Tecnologie controverse

Il silenzio delle bombe e il boato del coltello

Le tecnologie che si possiedono vengono utilizzate in maniera diversa sulla base degli effetti che possono produrre. Tutti chiudono gli occhi sulle vittime dei droni, mentre il video delle barbarie dell’Isis sconvolge la rete. Un’analisi

Pubblicato il 03 Ott 2014

Nicola Strizzolo

docente associato Sociologia Università di Teramo

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Quest’articolo non intende prendere le difese dell’una o dell’altra parte, ma semplicemente evidenziare come vengono utilizzate in maniera diversa le tecnologie che si possiedono sulla base degli effetti che possono produrre.

Sembra passato al Festival di Venezia silenzioso come un drone il film “Good Kill”. L’opera, diretta da Andrew Niccol, lo stesso regista di “Gattaca” e sceneggiatore di “Truman Show”, narra in maniera non troppo convincente – stante le non molto lusinghiere critiche – le vicende professionali e i dubbi etici di un pilota di droni. Per la prima volta un film che tocca un tema tanto attuale e controverso viene accolto senza clamori, ancor più se diretto da un autore dai primi passi tanto brillanti. È come se l’effetto anestetizzante le coscienze, prodotto dalla guerra chirurgica, avesse in qualche maniera ottuso l’interesse del pubblico. Non avendo ancora visto il film, queste rimangono congetture, tanto più su degli spettatori potenzialmente stremati da maratone filmiche. Non sono congetture, invece, le informazioni che ci vengono fornite da un pilota di droni in carne e ossa, Brandon Bryant, che al culmine della sua professione, a fronte anche di un ingarbugliata matassa di ordini, ha ceduto ai suoi conflitti interiori: comandi nei quali un bambino diventa un cane a due zampe1, dei pastori – comunicata l’identificazione presunta di armi – terribili terroristi che alla fine spariscono abbattuti, esalando l’ultimo respiro e perdendo il calore della vita, nello sfondo infrarossi dei sensori. Infine direttive che provengono dai servizi segreti, per uccisioni che più operazioni di guerra, hanno il sapore di vere e proprie esecuzioni al di fuori dei territori del conflitto dichiarato: ma si sa che la guerra ad un terrorismo che colpisce a livello globale non può che essere a sua volta senza confini. Limiti, questi ultimi, che il protagonista del film non intende varcare e che non ha retto Bryant, il primo pilota americano di droni da combattimento a compiere outing su quello che ha fatto e visto nel suo lavoro.

Ovviamente la guerra dei droni apre non poche discussioni sulla legittimità di intervento dei Servizi Segreti nell’utilizzo di armi delle Usa Air Force, per il pedinamento e l’eliminazione di coloro che vengono identificati come obiettivi della guerra al terrore intrapresa dopo l’11 settembre e sulla reale efficacia nel contesto di interventi più estesi: come possono portare pace, giustizia e democrazia – gli intenti dichiarati di più o meno tutti gli interventi militari dell’ultimo ventennio – quando in realtà, non pochi errori hanno portato dal cielo un’odiosa minaccia silenziosa ed invisibile per tutta la popolazione, anche quella che vive in pace e non imbraccia i kalashnikov o prepara bombe?

Ecco alcuni dati in meritosolamente nel 2012, senza considerare l’Iraq, l’Afganistan e Libia, sarebbero, secondo il Bureau for Investigative Journalism tra i 450 e i 1900 le vittime civili, effetti collaterali della guerra dei droni, delle quali, tra 175 e 394 bambini – fonte UN; nel 2013, in Afganistan sarebbero 45 gli innocenti così assassinati; secondo il Center for Naval Analysis vittime civili sono molto più probabili negli attacchi dei droni che in quelli di aerei convenzionali.

Di fatto esistono diverse pubblicazioni scientifiche che mettono in dubbio la dichiarata efficacia dei droni su campi di battaglia, altre che affrontano le conseguenze in termini di post-traumatic stress symptoms per gli stessi piloti (cha a fronte di clamori giornalistici non supererebbero il 4,9 per cento dei casi).

Benché alcuni operatori coinvolti non vogliono sentire parlare di droni o di operazioni chirurgiche, ma di strumenti teleguidati con cui seguono a distanza il nemico, in qualche maniera studiando le sue abitudini, la sua vita e creando una sorta di familiarità che porta rispetto e dispiacere nel loro abbattimento, altri osservatori invece parlano proprio di guerra invisibile9, di accettazione della popolazione di queste strategie belliche, in quanto le immagini degli effetti di queste operazioni, rimangono lontane dai media, e le stesse, sono sintesi di sensori mediate da computer, anziché immagini fotografiche e televisive di uomini torturati e uccisi.

Mentre il 71 per cento degli americani accetta senza problemi le 2500 vittime, tra terroristi e perdite collaterali, causate dai droni soltanto in Pakistan, gran parte dell’America continua a provare un senso di auto-riprovazione per le uscite da Abu Ghraib o Guantanamo. «Questo perché l’immagine di un veicolo incenerito o di una casa distrutta non è sufficiente a farci realizzare – spiega Abu Bruce Hoffman, direttore del Centro per gli studi sulla Sicurezza dell’Università di Georgetown – che quella cosa capita a un esser umano come noi».

Che la tecnologia, che intreccia la storia dell’occidente, sia anche servita per allontanare immagini e percezioni di sofferenza e morte, non è cosa nuova: una delle tesi del libro “Sorvegliare e Punire” verte proprio su questo concetto. Altrettanto discussa è la tele azione che rende chirurgica l’operazione delle prime bombe intelligenti, un tele agire che allontana dall’azione in sé e dalle sue conseguenze, potenzialità messa in luce da Lev Manovich nel suo fondamentale studio presso il MIT sui “Linguaggi dei nuovi media” (2001).

Anche Margaret Tatcher aveva imparato dalla sconfitta mediatica americana del Vietnam, ritardando di mesi l’arrivo ai giornali delle immagini del conflitto delle Malvinas, impedendo così l’impatto emotivo e sensazionalistico dei reportage di guerra, come invece, in maniera del tutto incontrollata, aveva portato al tracollo interno del sostegno alla guerra negli Usa.

Non è un caso che la stessa comunicazione intorno ai droni appaia blindata: il pilota riceve ordini, comandi e definizione senza sapere con precisione da chi; alle sue spalle c’è chi controlla il suo operato e lo sollecita a conformarsi all’interpretazione della situazione dettata dalla gerarchia di comando1; la Cia stessa esercita influenza all’interno di importanti testare per guidare anche le informazioni sui droni.

Cosa succede quando invece qualcuno nel deserto sgozza una persona davanti a una telecamere e lancia l’immagine nel web? Un boato assordante ed incontrollato. Ogni salotto benpensante è raggiunto da immagini trucidi quanto un impalamento sulla Drina. Ogni commensale davanti al televisore in cucina ha un sussulto, e il cappuccino diventa amaro davanti ad un giornale che riporta le immagini.

Tutti, in maniera attiva, passiva, diretta, indiretta veniamo raggiunti dall’efferata notizia di questa barbarie, diffusa e riprodotta in canali senza controllo e effettuate con mezzi poveri, ma precisi e che sfruttano il voyerismo mediatico e la viralità di condivisione dei social: non si voleva uccidere un terrorista anziché un contadino, una piccola milizia anziché corteo nuziale, un cane – accettabile come effetto collaterale vicino a pericolosi nemici – anziché un bambino vicino a dei pastori (e non dei terroristi). La notizia esplode, le coscienze insultano, gli occidentali cristiani si stringono a corte ed il selfie vicino a un cadavere fa il giro del mondo. Format del terrore come veri e propri horroreality che si possono vedere in siti come Syrianfight.com, così come una bambina con la pelle a brandelli in fuga dal napalm: la forza bellica degli Usa mediaticamente in quel caso divenne la sua debolezza, la debolezza tecnologica degli islamici è diventata la loro forza, e la nostra paura.

Riferimenti:

–          Michael J. Boyle (2013). The costs and consequences of drone warfare. International Affairs 89: 1, 2013.

–          David Hastings Dunn (2013). Drones: disembodied aerial warfare and the unarticulated threat. International Affairs 89: 5, 2013.

–          Sarah Kreps, Zenko Micah (2014). The Next Drone Wars, Foreign Affairs. Mar/Apr2014, Vol. 93 Issue 2, p68-79. 12p.

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