Dunque, il sindacato è entrato anche in Apple. E la domanda è allora: cosa sta succedendo in America? Cosa sta accadendo in quelle imprese iper-tecnologiche, virtuose per auto-definizione e per propaganda mainstream e con lavoratori anch’essi felici per definizione?
Cosa accade in quelle imprese considerate come creative in sé, per sé e per noi secondo il mantra neoliberale per cui questo è il nuovo che avanza e che non si deve fermare (anche se in realtà sono state e sono soprattutto imprese disruptive), fondate/controllate da imprenditori considerati dai media, dai consumatori e dai politici come guru o come visionari che promettono un mondo nuovo e tutto diverso dal passato?
Il ritorno del “sindacato” nell’era digitale: contro lo strapotere dell’algoritmo
Quelle imprese comunità dove tutti sono (sarebbero) come fratelli, fedeli della religione dell’impresa, tutti i lavoratori (pardon: collaboratori, secondo la neolingua in uso nelle scuole di management) condividendo la mission dell’impresa come se fosse la loro mission di vita – mission che nelle retoriche autocelebrative è sempre cambiare il mondo, mentre nella sostanza è sempre quello di massimizzare i profitti personali di padroni come Bezos e Musk[1]?
Già, perché se i lavoratori si auto-organizzano e cercano il sostegno del sindacato vuol dire che lo storytelling di questi ultimi trent’anni della e sulla Silicon Valley virtuosa, innovativa anche nelle relazioni di lavoro e proiettata verso il futuro era solo un castello di carte, crollato non appena i lavoratori hanno preso coscienza (parola antica) della loro reale subordinazione e del loro realissimo sfruttamento in modalità otto-novecentesca – e si legga, a conferma di questa interpretazione “La valle oscura”, di Anna Wiener[2] – da parte di un management sempre uguale ma fatto credere come nuovissimo[3])? E infine, cosa c’entra questo con “La felicità negata”[4], che è il titolo dell’ultimo libro del sociologo Domenico De Masi – e di cui parleremo più avanti?
Sindacato? Sì, grazie!
Ricapitoliamo[5]: nei giorni scorsi i dipendenti dell’Apple Store di Towson, nelle vicinanze di Baltimora – nel Maryland – hanno votato per la loro sindacalizzazione. Sono così diventati il primo dei centri Apple – sono 270 sparsi per gli Stati Uniti – a aderire a un sindacato, confermando una tendenza appunto crescente, negli Usa, alla sindacalizzazione da parte dei lavoratori del Big Tech. Il conteggio dei voti è stato di 65 a favore e 33 contrari, su 110 dipendenti che avevano la possibilità di votare. Apple – impresa autocratica fino a ieri – sarà così tenuta a fare quella cosa che dovrebbe essere normale in ogni sistema democratico e persino liberale, cioè contrattare con il sindacato le condizioni di lavoro dei suoi impiegati. Apple – secondo una tradizione imprenditoriale che nasce nell’Ottocento e arriva a Bezos e a Musk, passando per Marchionne – aveva cercato in ogni modo di contrastare l’iniziativa di auto-organizzazione e sindacalizzazione dei lavoratori. E un messaggio registrato di Deirdre O’Brien, responsabile delle risorse umane di Apple “e distribuito ai dipendenti dopo che le iniziative sindacali erano diventate pubbliche, li scoraggiava dall’unirsi ai sindacati, affermando che ciò li avrebbe danneggiati”[6], appunto nella più classica delle minacce di quello che un tempo si chiamava padronato, oggi 2.0.
Di più: a dimostrazione di un processo crescente ma che sembra avere anche – usando un termine desueto – tendenze interclassiste; e a dimostrazione di una crescente e orizzontale insoddisfazione dei lavoratori per le loro condizioni di lavoro, a gennaio anche un gruppo di ingegneri di Google si è associato con altri lavoratori e ha annunciato di aver formato l’Unione dei lavoratori di Alphabet, coinvolgendo un totale di circa 800 dipendenti. Unione gestita da cinque persone, tutte giovani (e anche questo è un segnale importante e interessante).
Il fenomeno della great resignation
Su tutto, abbiamo il fenomeno della Grande dimissione, iniziato negli Usa ma poi esploso in molti paesi, Italia compresa, ovvero la tendenza per cui i dipendenti si dimettono volontariamente in massa dai loro posti di lavoro. Per ragioni diverse – ricerca di occupazioni migliori e a maggior reddito, voglia di dare un taglio a una vita insoddisfacente o non appagante e altro ancora – ma effetto evidentemente non solo della pandemia, ma di qualcosa di molto più profondo, che riguarda appunto la condizione esistenziale di ciascun dimissionario e la propria condizione lavorativa. Segno che troppo spesso le retoriche del management – valorizzare il proprio capitale umano, empowerment ed engagement, self-management, lavoro per progetto, creatività, lavoro intellettuale e di conoscenza, eccetera eccetera – sono solo diversivi linguistici manageriali per nascondere ancora la vecchia alienazione[7], il vecchio sfruttamento, semmai accresciuto nel taylorismo digitale dell’Industria 4.0, nel capitalismo di piattaforma, nel caporalato anch’esso digitale, nei processi di esternalizzazione e di delocalizzazione, nella precarizzazione del lavoro e quindi anche della vita, nella fine della distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita, nel nostro infinito lavoro gratuito di produzione di dati, nella stessa Silicon Valley.
La felicità negata
Il momento sembrerebbe dunque propizio – se non fosse nascosto dalla guerra in Ucraina – per riflettere sul modello d’impresa dominante e sul nostro modello economico e sociale. Cioè sul neoliberalismo e sul potere della tecnica come razionalità strumentale e calcolante assolutamente e compulsivamente irrazionale. Cioè di quello che chiamiamo tecno-capitalismo. Da ultimo ci aiuta a fare questa doverosa riflessione appunto Domenico De Masi, sociologo e professore emerito di Sociologia del lavoro alla Sapienza di Roma in questo suo ultimo libro (poco più di cento pagine), dove ricostruisce come e perché il neoliberalismo (Scuola di Vienna e poi Scuola di Chicago, insieme all’ordoliberalismo tedesco e poi della Ue) è diventato egemone sconfiggendo John Maynard Keynes, la Scuola di Francoforte, la democrazia e negando la felicità – per altro da esso sempre promessa (insieme alla libertà individuale) e in realtà sempre tradita e negata nei fatti.
De Masi richiama ovviamente l’incipit della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti del 1776 – “tutti gli uomini sono creati uguali e hanno diritti inalienabili, tra cui la vita, la libertà e la ricerca della felicità”, cioè: la ricerca della felicità è un diritto inalienabile dell’uomo e inalienabile significa che in nessun modo può essere alienato ad altri. Ma poi De Masi scrive e si domanda (e tutti noi dovremmo domandarci): “come può esserci progresso senza felicità e come si può essere felici in un mondo segnato dalla distribuzione iniqua della ricchezza, del lavoro, del potere, del sapere, delle opportunità e delle tutele”? E risponde: “questa “inumana disuguaglianza, non avviene a caso, ma è lo scopo intenzionale e l’esito raggiunto di una politica economica che ha come base l’egoismo, come metodo la concorrenza e come obiettivo l’infelicità”. Ma questo, aggiunge De Masi, lo aveva capito già molto bene Karl Marx, che scriveva: “Siccome una società, secondo [Adam] Smith non è felice dove la maggioranza soffre […] bisogna concludere che l’infelicità della società è lo scopo dell’economia politica. […] Gli unici ingranaggi che l’economia politica mette in moto sono l’avidità di denaro e la guerra tra coloro che ne sono affetti, la concorrenza”[8]. Ovvero, aggiungiamo noi, l’economia è una scienza triste per definizione e vocazione… ed è per nascondere questa sua produzione di tristezza che industrializza anche la ricerca della felicità (industria dello spettacolo e della distrazione di massa, industria del turismo e del divertimento, industria del consumismo, industria dei social e della condivisione) o si allea alla tecnologia, che invece sembra renderci felici, offrendosi a noi come un meraviglioso gioco/giocattolo, sempre nuovo e diverso, noi accontentandoci (ma ci sembra tantissimo e di questo siamo grati a Mark Zuckerberg e a tutti i social) di quella dose di dopamina, cioè di quella piccola ma importante dose di felicità che la rete attiva in noi per farci produrre sempre più dati, creando la nostra funzionale dipendenza[9].
De Masi, dunque, analizza come il neoliberalismo sia oggi diventato egemone (non ci sono alternative al mercato e alla competizione di tutti contro tutti, dice il mantra ideologico neoliberale, che più illiberale non potrebbe essere). Ci spiega come questo neoliberalismo, che voleva sconfiggere non solo il socialismo ma lo stesso liberalismo keynesiano, fosse fin dalle origini profondamente anti-democratico; von Mises ad esempio predicando “che tra libertà politica ed economia occorresse sacrificare la democrazia”, contrapponendo “un internazionalismo capitalista a quello socialista” e considerando positivamente il fascismo, perché “non si può negare che il fascismo e tutte le tendenze dittatoriali analoghe siano animate dalle migliori intenzioni e che il loro intervento, per il momento, abbia salvato la civiltà europea. I meriti acquisiti dal fascismo con la sua azione rimarranno in eterno nella storia”. Mentre von Hayek, un altro dei padri dell’ideologia neoliberale – fondata nel 1938 nei Colloqui Lippmann di Parigi e poi sostenuta dalla Mont Pèlerin Society e dalla crescente occupazione da parte dei neoliberali dei posti di potere nelle istituzioni culturali, nelle università, negli organismi internazionali, così da costruire appunto una egemonia culturale/accademica e di governance globale (pensiamo al Washington Consensus) – von Hayek proponendo “un liberalismo che relegasse a un piano secondario le libertà politiche e i diritti civili”[10]. Il fine era comunque quello di trasformare la società in mercato e l’individuo in impresa di se stesso, facendo del capitalismo una autentica forma di vita accettata ed anzi condivisa – che è appunto quanto constatiamo oggi, perché il neoliberalismo – testato per la prima volta in Cile dopo il golpe fascista di Pinochet del 1973, e poi applicato al mondo intero – non è morto, anzi non è mai stato così bene, ed è al governo anche in Italia con il neoliberale Mario Draghi.
Uscire dal senso di smarrimento
Oggi, infatti, si continua a riprodurre il pensiero unico neoliberale/neoliberista delle Scuole di Vienna e di Chicago. Scuole che – scrive De Masi – “hanno collocato al centro dei loro studi l’interesse della borghesia e la necessità di difenderla dagli attacchi del proletariato, fornendole una teoria economica capace di battere, nella pratica, quella elaborata da Marx. Le parole chiave del loro paradigma sono: individuo, soggettivismo, […], capitalismo, libero mercato, flessibilità […], deregulation, privatizzazioni, divisione del lavoro, spirito imprenditoriale, […], globalizzazione, conservazione, innovazione”.
E per questo i suoi ideologi sono stati “grandi tessitori di lobby potenti e di reti estese a tutti i livelli”[11]. Di fatto – continua De Masi – “hanno condotto contro il socialismo” (noi diciamo; contro la democrazia e i diritti sociali, persino contro il liberalismo democratico di Keynes), “una Guerra fredda culturale parallela e intrecciata a quella politica e militare, piazzandosi accanto al Pentagono, a Hollywood, a Wall Street e, da ultimo, alla Silicon Valley”[12].
E prosegue: “Oggi nel mondo intero la velocità prevale sulla lentezza, l’omologazione prevale sull’identità, la virtualità sulla tangibilità e l’ibridazione sulla separazione; la mercificazione si estende dai beni materiali ai beni immateriali, ai rapporti personali, alla cultura. […] Le difficoltà nel metabolizzare tutte insieme queste molteplici trasformazioni, insieme al crescente pericolo di manipolazione, sorveglianza, eterodirezione, eterocontrollo, eccessiva astrazione, violazione della privacy, massificazione, emarginazione, disoccupazione, digital divide e stress, generano l’attuale, diffuso senso di smarrimento e di crisi che, a sua volta, può degenerare in anomia, depressione, angoscia, conflittualità, aggressività, autolesionismo”[13].
E allora torniamo all’inizio con una domanda: e se il ritorno del bisogno di un sindacato e di una azione collettiva fosse proprio una prima risposta a questo senso di smarrimento e di crisi prodotto deliberatamente dal neoliberalismo? Se fosse espressione del bisogno di riprendersi il diritto alla felicità (che significa anche o soprattutto immaginare un mondo diverso e migliore, cioè una alternativa a quello esistente), da parte di chi l’ha persa in questo mezzo secolo di egemonia neoliberale?
Conclusioni
Conclude De Masi, come concluderebbe Marx: “L’esperienza definisce felicissimo l’uomo che ha reso felice il maggior numero di altri uomini. Se abbiamo scelto nella vita una posizione in cui possiamo meglio operare per l’umanità, nessun peso ci può piegare, perché i sacrifici vanno a beneficio di tutti; allora non proveremo una gioia meschina, limitata, egoistica, ma la nostra felicità apparterrà a milioni di persone, le nostre azioni vivranno silenziosamente, ma per sempre”[14].
Note
- Sul tema rimandiamo a: R. Staglianò, “Gigacapitalisti”, Einaudi, Torino 2022 ↑
- A. Wiener, “La valle oscura”, Adelphi, Milano 2020 ↑
- L. Demichelis, “La Silicon Valley, da utopia a distopia” – https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/silicon-valley-da-utopia-a-distopia-due-notizie-buone-e-una-cattiva-per-immaginare-il-2021/ ↑
- D. De Masi, “La felicità negata”, Einaudi, Torino 2022 ↑
- https://www.nytimes.com/2022/06/18/technology/apple-union-maryland.html;
https://ilmanifesto.it/sulla-faccia-nascosta-di-apple-sbarca-il-primo-sindacato ↑
- M. Catucci, “Sulla faccia nascosta di Apple sbarca il primo sindacato”- https://ilmanifesto.it/sulla-faccia-nascosta-di-apple-sbarca-il-primo-sindacato ↑
- L. Demichelis, “La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo”, Jaca Book, Milano 2018 ↑
- D. De Masi, “La felicità negata”, cit., pag. 4 ↑
- Cfr., J. Lanier, “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social”, il Saggiatore, Milano 2018 ↑
- D. De Masi, “La felicità negata”, cit., pag. 47 ↑
- Ivi, pag. 77 ↑
- Ivi, pag. 78 ↑
- Ivi, pag. 100 ↑
- Ivi, pag. 137 ↑