiamo vivere si frappongono il criticismo e il distanziamento scientifico, i quali interrompono temporaneamente quel flusso che dovrebbe essere posto in analisi. In questo modo si perde la pratica relazionale stessa. Ecco perché non può sussistere una teoria della mente: la coscienza si vive, non la si rappresenta (non la si pensa).

Nel quotidiano, nella praticità della nostra azione, la coscienza è qualcosa da porre in atto, non è qualcosa che emerge come risposta alla domanda “esisto?”.

Conoscenza e azione

Ci viene così spontaneo attribuire ad altri soggetti la vita perché siamo una specie sociale, abituata a rapportarsi con altri individui e altri animali in un reciproco scambio, in cui non ha senso domandarsi dove finisca io e comincino gli altri: l’importante è agire. È come se ogni volta che interagiamo con un conoscente dovessimo controllare i registri dell’anagrafe, il DNA, le impronte digitali, nel dubbio che davanti si abbia a che fare con dei cloni o che la realtà cambi di continuo. Quanto tempo perderemmo nell’appello a scuola? Per i nostri scopi ci fidiamo che il mondo sia regolare, dando per scontato di conoscere il mondo e i vissuti altrui.

Non solo, tendiamo a eseguire le azioni in modo migliore quando conosciamo più approfonditamente i soggetti. Come evidenzia questo studio condotto su un gruppo di bambini coinvolti in un corso di robotica, nominare i robot e dare loro una caratterizzazione personologica più completa consente ai piccoli di programmarli meglio, rispetto a quando avevano a che fare con semplici numeri di serie. “When you know better, then you do better”, diceva la poetessa Maya Angelou.

Diamo un nome alle cose

Per lo stesso motivo anche nel marketing è utile immaginare un soggetto con un nome e un cognome e abitudini per pianificare una campagna pubblicitaria veramente efficace. Pensiamo meglio e agiamo meglio quando di fronte abbiamo un singolo individuo di cui presupponiamo una teoria della mente: si intende la capacità che abbiamo di attribuire stati mentali ad altri di cui sappiamo tenere conto strategicamente anche nella pratica. Ecco, dunque, a cosa serve dare nomi; ecco perché i robot con cui ci dobbiamo relazionare devono essere più che intelligenti, abitudinari. Che i maker fabbrichino robot dotati di abitudini! Al nome poi ci penseremo noi, nella pratica (Cfr. Alva Noe, Perché non siamo il nostro cervello, Cortina, Milano, 2009).

Ecco allora perché è sufficiente vedere un robot muoversi, guardarci perché spontaneamente ci si rivolga ad esso come se fosse vivo. Abbiamo bisogno di condividere il nostro stesso terreno di azioni, di abitudini, di reazioni per mettere in atto le nostre azioni. Lo facciamo in modo spontaneo, proprio per essere più efficaci. Dare un nome è un modo di conoscere e quindi di controllare: sei Socrate e non un essere umano generico, sei Tu, con un nome e non solo un Robot.

Le relazioni che avremo con Astro

Quali saranno le relazioni che intratterremo con Astro? Con i suoi movimenti intelligenti e la capacità di rispondere alle nostre richieste e agli ambienti domestici, potrà fornire un aiuto anche affettivo alle persone? Come scrivevo in questo articolo sui Robo Pet, molti individui hanno tratto beneficio, soprattutto durante il Covid, dal possedere robot morbidi e forieri di affetto. Anche nelle case di cura dove non è possibile possedere animali e in generale per gli anziani il cui tempo è un’incognita, avere un pet robotico potrebbe essere il giusto compromesso tra bisogno di affetto e angoscia di non avere abbastanza tempo o energie per un animale in carne ed ossa.

Sono diversi i casi di bambini che sono riusciti ad aprirsi con i robot piuttosto che con i medici. L’utilizzo di robot umanoidi come, ad esempio, Pepper non è una novità nei casi di autismo. In questo studio, ad esempio, è stato analizzato come gli automi possano essere utili per insegnare ai bambini affetti da questo disturbo a regolare le emozioni, questo grazie al fatto che il robot riesca a interagire su un terreno più comune, utilizzando termini più complementari ai loro. I bambini autistici allenati dall’interazione affettiva con il robot sviluppano abilità sociali che spenderanno anche nel gruppo di pari e con gli adulti.

Anche i bambini abusati in famiglia hanno mostrato più tranquillità nell’aprirsi con un robot piuttosto che con un altro adulto, di cui magari diffidavano a causa delle esperienze personali pregresse. A tal proposito, avere in casa un robot che potrebbe interfacciarsi con la polizia aprirebbe sì scenari distopici, tipici del panopticon, ma potrebbe fornire un vero aiuto a quelle vittime di stalking che spesso mancano di protezione adeguata e tempestiva. Astro potrebbe contattare subito le forze dell’ordine se riconoscesse qualcosa di anomalo intorno al soggetto sotto protezione. Certo, il problema dei citofoni smart di Amazon già usati dalla polizia per controllare il quartiere potrebbe configurarsi anche con Astro. Il robot potrebbe diventare un infiltrato delle forze dell’ordine e i dati che raccoglierebbe tramite Alexa potrebbero essere sfruttati per n ragioni, violando facilmente la privacy di chiunque passasse davanti ai suoi sensori. A maggior ragione che si tratterebbe di un robot capace di muoversi e seguirci, potrebbe captare molte più informazioni rispetto a un citofono o allo smart speaker fissi in un luogo.

In conclusione, Astro potrebbe essere estremamente utile soprattutto se verrà data certezza che il nome lo si dia noi a lui e non viceversa.

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