Greenpeace e Internet hanno una relazione che affonda nella notte dei tempi, se parliamo dal punto di vista della rapidità con la quale ormai avvengono i cambiamenti. Già nei primissimi anni Novanta, infatti, la nostra organizzazione usava la posta elettronica per comunicare. Internet, allora, era nata da pochi anni, a partire da primi progetti di rete sviluppati negli Usa come l’Arpanet di origine militare e i successivi sviluppi avvenuti in ambiente universitario. Il World Wide Web (più brevemente “Web”), invece, era solo un progetto realizzato da Tim Berners-Lee all’interno del CERN di Ginevra (lo stesso laboratorio del “bosone di Higgs”…) che solo nel 1993 sarebbe stato reso pubblico per dare il via a quel processo di trasformazione che ancora oggi stiamo osservando.
Dalla posta elettronica
Naturalmente il ricorso precoce a strumenti come la posta elettronica ha una sua storia. Che è in gran parte connessa con la storia dell’organizzazione stessa. Greenpeace nasce – o si palesa al mondo – il 15 settembre 1971, quando un gruppo di attivisti statunitensi e canadesi salpa da Vancouver, porto del Canada, con un vecchio peschereccio, il Phyllis Cormack. Il loro scopo è protestare in modo non violento contro i test nucleari USA a largo dell’isola di Amchitka, in Alaska, una delle regioni più sismiche al mondo e dimora di specie in via d’estinzione. Anche se il gruppo viene fermato, l’azione scatena l’attenzione dei media e un’ampia protesta pubblica contro gli esperimenti. Sulla banchina di Vancouver il rientro del Phyllis Cormack è accolto da una folla di persone. Nel corso dello stesso anno i test nucleari cessano e l’area viene dichiarata riserva per gli uccelli.
Questi primi attivisti, che testimoniano il disastro ecologico e le minacce per la pace, danno solo l’esempio. Già nel 1972, infatti, un gruppo di neozelandesi e canadesi, guidati da David Mc Taggart, si confronta con gli armamenti francesi a Mururoa. È come lo scontro di Davide contro Golia. Il loro piccolo veliero – il Vega – viene speronato e i membri dell’equipaggio riportano diverse ferite. Ma anche quella resistenza rappresenta un simbolo e verrà seguita da altri. In pochi anni, la difesa dell’ambiente e il pacifismo diventano l’impegno di molti. Le immagini di donne e uomini che sfidano le gigantesche navi baleniere o difendono con il proprio corpo i cuccioli di foca stimolano la nascita di una coscienza ecologica mondiale. L’emergenza, d’altra parte, è senza precedenti. Così l’attivismo prende forma fino a quando i distinti gruppi di Greenpeace non confluiscono in un’unica organizzazione a livello mondiale. Nel 1979 nasce Greenpeace International.
Fin da subito, quindi, appaiono alcune caratteristiche che rimangono costanti in Greenpeace. Su tutte, il confronto, la tendenza ad agire per mettere in evidenza i crimini contro l’ambiente e la pace, e accendere una luce su chi se ne rende responsabile. Poi, il carattere globale dell’organizzazione che, come abbiamo visto, si sviluppa in diverse parte del pianeta, per poi trovare successivamente una forma unitaria. Da qui discende la necessità di trovare strumenti di coordinamento e comunicazione. E non strumenti semplici, visto che Greenpeace opera contemporaneamente in diverse parti del globo, attraverso differenti fusi orari, con persone che magari sono imbarcate e compie delle azioni dove tempestività e sorpresa sono (quasi) tutto. Di qui il ricorso, sin dagli esordi, alla radio e al telegrafo. E di qui l’adozione, appena possibile, della posta elettronica, mediata dagli ambienti scientifici e universitari.
Ma la posta elettronica, naturalmente, è soltanto l’inizio. A breve arriverà il Web, appunto, e quindi i siti Internet. Questi vengono realizzati prima dai singoli uffici, poi – a partire dai primi anni del Duemila – Greenpeace International svilupperà una piattaforma e un layout grafico (di nome Planet) che verranno via via adottati dai diversi uffici nazionali e regionali. Siamo in un ambito che potremmo definire “classico”, o di Web 1.0: il sito di carattere statico, con le pagine che è possibile navigare in modo ipertestuale, il ricorso alle email, l’uso dei motori di ricerca… La nuova rivoluzione, tuttavia, era dietro l’angolo.
…a “Green My Apple”
Prima ancora di parlare di Web 2.0, e di tutte quelle applicazioni che permettono l’interazione con l’utente, c’è però una campagna di Greenpeace. Che non a caso, forse, parla di computer. Si tratta di “Green My Apple”, viene lanciata nel settembre 2006 e si presenta così: «Noi amiamo la Apple. La Apple ne sa di più di chiunque altro a proposito di “design” pulito, non è vero? E allora perché i Mac, gli iPod, gli iBook e il resto dei suoi prodotti contengono componenti tossiche che altre aziende hanno accettato di abbandonare? Una compagnia all’avanguardia non dovrebbe mettere a rischio le vite altrui, esponendo i bambini in Cina e India a sostanze chimiche pericolose. È per questo che noi “fan” di Apple chiediamo un nuovo, fantastico prodotto: una Apple più verde».
La novità, però, non è nell’oggetto della campagna. E nemmeno nel gioco di parole, perfetto in inglese, tra il nome dell’azienda e la richiesta che diventi “più verde”… La novità è nel fatto che Greenpeace chiede ai propri sostenitori, agli attivisti (quelli che sta cominciando a chiamare “cyberattivisti”), alla moltitudine di fan della Apple di intervenire in questa campagna non tanto, o non solo, per sostenerla, ma per esserne parte integrante. Come? Per esempio, spedendo una lettera a Steve Jobs. Oppure modificando in modo ironico la campagna pubblicitaria dell’iPod, quelle delle figure nere su sfondo colorato, allora onnipresente (l’iPhone era ancora di lì da venire…). Le persone, in poche parole, potevano sostenere la campagna di Greenpeace (finanziandola), oppure entrare in azione verso la Apple (“iTakeAction”), o ancora aiutare a creare elementi di comunicazione della campagna stessa (“ProCreate”). E se Apple aveva la suite di software iLife, Greenpeace con “iPush” offriva ai propri cyberattivisti un elenco di azioni da intraprendere.
Il Web 2.0 e i social network
Sarebbero venute molte campagne come questa, e sarebbe arrivato il Web 2.0. Greenpeace Italia ha fatto molto esperienza nel campo. Dopo l’adozione della campagna “Green My Apple”, infatti, c’è stato lo sviluppo di “ParmigiaNOgm”, nel 2007 la prima campagna digitale tutta italiana. Poi, nel 2009 è partita l’elaborazione di un progetto ancora più ambizioso, frutto anche di alcuni seminari con colleghi di Greenpeace Argentina, uno degli uffici più all’avanguardia nel campo. È nato così il sito “Nuclear Lifestyle”, del 2010, che sarebbe stato seguito – nel 2011 – dalla campagna per il Referendum sul nucleare e il sito “ipazzisietevoi.org”. Dove i “pazzi” erano sette ragazzi chiusi in un appartamento/bunker, nel rispetto delle regole di radioprotezione per mostrare come si vive, o si dovrebbe vivere, per difendersi da incidenti come quello di Fukushima.
Tutte queste esperienze sono continuate nel 2012 con “Facciamo Luce su ENEL”, “U Mari Nun Si Spirtusa” e “Io Non Vi Voto” dedicate al carbone e alle trivellazioni nel Canale di Sicilia. A livello internazionale, molto importante è la campagna “Save the Arctic”, che punta a creare un Santuario globale al Polo Nord, e vietare le perforazioni petrolifere e la pesca industriale distruttiva.
Contemporaneamente, è esplosa la presenza di Greenpeace sul Web e sui social network. Diamo ancora qualche numero, sempre sull’Italia. Nel 2005, l’ufficio italiano aveva circa 5 mila cyberattivisti, che negli anni successivi (2012 a parte) sono sempre raddoppiati. Facebook e Twitter, naturalmente, erano di là da venire. A fine 2012, la situazione era radicalmente cambiata. Greenpeace Italia, infatti, ha superato quota “un milione” di contatti tra le diverse piattaforme: 472 mila cyberattivisti, 294 mila fan di Facebook e 234 follower di Twitter. Naturalmente, si tratta di contatti spesso sovrapponibili (un cyberattivista può seguire Greenpeace anche su Facebook, Twitter, YouTube, Pinterest, ecc.), e non tutti attivi, tanto che nel 2013 è stato avviato un processo di “ripulitura” delle email, che ha portato a un ridimensionamento della lista, ma anche a una maggiore qualità della stessa.
Quello che è ancora più importante, tuttavia, è che per Greenpeace non si tratta solo e semplicemente di uno spazio “da presidiare”. Qualcosa di obbligato da fare, perché il mondo va in quella direzione… Al contrario, gli attivisti online e i social network rientrano sempre più nelle strategie di comunicazione e di campagna: vengono considerati in fase di programmazione, aggiornati di continuo, monitorati con costanza, osservati in qualità di termometro delle reazioni rispetto alle attività dell’organizzazione. E naturalmente investigati anche per il loro potenziale di raccolta fondi.
Greenpeace, infatti, crede nel “potere di agire insieme”, perché «il futuro dell’ambiente è nelle mani di milioni di persone nel mondo che condividono le nostre aspirazioni». E il Web e i nuovi media sono i terreni di elezione perché questo potere si dispieghi con efficacia. Diversi uffici nazionali e regionali – Argentina, Usa, India, Spagna, Nuova Zelanda, Mediterraneo, solo per fare qualche altro esempio – sono già molto avanti nello sviluppo di campagne integrate, offline e online, che mirano a coinvolgere il maggior numero di persone. Campagne che tengano conto non solo degli obiettivi, ma considerino sin dall’inizio lo sviluppo di una efficace strategia di comunicazione e valutino con attenzione, integrandole nella strategia, tutte le opportunità di raccolta fondi.
Aspetti che sono ormai entrati nel DNA anche di Greenpeace Italia, se è vero che – al suo primo apparire – l’ufficio ha ricevuto il premio “Non profit Email Award 2012”, consegnato nell’ambito dell’annuale Festival del Fundraising a Castrocaro Terme. A essere premiata è stata la strategia email nell’ambito della campagna “Facciamo Luce su ENEL”. E che si tratti di un progetto integrato appare subito evidente: uno strumento di comunicazione (email), messo al servizio di una campagna di Greenpeace e premiato da un evento di Fundraising…
La nuova identità di Greenpeace
Ma tutto ciò, in un certo senso, finisce per modificare la stessa “identità” di un’organizzazione come Greenpeace. Se si ritorna alle sue origini, infatti, si può facilmente riconoscere come Greenpeace sia nata sostenuta da due colonne portanti: le campagne, innanzitutto, quelle inaugurate con il già citato viaggio verso l’isola di Amchitka; e la raccolta fondi, fondamentale per un’organizzazione che per tutelare la propria indipendenza rifiuta per policy qualsiasi finanziamento da aziende, governi o istituzioni. Non è caso che la prima azione di Greenpeace sia stata preceduta, quasi un anno prima (ottobre 1970), da un concerto di Joni Mitchell, James Taylor e Phil Ochs, al Pacific Coloseum di Vancouver, con lo scopo di raccogliere i soldi necessari alla spedizione del Phyllis Cormack.
Greenpeace è cresciuta su questo binomio: da una parte le campagne, con tutto il corollario di azioni esemplari (sempre nonviolente) e comunicazione delle stesse, e dall’altra la raccolta dei fondi necessari a condurre tali campagne. Come direbbero gli anglosassoni, se Greenpeace fosse un “eroe”, sarebbe il classico “Advocating Hero”, ovvero colui che agisce in nome degli altri, chiedendo a questi ultimi di sostenerne le attività. Con Internet, e i Social Network, però, tutto ciò cambia. Agli attivisti online, ai fan di Facebook, infatti, non viene semplicemente chiesto di sostenere Greenpeace (anzi, questo quando viene chiesto è successivo), ma innanzitutto di partecipare. I cyberattivisti accettano di impegnarsi in azioni online, petizioni, diffusione di messaggi virali (cioè capaci di propagarsi autonomamente tramite email, post su blog, sui social network, etc.), aiutando l’organizzazione a svolgere le proprie campagne.
Se quindi le nuove parole chiave sono “interagire”, “partecipare”, “contribuire” – come abbiamo visto nel caso della campagna Apple – con qualcosa di prodotto da sé stessi, ne deriva che anche il ruolo dell’“eroe” Greenpeace cambia. Si parla, in questo caso, di “Empowering Hero”, ovvero di colui che mette in grado una moltitudine di agire in prima persona, essere parte delle campagne e, possibilmente, di vincerle insieme a chi la sta conducendo. Non si tratta di una identità alternativa, tuttavia: le immagini dell’“Advocating” e dell’“Empowering Hero”, infatti, coesistono. Greenpeace continua con le sue azioni dirette, alle quali non è possibile far partecipare le persone che si attivano online, ma ha aggiunto a quelli classici altri aspetti di una personalità che quindi si è arricchita. Proprio grazie a Internet e ai New Media in generale.
Fine di una storia? Naturalmente no. Stiamo parlando di una frontiera in continuo cambiamento, e se c’è una cosa che Greenpeace ha mostrato di capire – nel corso della sua esistenza – è proprio la necessità di agire lungo la frontiera. Di qui, per aggiungere un ultimo esempio, la nascita di esperienze come quella del “Digital Mobilisation Lab” (o “Mob Lab”), dedicato a Greenpeace stessa e ai suoi “alleati” in tutto il globo. Un luogo dove sperimentare le tecnologie digitali, la potenza dei social network ma anche tutte le nuove potenzialità delle comunità di persone fisiche. Un luogo, in definitiva, dove costruire la Greenpeace di domani. Così si presenta il Mob Lab: «Noi esistiamo per trasformare il modo in cui le campagne vengono combattute e vinte, dando inizio a una nuova era di strategie “alimentate dalle persone” che amplifichino l’impatto delle campagne e creino un cambiamento positivo».